Con l’imposizione di nuovi dazi sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti per un valore di 200 miliardi di dollari, l’amministrazione Trump ha impresso una pericolosa accelerazione alla guerra commerciale in atto da mesi tra le prime due potenze economiche del pianeta.

 

La decisione è stata condannata da un fronte molto ampio di critici della Casa Bianca, ma il ricorso a misure estreme in ambito commerciale continua a essere uno dei punti cardini del programma dell’amministrazione repubblicana, nonostante i riflessi negativi che esse rischiano di produrre su scala globale.

I destini del reddito di cittadinanza e della flat tax dipendono in larga parte da un solo numero: quello che il governo scriverà nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza - attesa per il 27 settembre - alla voce rapporto deficit-Pil 2019.

 

Nella bozza del Def che il Tesoro ha distribuito al Presidente del Consiglio e ai due Vicepremier, il numero magico è stato fissato all’1,6%. Oltre questa soglia il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non ha intenzione di spingersi. Per un motivo preciso.

 

L’1,6% non è un dato casuale: rappresenta la flessibilità massima che l’Europa può concedere all’Italia senza essere costretta ad aprire una procedura d’infrazione. Cioè un intervento punitivo che abbatterebbe la fiducia dei mercati e innescherebbe la speculazione, facendo lievitare gli interessi sul debito pubblico e costringendo il nostro Paese, già a corto di soldi, a fare nuovi tagli per liberare nuove risorse. Tutto questo ha una motivazione tecnica.

 

Trattati alla mano, l’anno prossimo l’Italia dovrebbe ridurre il deficit strutturale (ossia il dato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum varate dal governo) dello 0,6%. È già sicuro che non lo faremo, ma la procedura d’infrazione scatterà soltanto se la correzione non avverrà affatto. Basterà cioè un miglioramento dello 0,1% perché Bruxelles si limiti a un semplice richiamo nei confronti del governo di Roma (com’è accaduto quasi sempre negli ultimi anni). E il deficit-Pil all’1,6% corrisponde proprio a una correzione del deficit strutturale pari allo 0,1%. Un po’ come le bombe dei film, disinnescate sempre a un secondo dall’esplosione.

 

La strada dello scontro frontale con Bruxelles e con i fondi speculativi non è percorribile. A malincuore, Salvini e Di Maio se ne sono resi conto e – dopo aver “fatto danni” con “tante parole”, per dirla con Mario Draghi – da qualche settimana hanno moderato i toni, riuscendo a raffreddare lo spread. Il problema ora è capire quali saranno le conseguenze sulla prossima legge di Bilancio, visto che fra la cancellazione degli aumenti Iva (12,4 miliardi) e le spese correnti, lo spazio per rimanere entro l’1,6% non è molto.

 

La Lega ha già accantonato il progetto originario della flat tax. Il mostro da 50 miliardi che avrebbe permesso ai ricchi di pagare le stesse tasse dei poveri non vedrà mai la luce. Ora si punta a ridurre le aliquote Irpef da cinque a tre, ma solo nel 2020. I leghisti hanno rinunciato anche all’ipotesi di tagliare l’aliquota Irpef più bassa dal 23 al 22%, misura che sarebbe costata 4 miliardi e che avrebbe portato ai contribuenti in media 150 euro in più all’anno. Resta invece sul tavolo l’estensione del regime forfettario a tutte le partite Iva che fatturano fino a 100mila euro l’anno (il limite attuale è di 25-50mila euro, a seconda dell’attività). Il costo sarebbe di un miliardo e mezzo. Altro che 50.

 

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, la situazione è più complessa. I grillini si sono rassegnati a restringere il perimetro della misura: la proposta iniziale prevedeva di concedere 780 euro al mese ai 2,8 milioni di famiglie italiane che vivono sotto la soglia di povertà relativa, ma poi Di Maio ha parlato in un’intervista di “5 milioni di persone”, cioè i singoli individui che vivono in condizioni di povertà assoluta.

 

Il costo dell’intervento scende così da 17 a 9 miliardi l’anno, che si ridurrebbero a 4-5 se la misura diventasse operativa da luglio (i pentastellati preferirebbero maggio, mese in cui si terranno le elezioni europee). Il governo ha già in tasca i 2,6 miliardi stanziati dall’esecutivo Gentiloni per il reddito di inclusione, perciò al Tesoro non resterebbe che racimolare un altro paio di miliardi.

 

La maggioranza ha valutato anche l’ipotesi di cancellare gli 80 euro renziani e di far scattare gli aumenti dell’Iva per avere a disposizione una ventina di miliardi in più. Ma entrambe le idee sono state accantonate: la prima perché colpirebbe 11 milioni di contribuenti, la seconda perché un rincaro della tassa sui consumi sarebbe percepita dagli elettori come alto tradimento. L’unica alternativa, perciò, è cambiare il contratto di governo fingendo che nulla cambi.

“No, per favore, questa roba degli 80 euro no. Sono una cazzata. Sono soldi pagati a chi lavora da chi non lavora. È il pensionato che paga gli 80 euro in busta paga”. Queste le parole pronunciate da Matteo Salvini nel marzo del 2015, durante un dibattito con Roberto Speranza a diMartedì, su La7.

 

Nell’aprile del 2014, sulla stessa rete, Luigi Di Maio era intervenuto a Bersaglio Mobile per dire che gli 80 euro erano “una grande operazione elettorale, altrimenti non si spiegherebbe perché tu trovi un tot di miliardi e decidi di destinarli con questo bonus alle buste paga. Abbiamo un Presidente del Consiglio che aggiunge una voce in busta paga che si chiama bonus e ci mette 80 euro, a una categoria di persone che, per fortuna, ha una busta paga. Facevano prima a scrivere, al posto di bonus, Vota PD”.

“I dati sono la risposta migliore: non c’è modo di intimidirli”. Con queste parole Tito Boeri rilancia contro il vicepremier Matteo Salvini, che martedì aveva minacciato di rimuoverlo dalla presidenza dell’Inps. Nel presentare a Montecitorio la Relazione annuale dell’Istituto di previdenza, l’economista bocconiano non solo ribadisce le posizioni sui migranti che avevano fatto saltare i nervi al leader leghista, ma rincara la dose, attaccando il governo anche su altri due fronti: il Decreto Dignità varato lunedì e il progetto di controriforma delle pensioni. 

 

Questa settimana, Boeri ha detto e ripetuto che l’Italia ha bisogno di “aumentare l’immigrazione regolare”, altrimenti in futuro i contributi non basteranno a pagare le pensioni. Per due ragioni. Primo, “perché sono “tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere”. Secondo, perché il nostro sistema previdenziale “non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro”.

L’ombrello di Francoforte sta per chiudersi, ma di pioggia non dovremmo morire. La settimana scorsa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha annunciato che il 31 dicembre sarà interrotto il Quantitative easing, il programma di acquisto titoli che negli ultimi tre anni ha portato nella pancia della Banca centrale europea migliaia di miliardi di euro in obbligazioni pubbliche e private dell’Eurozona. Non solo: a partire dalla prossima estate torneranno a salire anche i tassi d’interesse.

 

Cosa significa tutto questo? All’orizzonte non ci sono invasioni di locuste o spari dai tetti, ma qualcosa cambierà.

 

Innanzitutto, per le casse dello Stato. Senza gli acquisti calmieranti della Bce, i rendimenti sui nostri titoli pubblici saliranno. Secondo l'economista Carlo Cottarelli, l’anno prossimo un aumento stabile dell’1% comporterebbe un costo aggiuntivo per finanziare il debito pari a 3,7 miliardi di euro.


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