Se le motivazioni alla base del primo attentato alla vita di Donald Trump lo scorso mese di luglio restano in larga misura avvolte nel mistero, molto più chiare sembrano essere quelle collegate alla sparatoria e all’arresto del 58enne Ryan Wesley Routh all’esterno del Golf Club di proprietà dell’ex presidente in Florida. La notizia era circolata nel pomeriggio americano di domenica ed è subito stata sfruttata politicamente da un Trump uscito relativamente in difficoltà dal recente dibattito presidenziale con Kamala Harris. Mentre il candidato repubblicano, a differenza del primo episodio in Pennsylvania, non ha riportato traumi né ferite, i fatti del fine settimana sollevano interrogativi molto preoccupanti sul clima ultra-tossico creato dalla guerra in Ucraina. Soprattutto perché, con l’avvicinarsi dell’epilogo del conflitto, le forze di estrema destra coltivate dall’Occidente in funzione anti-russa potrebbero attivarsi nuovamente contro chiunque intenda perseguire una qualsiasi soluzione diplomatica.

Pubblichiamo la seconda ed ultima parte dell’intervista a Samuel Ramirez, Coordinatore del Movir, l’organizzazione che difende le vittime della repressione del regime. Ci concentriamo sulla situazione economico-sociale del Paese, che sembra essere l’altra faccia della medaglia della repressione. Poniamo dunque un’ultima domanda proprio sul contesto generale dell’economia salvadoregna.

Con l’intensificarsi della violenza israeliana a Gaza e in Cisgiordania, i governi dei paesi arabi e musulmani in genere si sono visti costretti a denunciare pubblicamente, spesso in maniera molto decisa, la strage di palestinesi per mano del regime sionista. Dietro le apparenze, però, molti di questi paesi non solo non hanno fatto finora nulla per cercare di fermare il genocidio in corso, ma stanno addirittura favorendo le operazioni militari dello stato ebraico. È infatti grazie alla loro collaborazione che i traffici commerciali da e per Israele proseguono quasi indisturbati nonostante la guerra e il blocco del Mar Rosso da parte del governo di Ansarallah (“Houthis”) in Yemen, di fatto l’unico paese arabo ad appoggiare concretamente la resistenza e il popolo palestinese.

In uno dei tradizionali inutili esercizi pseudo-democratici previsti dalla stagione elettorale negli Stati Uniti, il pubblico americano ha assistito nella serata di martedì al primo e, forse, unico dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris. La maggior parte di media e analisti “mainstream” ha commentato l’evento, tenuto per la cronaca presso il National Constitution Center di Philadelphia e trasmesso da ABC News, con un certo grado di serietà, discutendo su quale dei due candidati sia uscito vincitore dalla serata e su quali punti di forza o debolezze siano emerse. Non ci saranno tuttavia effetti significativi sulle percentuali di gradimento di entrambi, né sono diventate più chiare le rispettive posizioni sui vari temi affrontati. Quello che invece il dibattito ha regalato è un’ulteriore dimostrazione della crisi terminale della “democrazia” americana, dove la verità dei fatti, i processi decisionali e di selezione del potere sono tenuti rigorosamente lontani dagli occhi della stragrande maggioranza della popolazione.

La disperazione del regime di Zelensky continua a manifestarsi con attacchi militari contro obiettivi civili in territorio russo che non hanno evidentemente alcuna utilità tattica né strategica. L’ultimo episodio è stato registrato alle prime ore di martedì con l’incursione di una dozzina di droni alla periferia sud-orientale di Mosca, in seguito alla quale ha perso la vita una donna di 46 anni. Questa operazione arriva a poche ore dalla presa di posizione inedita del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, che nella giornata di domenica aveva sollecitato pubblicamente il lancio di un processo diplomatico per mettere fine alla guerra in corso dal febbraio 2022.


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