Negli Stati Uniti, il mostro dell’inflazione ha ruggito come non faceva da più di quarant’anni. L’indice dei prezzi al consumo di maggio, pubblicato venerdì, ha segnalato un aumento dell’8,6%, contro il +8,2% previsto in media dagli analisti. È il livello più alto dal dicembre del 1981. Quando si parla di inflazione negli Usa, peraltro, bisogna tenere presente che il fenomeno è diverso da quello registrato in Europa, in quanto meno legato ai prezzi energetici e, in prospettiva, ben più pericoloso e difficile da sconfiggere. Lo testimonia il dato relativo all’inflazione di fondo (“core”), depurata cioè dai prezzi più volatili (alimentari ed energia), che è comunque molto alto: +6%, un decimo oltre le attese. 

L’effetto di questi numeri sulla Borsa non si è fatto attendere. Wall Street ha fatto segnare la seduta peggiore delle ultime tre settimane: S&P500 -2,9% e Dow Jones -2,7%. Ancora peggio il Nasdaq: -3,5%.

A questo punto, il mercato teme che la Federal Reserve - il cui braccio operativo (Fomc) si riunirà mercoledì per decidere sui tassi - possa decretare una stretta monetaria più pesante del previsto per contrastare l’aumento dei prezzi, rischiando però di affossare il Pil.

 

Secondo alcuni economisti, il prossimo aumento del costo del denaro potrebbe essere addirittura dello 0,75%. “Non saremo in recessione tecnica, ma per i consumatori è come se lo fossimo”, ha detto Josh Brown, ceo di Ritholtz Wealh Management, commentando il clima di sfiducia che di questi tempi si risconta tanto a Wall Street quanto su Main Street.

I segnali preoccupanti in arrivo dall’economia reale, infatti, non mancano. Per combattere l’inflazione e non dare ai clienti una sensazione d’impoverimento che rischierebbe di scoraggiare i consumi, molte aziende stanno mettendo in atto una strategia nota nel linguaggio del marketing come “shrinkflation”, termine che fonde la parola “inflation” con il verbo “to shrink”, restringere. Si tratta, in sostanza, di mantenere stabili i prezzi riducendo però le dimensioni delle confezioni o il quantitativo di prodotto al loro interno. I fazzoletti contenuti in una scatola di Kleenex, ad esempio, oggi sono 60, mentre un paio di mesi erano 65. Il fenomeno non è nuovo né esclusivo degli Usa (si riscontra anche in Italia), ma prolifera in particolare nelle economie dove l’inflazione è più alta e stabile. Al momento, cioè, negli Stati Uniti.

Un altro indizio sinistro sul funzionamento dell’economia a stelle e strisce arriva da un mercato particolare, quello del latte in polvere. Nelle scorse settimane, gli Usa hanno accusato una grave carenza del principale alimento per neonati come alternativa al latte materno. Il problema ha diverse cause: dalla crisi del commercio globale, che continua a provocare rallentamenti e interruzioni lungo le catene di distribuzione, ai guai della multinazionale Abbott, tra i principali produttori di latte in polvere negli Usa, che a febbraio aveva dovuto chiudere un importante stabilimento nel Michigan in seguito a un’indagine della Food and Drug Administration. Per arginare la crisi, il presidente Joe Biden ha favorito l’aumento della produzione attraverso una legge risalente alla guerra di Corea e sta lavorando per aumentare le importazioni di latte in polvere dall’Europa.

Intanto, per gli Usa arrivano cattive notizie anche dal fronte internazionale. Il giornale "Nikkei" ha scritto che Cina e India hanno deciso di aumentare in maniera significativa gli acquisti di petrolio dalla Russia, approfittando del calo dei prezzi determinato dall’embargo Ue sul greggio di Mosca. Il quotidiano giapponese sottolinea che, in base agli ultimi numeri, gli acquisti di Pechino e Nuova Delhi stanno limitando di molto l'efficacia delle sanzioni euroamericane. Secondo dati Refinitiv, a maggio la Cina ha importato via mare dalla Russia 800 mila barili di petrolio al giorno, il 40% in più rispetto a gennaio. Quanto all'India, tra gennaio e maggio i suoi acquisti di petrolio russo via mare sono passati da zero a quasi 700mila barili al giorno. Peraltro, tutte queste transazioni sono pagate in rubli, yuan e rupie. Un altro motivo di allarme per l’economia del dollaro.

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