Altro che Brexit. Altro che dazi. Altro che Alitalia e Ilva. A pesare più di ogni altra variabile sul futuro economico dell’Italia è la demografia. Secondo gli analisti della Banca d’Italia, che la settimana scorsa hanno pubblicato una rielaborazione di un loro recente studio, nei prossimi 22 anni i problemi legati alla composizione anagrafica degli italiani faranno crollare il Pil del 15% e il reddito pro-capite del 13%.

Il problema è ormai di vecchia data, ma negli ultimi anni si è aggravato. Il Censis ha calcolato che dal 2015 la popolazione italiana è diminuita di 436mila unità: come se in quattro anni fossero sparite - tutte insieme - Ancona, Terni, Pescara e Piacenza.

 

E le prospettive per il futuro non sono affatto migliori. Anzi. Sempre stando alle valutazioni di Bankitalia, perderemo 1,2 milioni di residenti nei prossimi 20 anni e addirittura 5,6 nei prossimi 40. Il numero è pari alla somma degli abitanti di Roma, Milano, Napoli e Genova.

Ma entriamo più nel dettaglio, dando un’occhiata alle fasce d’età. Come rilevato da Giuliano Cazzola in un recente seminario all’Università di Modena e Reggio Emilia, oggi gli italiani fra i 30 e i 34 anni sono 3,4 milioni, mentre quelli fra i 40 e i 44 sono 4,4 milioni. Morale della favola: fra 10 anni, quando i 30enni di oggi diventeranno 40enni – entrando così nell’età più produttiva in termini economici – saranno troppo pochi. “Un milione di braccia e di cervelli in meno” per “il pilastro centrale del capitale umano e della forza lavoro”, scrive Cazzola.

In teoria, per rimediare allo squilibrio fra popolazione attiva e pensionati, nel 2030 i 30enni di oggi (futuri 40enni) dovrebbero raggiungere un tasso d’occupazione pari al 95%. È più probabile uno sbarco alieno, visto che al momento la stessa generazione si ferma al 67,9%, un livello lontanissimo sia dalla media Ue (79,1%) sia dalla stessa rilevazione fatta 10 anni fa sui 40enni italiani di oggi (74,8%). Ma non è finita: al momento, sempre fra i 30-34enni, “abbiamo anche il più alto numero in Europa di Neet”, cioè di persone che non studiano e non lavorano, “e il più basso numero di laureati – continua Cazzola – il che li rende ancor meno spendibili sul mercato del lavoro”.

Il problema sarà aggravato dal fatto che in futuro si ridurrà il numero degli immigrati, i quali (comprensibilmente) sceglieranno in massa di stabilirsi nei Paesi del Nord Europa, più ricchi di lavoro e di prospettive. Al di là della retorica salviniana, che nulla ha a che vedere con la realtà, questa dinamica sarà davvero drammatica per il nostro Paese. Ancora la Banca d’Italia (non esattamente un centro sociale) sostiene che, senza immigrati, fra il 2001 e il 2011 il Pil del nostro Paese sarebbe diminuito del 4,4%. Con gli immigrati, invece, è aumentato del 2,3%.

Ora, quante speranze abbiamo di tamponare l’emorragia in arrivo? Poche. Anche alzare l’età pensionabile (cioè cancellare quota 100 e fare l’esatto contrario) non basterebbe. L’unica strada sarebbe innescare un’impennata della produttività, che però in Italia è al palo da 20 anni. Servirà davvero un mezzo miracolo, anche perché nel frattempo i lavoratori italiani si faranno sempre più anziani, quindi meno aggiornati, meno capaci di utilizzare le tecnologie, meno resistenti fisicamente. In due parole: meno produttivi.   

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