Dopo un triennio di debole ripresa del Mezzogiorno, nel 2018 si riapre la forbice col Centro Nord. Nel 2018, secondo l'annuale rapporto Svimez “L'economia e la società del Mezzogiorno”, il Sud ha fatto registrare una crescita del PIL di appena lo 0,6 per cento rispetto.all'1 per cento del 2017. Mentre il Centro Nord ha recuperato e superato livelli precisi, il Mezzogiorno risente ancora del calo dei consumi privati delle famiglie, che avevano più che compensato il crollo degli investimenti pubblici, i quali, nel 2018, avevo investito in opere pubbliche 102 euro procapite contro i 278 nel Centro Nord - e del mancato apporto del settore pubblico.

Sui conti pubblici l’Italia non è stata promossia ma rimandata a ottobre. La settimana scorsa la Commissione europea ha stabilito che non c’è più ragione di aprire una procedura d’infrazione contro il nostro Paese: si tratta però di una tregua fragile e temporanea, destinata a saltare fra non più di tre mesi. Abbastanza per evitare le elezioni a settembre – la prospettiva peggiore secondo il Quirinale – ma non per rimettere insieme i cocci di una maggioranza sempre più indecisa sulla strada da prendere.

L’unica abitudine che Salvini, Di Maio e Tria condividono è quella di smentirsi da soli. Tutti e tre avevano assicurato per mesi che non avrebbero mai varato una manovra correttiva, invece è esattamente quello che hanno fatto. Anche se, naturalmente, non hanno avuto il coraggio di ammetterlo. Facciamo un po’ di conti.

Bruxelles ci chiedeva di tagliare nove miliardi per compensare il buco dei bilanci 2018-2019 e di indicare le misure con cui intendiamo compensare nel 2020 il mancato aumento dell’Iva e l’avvio della flat tax. Durante il G20 di Osaka si è raggiunto un compromesso molto vicino alle richieste europee. Il Governo ha dato il via libera a una correzione da 7,6 miliardi, ottenuta attraverso due provvedimenti: l’assestamento di bilancio vero e proprio, da 6,1 miliardi, e un ulteriore decreto per bloccare immediatamente 1,5 miliardi risparmiati su quota 100 e reddito di cittadinanza, viste le richieste inferiori alle attese.

“La correzione in termini strutturali è leggermente superiore, pari a 8,2 miliardi, lo 0,45 % del Pil – spiega la Commissione europea – il che porta a un miglioramento del saldo strutturale di circa lo 0,2 % del Pil (rispetto a un deterioramento dello 0,2 % nelle previsioni di primavera 2019 della Commissione). La differenza rispetto all'importo nominale è dovuta alle entrate una tantum inferiori alle attese del condono fiscale per un importo di circa 0,6 miliardi, che peggiora l'obiettivo fiscale in termini nominali ma non in termini strutturali”. 

C’è dell’altro. Il Governo italiano ha anche accettato di mettere nero su bianco l’impegno a “rispettare il Patto di stabilità nel 2020”. La lettera, firmata da Conte e Tria, è risultata fondamentale per convincere Bruxelles, ma nel nostro Paese è stata largamente ignorata. E non è un caso: quel testo segna la resa politica di Salvini e Di Maio di fronte all’Europa e pone una gigantesca ipoteca sulla realizzabilità delle promesse elettorali dei due leader.

Senza contare che la situazione per il Governo italiano si farà ancora più complessa dal primo novembre, quando si insedierà la nuova Commissione Ue. A guidarla sarà la tedesca Ursula von der Leyen, molto più rigorista in economia sia del suo predecessore, Jean Claude Juncker, sia del socialista olandese Timmermans, che i leghisti hanno scelto d’impallinare per seguire ciecamente i finti alleati di Visegrad.

Sarà questo l’Esecutivo comunitario che “sorveglierà attentamente l'esecuzione del bilancio italiano 2019 – si legge ancora nella nota di Bruxelles – e valuterà la conformità del documento programmatico di bilancio 2020 al Patto di stabilità e crescita”.

All’orizzonte s’intravede una nuova battaglia sulla legge di Bilancio: l’Europa si aspetterà che l’Italia rispetti gli impegni, mentre il nostro Governo pretenderà di aumentare ancora il deficit per sterilizzare l’aumento dell’Iva (che da solo costa 23 miliardi) e soprattutto per varare la Flat tax, che la vulgata salviniana vuole da “almeno 15 miliardi”.

Il tutto sullo sfondo dell’ennesima campagna elettorale, visto che tra la fine dell’anno e i primi mesi del 2020 si voterà in tre regioni importanti: Emilia Romagna, Veneto e Toscana.

A quel punto, ricominceremo a chiederci quanto ancora Salvini potrà resistere prima di reclamare Palazzo Chigi. 

Nel tentativo di scongiurare la procedura d’infrazione europea, Giuseppe Conte e Giovanni Tria si stanno trasformando in trapezisti contabili. Salti mortali e volteggi si fanno ogni giorno più estremi e sotto, purtroppo, non c’è alcuna rete. Solo il pavimento, sempre più vicino.

 

Il capo del Governo se n’è accorto la settimana scorsa al Consiglio europeo sulle nomine, dove non ha trovato la collaborazione che si aspettava. “Evitare la procedura – ha ammesso – sarà davvero complicato”. Ed è un eufemismo, visto che, solo per iniziare, il governo dovrebbe presentare mercoledì un assestamento di bilancio da sette miliardi di euro.

Sta accadendo il contrario di quello che il Governo italiano aveva previsto. Salvini & Co pensavano che le elezioni europee avrebbero indotto Bruxelles a diventare più morbida nei nostri confronti, invece il cambiamento è stato di segno opposto. La trattativa sulla procedura d’infrazione viaggia su binari molto meno accondiscendenti che in passato e rischia di accelerare la caduta dell’Esecutivo.

 

Fino a pochi giorni fa l’Italia pensava che per evitare il peggio bastasse una correzione da 3,5 miliardi sui conti del 2019 e una serie d’impegni per l’anno prossimo. Purtroppo, però, le tante sparate elettoralistiche dei due vicepremier hanno azzerato la credibilità del nostro Paese e i partner europei hanno alzato l’asticella.

 

Ora non solo ci chiedono di tappare il buco del 2019, ma anche quello dell’anno scorso. Considerato uno sconto per il crollo del ponte Morandi e per i lavori contro il dissesto idrogeologico, rimangono da trovare 9 miliardi di euro. La cifra potrebbe scendere, ma questa è la base di partenza del negoziato e la strada del compromesso sembra sempre più difficile. Anche perché ormai l’Italia è completamente isolata.

 

La settimana scorsa al Comitato economico e finanziario, che riunisce i direttori generali del Tesoro di tutti i Paesi, la procedura d’infrazione è stata votata da 27 membri su 28, cioè da tutti, visto che il 28esimo membro siamo noi. La stessa compattezza è stata poi ribadita alle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. Intendiamoci, non tutti vogliono castigare il nostro Paese: al contrario, Parigi, Berlino e Madrid preferirebbero evitare lo scontro con un Paese economicamente rilevante come il nostro, ma per disinnescare la procedura pretendono comunque degli impegni che i gialloverdi non sembrano intenzionati a prendere.

 

E così siamo allo stallo, tanto più preoccupante visto che ormai il tempo stringe. L’Italia deve inviare a Bruxelles una lettera di risposta almeno qualche giorno prima del 9 luglio, quando si riunirà l’Ecofin a cui spetta il verdetto finale.

 

Se alla fine la procedura scatterà, le conseguenze saranno pesantissime. I conti pubblici del nostro paese finiranno sotto commissariamento europeo per almeno cinque anni, il che significherà non solo spesa pubblica congelata, ma anche un piano di rientro dal debito da almeno una decina di miliardi l’anno. Il tutto condito con visite periodiche degli “ispettori” comunitari, almeno una volta ogni tre mesi. E se ci rifiuteremo ancora di obbedire, arriveranno le vere e proprie sanzioni economiche. 

 

Nel frattempo, il debito italiano tornerà al centro della speculazione internazionale e i tassi d’interesse su Bot e Btp schizzeranno alle stelle. I danni saranno immediati, visto che nel secondo semestre di quest’anno dovremo rinnovare titoli di Stato per quasi 200 miliardi di euro. Non solo: a settembre le agenzie di rating pubblicheranno le nuove valutazioni e un eventuale declassamento costringerebbe persino la Bce a non comprare più le obbligazioni pubbliche italiane.

 

Un bel quadretto disastroso. Ma come ci siamo arrivati? Il peccato originario è stato nell’autunno del 2018, quando i pentaleghisti decisero di violare le regole europee sul debito (ricordate le esultanze sul balcone?). Dopo di che, a dicembre, hanno cercato di tappare la falla sottoscrivendo un accordo suicida con la Commissione: oltre a clausole Iva molto più pesanti che in passato, l’intesa prevedeva di chiudere il 2019 con un deficit-Pil al 2,04% (invece del 2,4% voluto dai legastellati: il famoso “colpo di genio” comunicativo di Rocco Casalino).

 

Poi però, ad aprile, il Governo ha dovuto ammettere nel Def che il disavanzo di quest’anno arriverà al 2,4%. Infine, hanno cambiato idea ancora una volta.

 

Ora secondo il Tesoro il dato tornerà a scendere nei prossimi mesi, fino ad attestarsi poco sopra il 2,1% a fine 2019. A determinare il calo saranno le maggiori entrate tributarie (grazie all’Iva spinta dalla fattura elettronica), gli utili e i dividendi delle aziende di Stato e soprattutto i risparmi sui fondi stanziati per quota 100 e reddito di cittadinanza.

Il problema è che, se anche questi calcoli fossero verosimili, non basterebbero da soli a scongiurare la procedura d’infrazione. La questione principale riguarda infatti i conti del 2020, che rischiano di essere pesantemente sballati.

 

Secondo l’Europa, in assenza di correzioni, l’anno prossimo il debito pubblico italiano si spingerà oltre il 135% del Pil, mentre il deficit arriverà al 3,5%, mezzo punto oltre la soglia di Maastricht. Peraltro, questi calcoli non tengono conto della montagna di soldi che il governo italiano sembra determinato a spendere con la manovra d’autunno: 23 miliardi per evitare gli aumenti dell’Iva più altri 12-15 per la Flat tax.

 

La verità è che la tassa piatta non si potrà fare comunque, perché i soldi non ci sono - neanche lontanamente - e finanziare un’altra misura del genere in deficit sarebbe un harakiri contabile. Del resto, l’Europa non ce lo permetterebbe in alcun caso: se accettassimo le richieste di Bruxelles, dovremmo archiviare la Flat tax; se le rifiutassimo faremmo scattare la procedura, il Paese finirebbe sotto commissariamento europeo e la Flat tax tornerebbe comunque nel regno dei sogni.

 

Matteo Salvini si trova davanti a un bivio impossibile. Per evitarlo, potrebbe scegliere di far saltare tutto, aprendo ufficialmente la crisi di governo entro il 20 luglio, così da tornare al voto a fine settembre. In questo modo gli si aprirebbe davanti una vi di fuga: la responsabilità delle elezioni anticipate si potrebbe facilmente scaricare sull’Europa, mentre Bruxelles, per non influenzare la campagna elettorale, potrebbe sospendere la procedura, riattivandola poi automaticamente alla formazione del nuovo governo. Ma a quel punto saremo ormai in autunno inoltrato. E, probabilmente, Salvini sarà già a Palazzo Chigi.

I minibot rischiano di essere per l’economia italiana quello che l’asteroide fu per i dinosauri. Causa d’estinzione. Solo che al momento non si avvistano corpi celesti in rotta di collisione con la Terra, mentre dei minibot parla con tono incredibilmente serio nelle stanze del Governo.

 

E dire che all’inizio sembrava uno scherzo. L’idea si è manifestata per la prima volta fra le sinapsi leghiste qualche anno fa, ma all’epoca le sparate del Carroccio venivano accolte dall’intellighenzia italiana con un sorriso e un’alzata di spalle. Come fossero tutte boutade, caroselli folk, carnevalate inconsistenti tipo la secessione da Roma Ladrona.

 

Invece, nel giro di poco tempo, la Lega è passata da fenomeno di costume a primo partito italiano e i minibot sono usciti dal regno delle ampolle nel Po per diventare un reale argomento di discussione nell’Esecutivo.


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