Il Recovery Fund, per ora, è un guscio talmente vuoto che permette a tutti di cantare vittoria. I Paesi del Nord disinnescano la mina degli Eurobond, quelli del Sud sventolano un pezzo di carta su cui sta scritto che il nuovo Fondo è “necessario e urgente”. Purtroppo, la lista delle cose su cui siamo tutti d’accordo finisce qui.

Al Consiglio europeo della settimana scorsa, i capi di Stato e di governo dell’Ue non hanno iniziato a convergere verso un’intesa: al contrario, hanno celebrato una spaccatura. Il Fondo annunciato dopo tre ore di videoconferenza, al momento, è poco più di un titolo. Del nuovo strumento non si sa praticamente nulla: quanti soldi conterrà? Come ci arriveranno? In che modo e quando saranno distribuiti agli Stati?

A queste domande dovrebbe rispondere la Commissione europea, incaricata dal Consiglio di presentare una proposta sull’architettura del nuovo strumento entro il 6 maggio (scadenza già slittata al 7 per tenere conto delle previsioni economiche di primavera, che arriveranno proprio quel giorno). Dopo di che, il testo passerà al vaglio dell’Eurogruppo, che dovrebbe fornire una base d’accordo per la prossima riunione del Consiglio europeo, prevista (stavolta in presenza) a inizio giugno.

Insomma, i passaggi sono ancora tanti e i punti su cui negoziare tantissimi. Ad oggi, l’unica certezza è che il Fondo sarà collegato al nuovo bilancio settennale dell’Unione europea, su cui i governi già litigano da due anni.

Secondo alcune ipotesi circolate la settimana scorsa, l’idea sarebbe di mobilitare 2mila miliardi di euro, circa il doppio di un normale bilancio Ue. A queste risorse andrebbe aggiunto il Fondo, che sarà temporaneo (2021-2027), e dovrebbe avere una portata di 320 miliardi. Per mettere insieme questi soldi, la Commissione europea – forte della tripla A riconosciuta dalle agenzie di rating – lancerà un’emissione obbligazionaria che, in teoria, potrebbe essere sottoscritta al 100% dalla Bce. L’operazione non vìola i trattati e consente a Berlino di mettere una pietra tombale sugli Eurobond, perché – anche se i soldi della Commissione arrivano dai trasferimenti dei singoli Stati – l’emissione diretta di titoli da parte di Bruxelles non comporta alcuna mutualizzazione dei debiti pubblici.

Sempre in teoria, i finanziamenti verrebbero girati ai governi metà sotto forma di prestiti e metà come erogazioni a fondo perduto per programmi specifici destinati ai Paesi più colpiti dall’emergenza. Su questo punto però non c’è accordo: Francia e Italia vorrebbero premere sul pedale del fondo perduto, mentre i nordici (soprattutto Olanda e Svezia) sostengono che il Fondo dovrebbe emettere solo prestiti.

L’altro grande problema riguarda i tempi. Il nuovo bilancio Ue sarà operativo solo dal 2021, ma visto che l’intervento è “urgente” bisognerebbe trovare una soluzione-ponte per far arrivare i primi soldi già in estate. Stando ad alcune indiscrezioni, la Commissione proporrà di lanciare subito il Fondo con delle garanzie temporanee da parte degli Stati, per poi agganciarlo al bilancio dal primo gennaio.

Tuttavia, è facile prevedere che anche questa ipotesi incontrerà l’opposizione di Olanda & Co. Il premier dell’Aia, Mark Rutte, ha già detto che da qui a fine 2020 possono bastare le misure varate dall’Eurogruppo e approvate dall’ultimo Consiglio Ue. Si tratta di un pacchetto da 540 miliardi: 200 per nuovi crediti della Banca europea per gli investimenti (Bei) alle piccole e medie imprese, 100 per il progetto “Sure”, una sorta di cassa integrazione europea, e 240 per i prestiti senza condizionalità del Mes.

Il Consiglio europeo ha affermato in modo esplicito che l’accesso al Fondo salva-Stati non imporrà alcuna condizione sul rigore dei conti pubblici, purché le risorse siano usate per le spese sanitarie “dirette e indirette” legate all’epidemia.

La rassicurazione però non è bastata a calmare gli animi in Italia. Al contrario, la destra finge che il Mes sia stato appena creato per imporci chissà quale austerità, mentre il governo – pur continuando, giustamente, a stanziare decine di miliardi in deficit – sta pensando di rinunciare ai 36 miliardi che il Fondo salva-Stati potrebbe garantire al nostro Sistema Sanitario Nazionale.

Un manipolo di grillini riuscirà così a salvare la faccia davanti alla sua cerchia di elettori intransigenti e poco informati. Alla fine, però, da questo teatrino surreale usciranno sconfitte le categorie che più avrebbero bisogno di sostegno: medici, infermieri e malati.

Il Congresso degli Stati Uniti sta per approvare in via definitiva un nuovo pacchetto di aiuti all’economia americana devastata dal Coronavirus che, come i precedenti, rischia di diventare quasi per intero un regalo a grandi banche e corporations. A livello ufficiale, quello licenziato martedì all’unanimità dal Senato dovrebbe essere un intervento destinato a rimpinguare il fondo creato per le piccole aziende USA in difficoltà, in modo da evitare licenziamenti che andrebbero a ingrossare un esercito di disoccupati già salito di oltre 22 milioni di unità solo nell’ultimo mese.

Il provvedimento vale complessivamente 484 miliardi di dollari e la parte più consistente, cioè 320 miliardi, va appunto ad aggiungersi a quanto già stanziato in precedenza per il cosiddetto “Paycheck Protection Program” (“PPP”). Quest’ultimo aveva avuto in dotazione 350 miliardi nel mese di marzo nell’ambito del piano da 2.200 miliardi (“CARES Act”) approvato dal Congresso per contenere l’impatto dell’epidemia di COVID-19.

Un paio di giorni dopo l’annuncio dei paesi produttori di petrolio sul taglio della produzione di greggio per fermare il rapido crollo delle quotazioni internazionali, i dubbi sull’efficacia del provvedimento sembrano tutt’altro che dissolti. Le implicazioni strategiche dell’accordo sull’asse Mosca-Washington-Riyadh e le scosse generate sui mercati dall’emergenza Coronavirus rendono particolarmente dubbia la stabilizzazione del mercato energetico nei prossimi mesi,  nonostante l’intervento diretto nella vicenda dello stesso presidente americano Trump.

La riunione in videoconferenza dei leader dei paesi OPEC, in aggiunta ad altri membri del G20 produttori di petrolio, aveva portato domenica sera a un’intesa dell’ultimo minuto per togliere dal mercato a partire da maggio 9,7 milioni di barili di petrolio al giorno. Il formato entro il quale da qualche tempo vengono prese le più importanti decisioni in ambito petrolifero è noto come OPEC+, perché allargato alla Russia. In questo caso hanno preso parte ai negoziati anche altri paesi al di fuori dell’OPEC, a cominciare – significativamente – dagli Stati Uniti.

La decisione del fine settimana era stata subito accolta con scetticismo, visto che i nuovi scenari globali, dovuti alla pandemia di COVID-19, hanno ridotto la richiesta di greggio di oltre il 30% su una produzione complessiva quotidiana di circa 100 milioni di barili. In ogni caso, dal primo luglio al 31 dicembre 2010, il taglio ammonterà a 7,7 milioni di barili e infine a 5,8 milioni fino al 30 aprile 2022. Su queste basi, lunedì i prezzi del “Brent” e del parametro di riferimento del petrolio USA (“WTI”) erano saliti di appena l’1%.

Sempre lunedì, Trump è allora ricorso a Twitter per assicurare che le notizie sul taglio di circa 10 milioni di barili al giorno non erano corrette o risultavano quanto meno incomplete. Il ridimensionamento della produzione dovrebbe toccare infatti i 20 milioni di barili al giorno, una volta considerati gli impegni alla riduzione dei produttori al di fuori dell’OPEC.

Tra questi ultimi ci sono proprio gli Stati Uniti, storicamente contrari a partecipare ad accordi di “cartelli” come l’organizzazione con sede a Vienna. La posizione americana appare a questo proposito complessa. Russia e Arabia Saudita nel mese di marzo avevano messo in atto manovre deliberate per inondare di greggio un mercato già saturo e in presenza di una domanda internazionale in fase calante. I sauditi, in particolare, avevano applicato forti sconti alle esportazioni di petrolio, in modo da sottrarre quote di mercato ai propri concorrenti.

Per Riyadh e soprattutto per Mosca, l’obiettivo cruciale era colpire la produzione di petrolio americano che aveva beneficiato della stabilizzazione dei prezzi negli ultimi anni, derivante appunto dall’intesa tra Russia e Arabia Saudita nel quadro del cosiddetto OPEC+. Quotazioni attorno ai 20/30 dollari il barile o addirittura inferiori risultano infatti insostenibili per l’industria estrattiva sul suolo statunitense, dove a operare, oltre ai giganti del settore, sono molte compagnie di dimensioni più o meno ridotte con costi di produzione elevati e spesso fortemente indebitate.

Il coinvolgimento di Washington nelle trattative internazionali è diventato perciò necessario per evitare una valanga di fallimenti e l’aggiunta di altre centinaia di migliaia di disoccupati a quelli già provocati dalle chiusure in molti settori dell’economia a causa dell’epidemia in corso. Trump ha così ostentato il suo contributo a un accordo con Russia e Arabia Saudita, ma gli effetti benefici che esso potrà avere per l’industria petrolifera USA e per il mercato globale sono tutt’altro che certi.

Uno degli aspetti da valutare sarà l’effettivo impegno americano per il taglio della produzione. L’amministrazione Trump è sembrata attestarsi sulla posizione tradizionale degli Stati Uniti, sostenendo che la riduzione non avverrà in seguito a una decisione politica ma in conseguenza del calo della domanda internazionale di greggio. Nei giorni precedenti l’intesa, ambienti del Cremlino avevano escluso che ciò potesse bastare per dare il proprio consenso, mentre, a loro dire, era necessario un impegno esplicito da parte di Washington, visti anche i vantaggi goduti finora dai produttori americani sostanzialmente a discapito di Mosca (e Riyadh).

Sui contenuti dell’accordo condiviso da Trump e Putin non vi è ancora chiarezza ma è evidente che sarà in primo luogo questo aspetto a determinare l’efficacia di quanto deciso domenica dall’OPEC e dagli altri paesi produttori. Alcuni commentatori hanno fatto notare, in maniera forse fin troppo ottimistica, come dietro le quinte possa essere stata siglata una sorta di intesa informale tra i due leader per gettare le basi di una cooperazione strategica di più ampia portata, favorita anche dal venir meno degli ostacoli del “Russiagate” e dell’impeachment.

Malgrado le ovvie resistenze degli ambienti russofobi negli USA, Trump avrebbe un certo spazio di manovra in questo frangente, alla luce anche del fatto che in gioco c’è la sorte stessa dell’industria petrolifera americana, legata precisamente alle posizione russe. Il nodo ancora da sciogliere resta per molti la natura di ciò che Mosca otterrà in cambio del via libera alla relativa stabilizzazione delle quotazioni di greggio a cui puntava la Casa Bianca.

Qualcuno ha individuato però nella mossa del Cremlino un’altra manovra a lungo termine di Putin, messa in atto proprio quando le posizioni del suo governo apparivano inflessibili. L’ex ambasciatore indiano e commentatore di affari internazionali, M. K. Bhadrakumar, nel suo blog Indian Punchline ha spiegato che il presidente russo non ha in fin dei conti alcun interesse a mandare in rovina l’industria estrattiva americana.

Piuttosto, Putin ha voluto gettare un salvagente alla Casa Bianca, evitando l’aggravarsi della crisi economica negli USA per tenere aperta la strada della riconciliazione tra le due potenze. In definitiva, il precipitare della situazione in questo ambito non farebbe che mettere in difficoltà Trump alla vigilia delle presidenziali, favorendo una vittoria alle urne a novembre di Joe Biden e di un Partito Democratico notoriamente meno disposti a considerare il ristabilimento di relazioni cordiali con  Mosca.

Le variabili e le incognite restano dunque parecchie. Il sito specializzato su questioni petrolifere Energy Intelligence ha ricordato che i precedenti dei paesi OPEC sul fronte del rispetto degli impegni presi a livello ufficiale non sono incoraggianti. Visto che in questo caso l’accordo appena siglato comporta la collaborazione anche di paesi al di fuori dal cartello, è evidente la fragilità dell’impalcatura su cui esso si basa.

Altri commentatori hanno inoltre ricordato che i tagli appena decisi, se anche dovessero concretizzarsi per intero, non sarebbero sufficienti a bilanciare il crollo della domanda mondiale di greggio. In un tweet di qualche giorno fa, l’analista Ellen Wald ha spiegato come “il problema sia la domanda e, quando le economie sono in lockdown, anche i prezzi bassi del greggio non sono in grado di agire da stimolo”.

Scontri e disaccordi vari tra le parti coinvolte rischiano a loro volta di minare l’accordo, al di là della sua efficacia. Già il fatto che i negoziati abbiano dato frutti solo in extremis e che la quantità di barili da tagliare sia diminuita rispetto a una prima proposta circolata all’OPEC appaiono elementi rivelatori. Per quanto riguarda il primo aspetto, significativi sono stati gli ostacoli sorti attorno alla posizione del Messico, i quali avevano ritardato e messo a serio rischio la definizione dell’intesa.

Il governo di questo paese aveva respinto la propria quota di tagli alla produzione, dicendosi disponibile solo ad accettare una riduzione pari a un quarto di essa, ovvero 100 mila barili al giorno, così da evitare decisioni politiche delicate nell’ambito dello sforzo in atto per invertire il calo di produzione che da tempo affligge il settore energetico messicano. A sbloccare l’impasse sarebbe stato l’intervento di Trump e l’impegno, tutt’altro che garantito, dei produttori americani a farsi carico della riduzione dei restanti 300 mila barili inizialmente spettanti al Messico.

Anche l’Arabia Saudita, infine, già all’indomani dell’accordo è sembrata muoversi in direzione contraria. Lunedì, il gigante petrolifero Aramco ha infatti annunciato nuovi sconti ai prezzi del greggio estratto nel regno per i clienti asiatici. Come gesto poco più che simbolico per accontentare la Casa Bianca, Riyadh ha invece mantenuto stabili le quotazioni destinate all’Europa e aumentato quelle per il petrolio diretto vero gli Stati Uniti.

Le posizioni contraddittorie dei sauditi sono da ricondurre almeno in parte alle frizioni con l’alleato americano, sia per la competizione sul mercato petrolifero sia a causa delle minacce nemmeno troppo velate giunte nei giorni scorsi da alcuni membri del Congresso di Washington per convincere i reali a tagliare la propria produzione. D’altro canto, Riyadh potrebbe non essere in grado di sostenere a lungo il gioco al ribasso sui prezzi del petrolio, poiché da questa risorsa dipende in larghissima misura un bilancio già segnato negli ultimi anni da buchi crescenti che, almeno in prospettiva, minacciano seriamente la stabilità del regno wahhabita.

Un topolino, anche abbastanza striminzito. Dopo una trattativa estenuante, la montagna dell’Eurogruppo ha partorito un accordicchio che definire al ribasso sarebbe poco. Il pacchetto di misure vale 500 miliardi, cioè meno della metà di quanto auspicavano Francia e Italia. Come sempre, i ministri europei dell’Economia ostentano soddisfazione in coro, ma la loro è un’intesa finta, poco più di un trucco per passare la palla ai capi di Stato e di Governo. Saranno loro a prendere le decisioni che contano e soprattutto a fare chiarezza sui molti punti lasciati volutamente nell’ombra dall’Eurogruppo.

Lo chiamano “nuovo Piano Marshall”, ma il paragone non regge, almeno per ora. Fra il 1948 e il 1952 gli Stati Uniti versarono nelle economie europee 13 miliardi di dollari fra prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate agricole. Oggi, invece, l’Europa non riesce a mettersi d’accordo su come prestare soldi a se stessa. E parliamo di crediti a tassi molto ridotti, non certo a fondo perduto

Martedì si terrà una riunione dell’Eurogruppo importante, ma probabilmente non decisiva. Il Fronte del Nord (Germania, Olanda, Austria) e il Blocco Mediterraneo (Francia, Italia, Spagna) hanno posizioni ancora molto distanti e ipotizzare un accordo in settimana è difficile. Per questo il prossimo Consiglio Ue, chiamato ad approvare il piano anticrisi, dovrebbe slittare dal 9 aprile a dopo Pasqua.


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