In uno dei momenti più drammatici nella storia della Repubblica, il governo rischia di cadere per uno dei motivi più stupidi di sempre. L’avversione del Movimento 5 Stelle per il Meccanismo europeo di stabilità, meglio conosciuto come fondo salva Stati. Mercoledì il Senato (dove i numeri della maggioranza sono più risicati) è chiamato ad approvare la riforma europea del Mes, che l’Italia - a causa dei grillini - tiene in sospeso da oltre un anno, bloccando su questo fronte l’intera Unione europea. La questione non ha nulla a che vedere con l’utilizzo o meno del Mes sanitario, il fondo d’emergenza varato la scorsa primavera in funzione anti-Covid e che potrebbe garantire all’Italia circa 37 miliardi.

Al di là della risposta immediata alla crisi, l’andamento dell’economia italiana nei prossimi anni dipenderà in buona parte da due fattori: la riforma del Patto di Stabilità e l’esito della partita sul Recovery Fund. Sul primo fronte c’è una doppia decisione da prendere. Innanzitutto, l’Europa deve stabilire quando riattivare le regole del Patto (ora sospese per fronteggiare la pandemia): nel 2022, come chiedono i falchi, o nel 2023, come vorrebbero le colombe? L’altro dilemma è ancora più complicato, perché riguarda la correzione delle regole. Se fra due o tre anni tornassero in vigore le vecchie norme, i vari Paesi – Italia in testa – sarebbero costretti ad abbattere i debiti (esplosi a causa del Covid) con una nuova ondata di austerità che impedirebbe la ripresa delle economie.

Per scongiurare questo scenario, nel 2021 il commissario europeo agli Affari Economici, Paolo Gentiloni, presenterà una proposta di riforma del Patto che conterrà un allentamento dei vincoli. La trattativa si annuncia lunga e complicata, ma l’obiettivo sembra comunque più realistico rispetto alla cancellazione del debito-Covid ventilata dal presidente dell’Europalamento, David Sassoli, in un’intervista a Repubblica.

Non è finita. La riforma del Patto di Stabilità porterà con sé una discussione ancora più ambiziosa: quella sulla possibilità di rendere permanenti gli eurobond. Al momento, le obbligazioni comunitarie servono solo a finanziare il Recovery Fund, per cui il loro orizzonte non va oltre il 2023, anno di scadenza del Fondo da 750 miliardi. Sganciare gli eurobond dallo strumento di emergenza e rendere quindi stabile la condivisione del debito europeo sarebbe la più grande rivoluzione finanziaria dalla nascita della moneta unica. Ma, secondo i Paesi favorevoli, perché la proposta abbia una chance di passare è cruciale che Italia e Spagna usino bene i fondi del Recovery Fund. In questo modo, i falchi del Nord potrebbero convincersi che quelli impiegati per gli eurobond sono soldi ben spesi (attenzione: il condizionale dell’ultima frase è grande come l’Olanda).

È qui che i due temi (Patto di Stabilità e Recovery Fund) si intrecciano. Visto che l’Italia è di gran lunga il primo beneficiario del Recovery Fund (208 miliardi: 127 in prestiti più 81 a fondo perduto) e che gli eurobond sarebbero manna dal cielo soprattutto per il nostro Paese, in molti a Bruxelles si aspettavano che il piano di Roma su come utilizzare gli aiuti fosse il primo ad arrivare. Invece non è stato così.

Per inviare il documento c’è tempo fino alla prima metà di gennaio e il governo italiano smentisce tutte le indiscrezioni su presunti ritardi, ma – conoscendo le capacità di programmazione del nostro Paese – l’ansia è comprensibile. Non solo in relazione ai tempi, ma anche alla sostanza: il vero pericolo è che il piano italiano sia azzoppato dal più classico degli assalti alla diligenza, con il fiume di soldi che si disperde in migliaia di rigagnoli ministeriali.

Intanto, la settimana scorsa Ungheria e Polonia hanno bloccato l’approvazione del Recovery Fund e del bilancio Ue pur di non accettare la “rule of law”, che vincola il trasferimento dei soldi al rispetto delle norme dello Stato di Diritto (indipendenza della magistratura, libertà della stampa…). L’obiettivo delle istituzioni europee è ricomporre la frattura al vertice del 10 dicembre con un’acrobazia diplomatica. Se ci riusciranno, la partenza del Recovery slitterà da gennaio a febbraio-marzo (servono 2-3 mesi per le ratifiche nazionali). Altrimenti, i tempi si allungheranno ancora. E l’Italia, come gli altri Paesi, rischierà di non incassare una serie di miliardi già iscritti a bilancio con l’ultima manovra.

Tra un Dpcm e l’altro, con una mano il governo scrive la legge di Bilancio, mentre con l’altra si occupa della riforma fiscale in agenda per il 2022. Di quest’ultimo capitolo si parla poco: l’argomento è tecnico e il legame con il dramma di queste settimane non risulta immediatamente evidente. Eppure, si tratta di una materia cruciale per il nostro futuro, sia perché la raffica di manovre varate quest’anno ha fatto schizzare il debito oltre il 160% del Pil, sia perché – quando lo tsunami del Covid sarà passato – dovremo trovare i soldi per pagare servizi e prestazioni sociali. È a questo che, in teoria, servono le tasse.

Purtroppo, le riforme fiscali importanti impiegano anni a dispiegare i propri effetti, mentre i politici che le scrivono hanno bisogno di catturare (o mantenere) consensi nel breve periodo. Per questa ragione, di solito, le leggi in questo campo sono sempre lacunose, insufficienti, inefficaci o addirittura dannose per le casse dello Stato.

L’esempio tipico è quello del rapporto fra le maggioranze parlamentari e l’esercito degli evasori italiani. Nel nostro Paese si vincono le elezioni promettendo ai cittadini che le loro scorrettezze contabili saranno ignorate o addirittura favorite: quasi tutti i governi parlano di “lotta all’evasione”, ma nessuno fa sul serio. Questo spiega per quale ragione l’attuale Esecutivo abbia deciso di bloccare – a causa della pandemia – non solo la riscossione delle cartelle esattoriali, ma anche l’attività di controllo e repressione dell’evasione. A prima vista sembra una mossa controintuitiva: proprio ora che il bisogno di risorse è massimo, recuperare i soldi imboscati dai grandi evasori sarebbe vitale. Da noi, però, si ragiona all’inverso, perché l’accondiscendenza verso i criminali del fisco è quasi una forma di folklore.

E quindi la discussione sulla riforma in cantiere si addensa intorno a un solo punto: trovare il modo di abbassare le tasse. Dopo anni di annunci disattesi e di richieste arrivate dall’Ue e dall’Ocse, il governo sembra voler mettere mano alle aliquote Irpef. La gestazione del nuovo sistema (ammesso che arrivi a termine) sarà lunga e faticosa, ma già adesso è chiaro che, se la rimodulazione degli scaglioni comporterà una perdita di gettito, bisognerà allargare la base imponibile.

E sarebbe anche ora, visto che, al momento, l’imposta sui redditi personali non tiene conto di voci fondamentali come le rendite finanziarie, i redditi da capitale, i canoni d’affitto e altro ancora. Questa lacuna mina la progressività del sistema tributario, visto che i regimi speciali previsti per alcune categorie (come le partite Iva) e per alcuni settori (come la cedolare secca nelle locazioni immobiliari) non hanno raggiunto l’obiettivo per cui erano stati pensati, ossia far emergere una fetta della base imponibile nascosta al Fisco.  

Infine, la riforma dovrebbe affrontare a colpi di machete la selva oscura composta da deduzioni e detrazioni. In tutto, il delirio dei bonus all’italiana conta circa 500 agevolazioni, per un valore complessivo che si aggira intorno ai 60 miliardi di euro l’anno. Metterci le mani è davvero un’impresa titanica, che per di più farebbe aumentare la rabbia e calare il consenso nell’elettorato. Ragion per cui, da qualche decina d’anni, tutti i governi che hanno ragionato sul problema si sono posti la stessa domanda: “Chi ce lo fa fare?”.

Le porte girevoli fra politica e finanza sono una delle piaghe più purulente e ignorate della democrazia. Ma hanno una caratteristica che le terrà in vita per sempre: mettono d’accordo tutti gli schieramenti. E così può accadere che uno come Pier Carlo Padoan - già vicesegretario dell’Ocse, ministro dell’Economia dei governi Renzi e Gentiloni, nonché deputato nell’attuale legislatura - possa dimettersi da Montecitorio per essere cooptato nel Cda di Unicredit, con la prospettiva di diventarne presidente. E accade anche che il Pd, pur presentandosi come un partito di sinistra (anzi, centrosinistra), non abbia nulla da obiettare. Manca solo che qualcuno gli faccia le congratulazioni per l’avanzamento di carriera.

L’unico ad aver attaccato con forza la piroetta dell’ex ministro è stato Alessandro Di Battista, che però ha fatto la fine del bambino della fiaba “Al lupo! Al lupo!”. Avendo passato gli ultimi anni a starnazzare fesserie a ciclo continuo, Di Battista non ha alcuna credibilità. Anzi, i suoi attacchi finiscono paradossalmente per aiutare Padoan a presentare la propria scelta come moralmente giusta e coerente con l’etica delle istituzioni.

Solo che, per una volta, Di Battista ha ragione. In linea di principio, quello di Padoan è davvero un conflitto d’interessi gigantesco. Le anime belle del liberismo camuffato ribattono che, a livello formale, la scelta dell’ex ministro è legittima. Ma bisogna essere dei campioni d’ipocrisia per attaccarsi a una giustificazione di questo tipo. Se oggi si può saltare dalla Camera dei Deputati al vertice della seconda banca italiana è solo perché nessun governo ha mai varato una vera legge sul conflitto d’interessi. Se ne parla da decenni, in scia alla tonnellata d’interessi confliggenti di Silvio Berlusconi, ma anche quando l’ex Cavaliere è uscito dal cono di luce nessun governo di centrosinistra è intervenuto a riempire questa lacuna del nostro ordinamento giudiziario. E ora abbiamo capito il perché.     

Le anime belle di cui sopra obiettano anche che, per configurare un vero conflitto d’interessi, occorre che due cariche in contrasto siano ricoperte contemporaneamente. Come nel caso di Berlusconi, che era allo stesso tempo legislatore e imputato, presidente del Consiglio e capo de facto di un impero mediatico controllato attraverso i familiari.

Certo, se lo paragoniamo al dominus di Arcore, Padoan è un boy-scout. Ma non serve arrivare alle vette berlusconiane (peraltro inarrivabili) per essere comunque dalla parte del torto.

È ovvio che Padoan non possa cumulare le cariche di deputato e banchiere: ci mancherebbe. Ma il punto è un altro, e cioè che la nomina al vertice di Unicredit getta un’ombra sul modo in cui Padoan ha gestito le responsabilità pubbliche che gli sono state attribuite. A questo punto, qualsiasi cittadino è legittimano a chiedersi se - come ministro del Tesoro prima e deputato poi - Padoan abbia agito pensando al popolo o alle proprie ambizioni di carriera nell’impresa privata. E ci fermiamo qui alle questioni di principio, senza approfondire le voci secondo cui Padoan sarebbe destinato a fungere da strumento nelle mani dell’amministratore delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier, per la fusione a costo zero con Mps e la successiva creazione di una subholding che controlli solo la maxi-banca italiana, da vendere infine a un gruppo francese.

Dopo di che, c’è anche un problema di decenza. Ora che il Paese deve affrontare la crisi economica più grave dal dopoguerra, ora che c’è da mettere a punto un piano difficilissimo su come usare i soldi del Recovery Fund, ora che il Covid torna a mordere e mette il Paese a rischio di un secondo lockdown, viene da pensare che, in Parlamento, il contributo di un economista con il pedigree di Padoan sia considerato importante. Lui però, proprio adesso, se ne va. Ha deciso che è arrivato il momento di guadagnare soldi veri. Quale senso delle istituzioni dimostra un uomo che fa una scelta simile?

Di sicuro, dimostra a tutti - una volta di più - che la classe politica italiana non ricorda l’articolo 54 della Costituzione, quello che prescrive di adempiere alle funzioni pubbliche con onore. A meno di non credere che - come disse l’Avvocato parlando della Fiat - quel che è bene per Unicredit è bene per l’Italia.

Fino a ieri l’altro Sebastian Kurz, cancelliere d’Austria, spalleggiava il despota ungherese Viktor Orban e la sua politica fascistoide in tema di rifugiati. Poi però - non si sa quando - è arrivata la conversione. Al punto che oggi, novello San Paolo sulla via di Damasco, il brillantinato politico viennese si riscopre alfiere senza macchia dello Stato di diritto. Il motivo? Facile: con questa pantomima spera di rallentare l’attivazione del Recovery Fund.

Non è solo nell’impresa. Al suo fianco si schierano la Svezia, la Finlandia e naturalmente l’Olanda del mai domo Mark Rutte. Insomma, i cari vecchi Frugali, quelli che a luglio battagliavano per ridurre i trasferimenti a fondo perduto e irrigidire le condizioni d’accesso al fondo anticrisi creato dall’Europa. Usciti senza grandi risultati dalla trattativa più importante, ora Kurz e i suoi fratelli cercano in ogni modo di allungare i tempi. E, per ora, ci stanno riuscendo.

Il calendario iniziale era il seguente: via libera del Parlamento europeo al Bilancio Ue 2021-2027 e al Recovery Fund entro settembre/inizio ottobre; ratifica dei parlamenti nazionali entro fine 2020; attivazione del Fondo dal primo gennaio e primi esborsi a partire da aprile. Purtroppo, sappiamo già che questo schema è saltato: dobbiamo solo capire di quanti mesi sarà il ritardo.

Al centro della questione c’è la “rule of law”, la regola che impone il rispetto dei principi dello Stato di diritto per accedere ai soldi europei. I “Frugal Four” chiedono un’applicazione rigida della norma, che invece è rifiutata dai Paesi di Visegrad (in primis Ungheria e Polonia), dove lo Stato di diritto non va granché di moda.

Sullo sfondo, non bisogna dimenticare che a marzo del 2021 si svolgeranno le elezioni politiche olandesi. Sembrano un dettaglio, ma in realtà sono una chiave di lettura: incalzato dall’estrema destra, Rutte cerca di rastrellare consensi facendo slittare l’arrivo dei soldi agli scialacquatori mediterranei. E, già che c’è, nel frattempo veste anche l’armatura da paladino della democrazia.

A farne le spese è in primo luogo l’Italia, il Paese a cui è destinata la fetta più grande della torta (208 miliardi su 750). Al termine dell’ultimo Consiglio europeo, Giuseppe Conte ha detto che il nostro Paese “non permetterà a nessuno di alterare o procrastinare l'entrata in vigore del Recovery Fund”. E ancora: “Si deve lavorare per attuare in tempi rapidi il programma. Gli interventi attuativi non possono mettere in discussione l'impegno politico assunto quando tutta l'Europa ci guardava, nell'arco di un negoziato durato quattro giorni e quattro notti lo scorso luglio”.

Peccato che anche Rutte si appelli all’accordo della scorsa estate: “In questa fase c’è un impegno politico da parte del nostro Parlamento sul pacchetto concordato a luglio - ha detto il premier olandese - Parte dell’accordo era la condizionalità legata al rispetto dello Stato di diritto, che è stata messa nero su bianco. Non è insolito che in una fase come questa ci siano dibattiti intensi sui dettagli più minuti”.

Per fortuna dell’Italia, al momento la presidenza europea è in mano alla Germania, che lavora sottotraccia per raggiungere un compromesso. I tedeschi hanno messo sul tavolo una proposta di mediazione che annacqua la “rule of law” in favore dei Paesi di Visegrád (i soldi verrebbero bloccati solo in caso di violazioni accertate dello Stato di diritto). L’ipotesi è stata respinta dai Frugali e ora Berlino potrebbe cercare un punto di caduta rendendo la regola un po’ più rigida.

L’unica certezza è che questo gioco tattico non potrà durare per sempre, altrimenti l’Italia non sarà l’unico Paese a rimetterci. In caso di mancata approvazione del bilancio europeo entro il 2020, infatti, dal primo gennaio scatterebbe l’esercizio provvisorio e i Frugali perderebbero i loro sconti sui versamenti a Bruxelles. L’accolita di Visegrad, invece, vedrebbe sfumare a sua volta il fiume di miliardi in arrivo con il Recovery Fund. E nemmeno loro se lo possono permettere.


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