- Dettagli
- Scritto da Carlo Musilli
Finora abbiamo deciso di non decidere e alla fine, probabilmente, chiederemo un rinvio. Il 13 dicembre i capi di Stato e di Governo dell’Ue voteranno sulla riforma del Meccanismo europeo di Stabilità (per gli amici, il caro vecchio Fondo Salva Stati) e al momento lo scenario più plausibile è che l’Italia cerchi di prendere tempo. Se il provvedimento passasse il mese prossimo, infatti, il Parlamento italiano dovrebbe ratificarlo già a gennaio, subito dopo la sessione di bilancio e subito prima delle elezioni in Emilia Romagna (dove i due alleati di governo si presentano separati). A quel punto – vista la contrarietà di molti grillini e di Leu al nuovo Mes – la tenuta della maggioranza sarebbe a rischio. È alla luce di queste considerazioni che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si esporrà a una magra figura in quel di Bruxelles, facendo mancare l’unanimità necessaria per riformare il Meccanismo.
- Dettagli
- Scritto da Carlo Musilli
Il dibattito sul completamento dell’Unione bancaria europea, in stallo da anni per l’opposizione della Germania, torna improvvisamente d’attualità. E, a sorpresa, è proprio un tedesco a rilanciarlo. Si tratta del socialdemocratico Olaf Scholz, vicecancelliere e ministro delle Finanze del governo Merkel, che in una lettera al Financial Times sottolinea la necessità di portare compimento il famoso “terzo pilastro”.
I primi due - vigilanza unica e meccanismo di risoluzione unico delle crisi bancarie - sono stati realizzati nel 2014 e nel 2016. Il terzo, la garanzia comune sui depositi bancari, ha subìto finora lo stesso trattamento riservato agli Eurobond: è stato rinviato in continuazione, fino a uscire dall’agenda europea, proprio per le resistenze della Germania, determinata a non spendere nemmeno un euro dei contribuenti tedeschi per salvare le banche di altri Paesi. Del resto, gli elettori teutonici impazzirebbero a dover condividere i rischi di noi scialacquatori mediterranei.
- Dettagli
- Scritto da Carlo Musilli
Whatever it takes: a qualunque costo. È questa la frase iconica con cui Mario Draghi sarà ricordato nei manuali di storia dell’economia. La pronunciò il 26 luglio del 2012, infliggendo un colpo micidiale agli speculatori che scommettevano sul crollo dell’euro. All’epoca Draghi era alle fasi iniziali del mandato alla guida della Bce, che oggi, dopo otto anni, giunge al termine.
Nelle ultime settimane si è tornato a parlare del bazooka, l’insieme di misure espansive che l’Eurotower sta per riattivare. La più importante è il Quantitative easing, il programma di acquisto titoli, che da novembre ripartirà al ritmo di 20 miliardi al mese.
Noi italiani però dovremmo ringraziare Draghi innanzitutto per un’altra misura quasi sconosciuta al pubblico di massa. Si tratta delle Outright Monetary Transactions (Omt) varate dalla Bce nel settembre 2012, al picco della crisi dei debiti sovrani. Il piano consente all'istituto centrale di acquistare sul mercato secondario (dove vengono scambiati i bond già in circolazione) i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, in modo da raffreddare gli spread. Chi vuole attivare la procedura deve sottoscrivere un memorandum con la Commissione Ue e la stessa Banca centrale, impegnandosi a risanare i propri conti e a varare le riforme strutturali necessarie. L'aspetto chiave del programma è però tutto in un aggettivo: "illimitato". Una volta iniziati, gli acquisti possono proseguire senza alcuna soglia massima stabilita preventivamente. A qualunque costo, appunto.
Le Omt non furono mai utilizzate, ma il solo effetto-annuncio bastò a spegnere l’incendio sui mercati. Gli speculatori si ritrovarono in mano un'arma scarica: chi in passato aveva scommesso contro Paesi come Italia e Spagna, puntando sui rialzi dello spread, all’improvviso si rese conto che la festa era finita, perché la potenza di fuoco della Bce era (ed è) insuperabile. Fu questa la mossa decisiva per salvare l’Italia dalla bancarotta.
Ma la questione non riguarda solo il nostro Paese. Con le Omt e con il bazooka (taglio dei tassi, Qe, LTRO e TLTRO), Draghi ha tenuto a galla l’intera eurozona, insistendo su una politica monetaria ultra-espansiva che contraddiceva l’austerità venerata per troppo tempo a Bruxelles. I quattro pacchetti varati dalla Bce in questi otto anni sono stati l’unico baluardo eretto dall’Europa contro la crisi, un argine che ha compensato in parte i danni causati dalle politiche fiscali restrittive (e disastrose) dei governi nazionali.
Per ottenere tutto questo, Draghi ha dovuto superare resistenze e contrasti. Il suo principale avversario è stato senza dubbio Jens Weidmann: regolarmente battuto in Consiglio direttivo, il governatore della Bunesdbank è stato infine scavalcato politicamente dalla linea diretta stabilita fra il presidente della Bce e la cancelliera Angela Merkel.
Draghi ha dovuto anche vincere alcune battaglie legali, come quella che ha portato la Corte di giustizia europea a riconoscere la legittimità degli acquisti dei titoli di Stato, purché l’obiettivo rimanga la stabilità dei prezzi, il mandato numero uno nello statuto della Bce.
Alla fine però, nonostante tutto, l’era Draghi non si chiude fra sole luci. In teoria, una politica monetaria espansiva – mettendo in circolo più denaro – dovrebbe spingere i cittadini a consumare, riattivando così l’inflazione. Purtroppo questo assunto scolastico non è più vero da anni: la realtà ci ha insegnato che una politica ultra-espansiva protratta nel tempo fa aumentare la propensione al risparmio, perciò l’inflazione non sale.
Il punto è che per contrastare questa situazione (su cui pesano anche la Brexit e la guerra dei dazi fra Usa e Cina) non si conosce altro modo se non rimbracciare il bazooka, come la Bce sta facendo. Il rischio è di stabilizzare il sistema su questi valori e di non avere più armi da usare in caso si ripresentasse un mostro simile a quello di 11 anni fa.
A questo punto è vitale che i singoli Paesi – Germania in testa – modifichino le proprie politiche economiche in senso espansivo. Draghi lo ripete da mesi: “I Paesi che possono permetterselo devono spendere”. Finora non lo hanno ascoltato e non c’è ragione di credere che la situazione migliorerà con la nuova presidentessa della Bce, Christine Lagarde. Neofita dei bazooka, dopo anni passati a dirigere il disarmante Fmi.
- Dettagli
- Scritto da Carlo Musilli
Nella nuova legge di Bilancio, la matassa più difficile da sbrogliare è senz’altro quella dell’Iva. I tecnici del Governo stanno valutando varie soluzioni, ma ormai il tempo stringe. Questa sera, alle 18.30, il Consiglio dei ministri si riunirà per varare la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, che conterrà lo scheletro della nuova manovra.
Per capire la traiettoria scelta dall’Esecutivo, bisognerà fare attenzione a una percentuale, quella del rapporto deficit-Pil. Grazie a un tesoretto da 7-8 miliardi messo insieme quest’anno in vario modo (risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100, minori interessi sul debito con l’abbassamento dello spread, maggiori entrate fiscali grazie alla fatturazione elettronica) il disavanzo del 2020 dovrebbe attestarsi all’1,6%, contro il 2% programmato. Con questa carta giocare, il Governo chiederà quindi a Bruxelles ulteriore flessibilità. Il punto è capire quanta.
Se alzassimo l’asticella fino al 2,3% - come vorrebbe il M5S, che inizialmente puntava addirittura al 2,5% - l’aumento dello 0,7% varrebbe circa 12 miliardi e mezzo. Stando alle ultime indiscrezioni, però, il Tesoro non si spingerà oltre il 2,1% per non forzare la mano alla Commissione europea, che non pare orientata a concedere di più. Sembrano “numerini” - come li chiamava qualcuno - ma non lo sono: ogni decimale vale ben 1,8 miliardi, soldi fondamentali per far tornare i conti di una manovra molto costosa.
Il saldo finale della legge di Bilancio, infatti, dovrebbe aggirarsi intorno ai 30-35 miliardi: 23,1 per evitare l’aumento dell’Iva, cinque per il taglio del cuneo fiscale e altri 4-5 per le spese indifferibili come le missioni all’estero. Poi ci sono i fondi per la Sanità chiesti dal ministro Roberto Speranza (solo la cancellazione del superticket costerebbe 600 milioni) e quelli per la Pubblica Amministrazione reclamati dalla ministra Fabiana Dadone (serve un miliardo per rinnovare i contratti con aumenti non inferiori agli 85 euro della scorsa tornata, senza contare lo sblocco dei concorsi).
In cantiere c’è anche un poderoso piano anti-evasione, che però - oltre a essere scarsamente credibile, visti gli innumerevoli fallimenti dell’Italia su questo versante - non garantirebbe comunque un gettito certo da iscrivere a bilancio. Di conseguenza, a meno che l’Europa non ci conceda una flessibilità superiore alle aspettative (prospettiva improbabile), bisognerà tagliare altrove.
La prima vittima dovrebbe essere la riduzione del cuneo fiscale caro soprattutto al Pd. Il segretario Nicola Zingaretti ha chiesto di “alzare gli stipendi, a partire da quelli bassi e medi”. Le risorse stanziabili per quest’anno rischiano però di dimezzarsi, passando da cinque a 2,5 miliardi.
Il fronte più incandescente rimane comunque quello dell’Iva. In assenza di correzioni, dal primo gennaio 2020 l’aliquota intermedia passerebbe automaticamente dal 10 al 13% e quella ordinaria dal 22 al 25,2%. Sterilizzare tutto, come detto, costa 23,1 miliardi. Negli ultimi tempi, però, si fa strada nel Governo l’idea di una soluzione alternativa: usare 17 miliardi per impedire l’aumento dell’aliquota ordinaria, alzare quella intermedia dal 10 al 13% solo su alcuni prodotti e infine accorpare in una nuova aliquota dell’8% una serie di altri generi attualmente esenti da Iva oppure tassati al 4 o al 10%. Non solo: nella fascia del 10% rientrano diverse attività a rischio evasione, su cui l’Iva aumenterebbe per chi paga in contanti e rimarrebbe stabile (con credito d’imposta a compensare la differenza) per chi paga con la carta o altri strumenti tracciabili. In questo modo, incentivando l’emersione del nero, il gettito per lo Stato dovrebbe aumentare.
Il progetto è complicatissimo ed espone l’Italia a una serie di rischi politici prima ancora che economici. Sul fronte interno, la Lega avrebbe buon gioco a far passare la rimodulazione delle aliquote più basse come un aumento mascherato e sembra proprio che Renzi e Di Maio non abbiano intenzione di esporsi a cannonate simili. Poi rimarrebbe da convincere l’Europa, che, al contrario, da anni ci chiede di aumentare le tasse su consumi e proprietà per abbassare quelle sul lavoro.
- Dettagli
- Scritto da Carlo Musilli
Nessuno si aspettava i fuochi d’artificio, ma una partenza con meno entusiasmo di questa non si ricorda. All’Ecofin dello scorso fine settimana, i ministri finanziari non hanno imboccato affatto il sentiero che dovrebbe portare a una revisione del Patto di Stabilità. A Helsinki è andato inscena piuttosto un festival della prudenza.
Il più accorto è stato proprio Roberto Gualtieri, che in ambiente Ue è di casa, ma per la prima volta calcava le scene internazionali nei panni di numero uno del Tesoro. “Il governo si muove all’interno delle norme che comprendono un pieno uso della flessibilità, poi si discute del futuro delle regole europee”, ha detto il ministro italiano, chiarendo che - al momento - la priorità del nostro Paese è uscire indenne da una legge di bilancio complessa, il cui primo obiettivo è evitare l’aumento dell’Iva dal primo gennaio.