Lo psicodramma della manovra di fine anno è passato da poco, ma già si palesa il fantasma della manovrina di primavera. A evocarlo è la Banca d’Italia, che nel suo ultimo bollettino mensile ridicolizza tutte le ciarle economiche distillate dal governo negli ultimi due mesi e mezzo.

 

L’istituto centrale ha tagliato di netto le previsioni sulla crescita del Pil italiano nel 2019, portandole dall’1 allo 0,6%. E il rallentamento, a quanto pare, non è da ricondurre solo allo scenario internazionale, su cui pesa la guerra dei dazi fra Usa e Cina. Anzi, delle tre cause elencate nel bollettino, due sono interne: primo, “dati più sfavorevoli sull’attività economica osservati nell’ultima parte del 2018, che hanno ridotto la crescita già acquisita per la media di quest’anno di 0,2 punti”; secondo, “il ridimensionamento dei piani d’investimento delle imprese che risulta dagli ultimi sondaggi”; infine, solo al terzo posto, “le prospettive di rallentamento del commercio mondiale”.

 

Ma non è finita. Secondo Bankitalia, il nostro Paese è già in recessione tecnica, espressione che si usa quando l’andamento del Pil è negativo per due trimestri consecutivi. Dopo il -0,1% registrato fra luglio e settembre, “gli indicatori congiunturali disponibili suggeriscono che l’attività potrebbe essere ancora diminuita nel quarto trimestre”, prosegue il bollettino. E ancora una volta non sono le difficoltà del commercio internazionale a preoccupare maggiormente, quanto “la riduzione della domanda interna, in particolare degli investimenti, e, in misura minore, della spesa delle famiglie”.

 

L’analisi della Banca d’Italia stride in modo clamoroso con la rappresentazione della realtà fornita dal governo. Facciamo un passo indietro. A novembre, in piena trattativa con l’Europa sulla legge di Bilancio, l’Esecutivo sosteneva che nel 2019 l’Italia sarebbe cresciuta dell’1,5%. I centri studi di tutto il mondo sbugiardavano questa previsione, ma all’epoca il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, era ancora sicuro del fatto suo, tanto da accusare Bruxelles di sbagliare i calcoli. In una nota ufficiale, il ministro si era detto addirittura “dispiaciuto” per la “défaillance tecnica della Commissione”.

 

Nemmeno un mese dopo, il governo si è smentito da solo riducendo la stima di un terzo, all’1%. “Ma credo che l’economia si rimetterà in moto – precisava Tria il 19 dicembre – e mi aspetto una crescita più alta rispetto a quella che abbiamo stimato”.

 

All’11 gennaio risalgono invece le affermazioni del vicepremier grillino, Luigi Di Maio, sulla possibilità di un miracolo economico in salsa gialloverde: “Credo che un nuovo boom possa nascere - le parole del capo politico pentastellato agli Stati generali dei consulenti del lavoro - Come negli anni Sessanta abbiamo costruito le autostrade, oggi possiamo costruire autostrade digitali. Dobbiamo puntare su queste nuove opportunità di lavoro”.

 

Poco dopo queste affermazioni del numero uno grillino, erano arrivati i dati Istat sulla produzione industriale di novembre: -2,6% su base annua (-19% per il settore auto), il calo peggiore dall’ottobre del 2014. Dopo di che, la settimana scorsa, il bollettino di Bankitalia ha rincarato la dose.

 

E ora che succede? Meno Pil significa minor gettito, quindi più deficit, e siccome già a dicembre abbiamo già schivato di un pelo la procedura d’infrazione Ue per disavanzo eccessivo, è assai probabile che i vigilanti di Bruxelles ci chiedano in corso d’anno una correzione di almeno tre miliardi. Il problema è capire quando dovremmo farla. In teoria, il Def è in agenda per marzo-aprile, peccato che a maggio ci siano le elezioni europee. È davvero ipotizzabile una manovrina fatta di tagli e tasse in piena campagna elettorale? Non ci crederebbe nemmeno un terrapiattista. Risultato: i litigi con l’Europa torneranno d’attualità prima che l’inverno sia finito.

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