Com’è possibile che un paese minacci pubblicamente di rendersi responsabile di crimini di guerra, talmente gravi da essere equiparati a un genocidio, e anzi li metta in atto davanti agli occhi di tutto il mondo senza subire la minima conseguenza o anche solo la condanna della “comunità internazionale”, parte della quale addirittura garantisce il proprio appoggio a questo stesso paese? La risposta è facile da individuare per chi sta seguendo i drammatici eventi mediorientali di questi giorni e ha a che fare con il fatto che il paese (regime) in questione si chiama Israele ed è protetto in tutto e per tutto dagli Stati Uniti perché, in primo luogo, assicura la promozione degli interessi americani in una delle regioni strategicamente più importanti del pianeta.

A meno di tredici mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Robert F. Kennedy jr. ha deciso di rompere ufficialmente con la tradizione famigliare e di abbandonare il Partito Democratico per partecipare alla corsa alla Casa Bianca da candidato indipendente. Figlio di Bobby Kennedy e nipote di JFK, l’avvocato e attivista appartenente a una delle dinastie politiche americane più note e influenti era entrato nella competizione lo scorso aprile, facendo segnare quasi subito livelli di gradimento di tutto rispetto nonostante l’ostilità dei media mainstream e del suo stesso partito. Da “indipendente”, Kennedy jr. potrebbe intercettare voti tra gli elettori democratici e repubblicani, anche se l’immediata riconoscibilità del nome e l’insistenza su un’agenda marcatamente “anti-sistema” non gli saranno con ogni probabilità sufficienti a rompere il monopolio dei due principali partiti che dominano la scena politica americana.

Al di là delle implicazioni strategiche e politiche, l’attacco senza precedenti lanciato contro lo stato sionista dalla resistenza palestinese a partire dalla nottata di venerdì rappresenta un atto di rivolta legittimo contro il regime di occupazione. Le ragioni che hanno portato alla sconvolgente esplosione di violenza in Medio Oriente sono universalmente note, mentre l’ultima provocazione di Israele risale solo ad alcuni giorni fa con la marcia di centinaia di coloni ebrei sul sito sacro ai musulmani della moschea di Al-Aqsa grazie alla protezione delle forze di polizia. Anche se è per il momento difficile prevedere se il conflitto che ne è seguito si allargherà a tutta la regione o resterà circoscritto e di breve durata, i riflessi che avrà sugli equilibri mediorientali si possono già da ora ipotizzare, a cominciare da quelli sul processo di “normalizzazione” in atto – quanto meno fino a pochi giorni fa – tra Israele e alcuni paesi arabi.

Normalmente le notizie dal Medio Oriente riportano gli attacchi israeliani in territorio palestinese. Questa volta, sorprendentemente per alcuni, sta accadendo il contrario. Questa volta Gaza non si difende, ma attacca. Sono passati 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur e i commandos delle Brigate Al Aqsa di Hamas entrano via terra e via aria, con missili e con pick-up. È un'operazione improvvisa e inaspettata, così improvvisa che la vigilanza ebraica viene sopraffatta; i commandos palestinesi penetrano in profondità e prendono il controllo di alcune città israeliane. In termini di ampiezza, profondità ed efficacia, è probabilmente la più grande operazione militare palestinese in territorio israeliano.

Il successo elettorale nel fine settimana del partito socialdemocratico (SMER-SD) dell’ex premier, Robert Fico, in Slovacchia non fa che confermare il progressivo spostamento dell’opinione pubblica e di parte della classe dirigente europea su posizioni più critiche nei confronti dell’integralismo filo-ucraino promosso da Washington. La formazione del nuovo governo è probabilmente lontana ancora di alcune settimane, ma le promesse del vincitore del voto di sabato scorso a proposito del conflitto in corso hanno già mandato in crisi l’amministrazione Biden e i vertici UE, assieme al regime di Zelensky, preoccupati per il diffondersi di una nuova tendenza in Europa che potrebbe a breve rallentare drasticamente il flusso di aiuti destinati al buco nero dell’Ucraina.


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