Le nuove sanzioni internazionali contro la Russia rischiano di danneggiare soprattutto l’economia europea. Mosca è sotto regime punitivo dal 2014 e, prima di invadere l’Ucraina, ha sicuramente previsto le nuove mosse di Usa e Ue. Ha quindi avuto più tempo degli altri per prepararsi alle conseguenze, organizzandosi su due livelli: le ritorsioni contro l’Europa e la ridefinizione del proprio mercato di import/export, il cui baricentro va sempre più spostandosi verso oriente.

Tra i tanti dossier industriali che attendono da tempo una soluzione, da Atlantia a Tim fino all’automotive, ce n’è uno che sembra procedere verso un possibile approdo: su Ita, nata dalle ceneri di Alitalia, si sono accese luci di interesse da parte del gruppo MSC e di Lufthansa.

Dossier difficili che toccano dei gruppi industriali molto importanti giacciono da tempo sul tavolo di un governo che appare sostanzialmente inerte in proposito. Molte incertezze permangono così sulla questione di Atlantia come su quella di Tim, mentre negli ultimi tempi si è anche aggiunto il problema dell’auto, con relative società di componentistica che faticano molto a seguire il passo delle trasformazioni tecnologiche e di mercato, minacciando così nel nostro paese una strage sociale di cui registriamo in questi mesi le avvisaglie.

La riforma fiscale del governo Draghi è iniqua, perché consiste quasi esclusivamente in una modifica degli scaglioni Irpef. Un intervento che, per sua natura, avvantaggia chi ha di più. E a poco serve la revisione delle detrazioni aggiunta come foglia di fico: in teoria dovrebbe aumentare l’effetto redistributivo, ma in pratica non ci riesce. Anche perché gli italiani più poveri non pagano l’Irpef e quindi sono esclusi a monte dall’operazione.

Il nuovo sistema, introdotto con un maxiemendamento alla legge di Bilancio, inizierà a farsi sentire su pensioni e buste paga a partire da marzo. L’impianto, in sintesi, è questo: il numero degli scaglioni scenderà da cinque a quattro e le due aliquote centrali si ridurranno di qualche punto (dal 27 al 25% sulla fascia di reddito tra 15 e 28mila euro e dal 38 al 35% su quella fra 28 e 50mila euro); l’aliquota più alta, invece – quella del 43%, che oggi si applica oltre i 75mila euro – scatterà sulla parte di reddito che supera i 50mila euro.

La domanda è una sola: chi ci guadagna di più? Stando a una simulazione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio – non proprio un covo di trozkisti – il risparmio fiscale più significativo (765 euro) si avrà nella fascia di reddito fra 42mila e 54 mila euro. Si tratta dei contribuenti che incassano da 3.500 a 4.500 euro lordi al mese: una fetta di popolazione che costituisce il 3,3% della platea, ma riceve il 14,1% delle risorse, pari a un miliardo.

Ora che il governo tedesco è formato, in Europa si può discutere apertamente di come modificare il Patto di Stabilità. I tempi sono maturi anche perché da gennaio inizia il semestre di presidenza francese dell’Ue e sarà proprio Emmanuel Macron – con la sponda di Mario Draghi – a portare sul tavolo di Bruxelles la più ambiziosa delle proposte di riforma.

Il testo circola in modo informale nei ministeri economici di mezzo continente e si articola in tre punti.

Negli ultimi mesi i partiti hanno alzato una cortina fumogena intorno alle pensioni, ma la settimana scorsa la nebbia si è diradata con il via libera del governo alla manovra. La novità principale è questa: nel 2022 gli italiani potranno andare in pensione anticipata con Quota 102, ossia con almeno 64 anni di età e 38 di contributi. Il nuovo meccanismo prende il posto di quota 100, che permetteva di lasciare il lavoro al compimento dei 62 anni (sempre con 38 di contributi). Varata in via sperimentale nel 2019 dal governo Conte 1, la misura di matrice leghista arriva a scadenza il 31 dicembre di quest’anno e non sarà rinnovata.


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