“Correlation is not causation”, dicono gli scienziati. Ovvero, la correlazione non implica un legame di causalità: in assenza di prove certe, “dopo di” non vuol dire “a causa di”. Questa massima accademica può essere riportata anche a un’equazione molto diffusa negli ultimi tempi: “Siccome l’inflazione corre ora che c’è la guerra - è il ragionamento - vuol dire che è stato proprio il conflitto a innescare l’impennata dei prezzi”. La deduzione fila, ma è sbagliata. E neanche di poco.

 

È vero, da quando sono iniziate le ostilità in Ucraina, le quotazioni delle materie prime hanno subìto un’accelerazione. Tuttavia, i rincari che oggi pesano sui nostri bilanci familiari non sono una conseguenza diretta della guerra: al contrario, per la maggior parte si è realizzata prima che la Russia invadesse l’Ucraina, ovvero durante la ripresa che abbiamo celebrato con tanto trionfalismo nel 2021.

La rivelazione arriva da uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani, organizzazione guidata dall’economista Carlo Cottarelli.

I dettagli più sorprendenti riguardano i beni energetici. Secondo l’analisi, la quotazione del gas naturale si è impennata subito dopo lo scoppio del conflitto, ma poi è riscesa, stabilizzandosi su livelli vicini a quelli del periodo pre-guerra. Ad oggi, quindi, l’80% dell’aumento di prezzo registrato a partire dal 31 dicembre 2019 ha avuto luogo prima che iniziassero i combattimenti fra Russia e Ucraina.

La quota di rincaro avvenuta prima del conflitto è praticamente identica per il petrolio Brent (79%), mentre si attesta leggermente sopra la metà per il carbone (51%).

Un discorso analogo vale anche nel settore dei beni alimentari. “Per i tre principali cereali - scrive l’Osservatorio - tra metà e tre quarti dell’aumento è avvenuto” prima della guerra. Nel dettaglio, il dato relativo al riso si attesta al 55%, mentre il frumento arriva al 60% e il mais addirittura al 70%.

Quanto alle materie prime agricole, circa tre quarti dell’aumento del prezzo del cotone è avvenuto nel periodo pre-guerra (73%), mentre la quotazione del legname è addirittura scesa da quando le ostilità sono iniziate.

Infine, sul fronte dei metalli, i prezzi attuali di alluminio, rame e stagno si collocano leggermente al di sotto di quelli registrati subito prima del conflitto, mentre negli altri casi il rincaro è legato a quanto avvenuto prima della guerra per almeno quattro quinti. Fa eccezione solo il nickel, il cui aumento post-guerra è pari a quasi la metà del totale.

Ora, è chiaro che, nella maggior parte dei casi, le majors non si muovono sui mercati in base a quello che leggono sui giornali, ma seguendo le previsioni dei loro strapagati analisti. In altri termini, i colossi finanziari e industriali hanno iniziato a speculare sulla guerra ben prima che l’esercito russo invadesse l’Ucraina.  

Ciò non toglie, però, che la traiettoria dei prezzi puntasse verso l’alto già dall’anno scorso, quando nemmeno il più profetico degli analisti avrebbe ipotizzato ciò che poi è accaduto. Le ragioni erano diverse: strozzature dal lato dell’offerta, eccesso di domanda, cambio di paradigma nella politica monetaria delle banche centrali. La guerra ha fornito quindi il pretesto per un surplus speculativo, ma non è stata il motore primo dell’inflazione.  

Tutto questo significa che, purtroppo, non sono ammesse ipotesi consolatorie: “Se anche la fine delle ostilità portasse a un ritorno dei prezzi delle materie prime ai livelli pre-guerra - conclude l’Osservatorio - questi prezzi resterebbero comunque molto più alti di quelli osservati un paio di anni fa”.

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