“Correlation is not causation”, dicono gli scienziati. Ovvero, la correlazione non implica un legame di causalità: in assenza di prove certe, “dopo di” non vuol dire “a causa di”. Questa massima accademica può essere riportata anche a un’equazione molto diffusa negli ultimi tempi: “Siccome l’inflazione corre ora che c’è la guerra - è il ragionamento - vuol dire che è stato proprio il conflitto a innescare l’impennata dei prezzi”. La deduzione fila, ma è sbagliata. E neanche di poco.

La guerra in Ucraina ha già danneggiato l’economia italiana, ma la situazione rischia di peggiorare. E non poco. Secondo una recente analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il nostro Paese subirebbe una perdita aggiuntiva pari a un punto di Pil nel 2022 e a mezzo punto nel 2023 se la guerra proseguisse fino alla fine della primavera, per poi lasciare spazio a un percorso di normalizzazione esteso al resto dell’anno. Lo stesso scenario avrebbe conseguenze anche sull’inflazione, che aumenterebbe di un punto percentuale in più sia quest’anno sia il prossimo.

Il conto della guerra sarebbe quindi molto salato anche ipotizzando una durata del conflitto relativamente breve.

Gli Stati Uniti stanno spingendo la Russia verso un default artificiale. Di norma, quando uno Stato non paga i propri debiti, le ragioni possibili sono due: non ha abbastanza risorse per farlo oppure le ha ma non intende usarle per soddisfare i creditori. Nel caso di Mosca, invece, la bancarotta è forzata dall’esterno.

Washington ha deciso infatti di bloccare le operazioni di uno dei suoi colossi finanziari, JP Morgan, la banca che ha il compito di gestire i pagamenti dei titoli di Stato russi emessi in dollari. La questione è tecnica, per cui occorrono alcune precisazioni.

Nell’ambito delle sanzioni varate per punire l’invasione dell’Ucraina, gli oltre 600 miliardi di dollari in asset esteri detenuti dalla Banca centrale russa sono già stati congelati, almeno nella parte su cui hanno giurisdizione le banche centrali occidentali.

Se il governo non cambia rapidamente strategia, dal prossimo inverno l’Italia rischia di dover razionare il gas, innescando così una nuova recessione. Il pericolo è concreto e a rilevarlo sono esperti del settore come gli analisti di Nomisma Energia, che nessuno può accusare di essere putiniani. Purtroppo però il ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani, non la pensa così: “Già entro quest’anno avremo una buona diversificazione - ha detto la settimana scorsa in un’intervista al Corriere della Sera -  e se tutto va bene entro due o tre anni saremo completamente indipendenti dalla Russia”. Ammesso che questo sia vero, il problema è capire in che condizioni saremo fra due o tre anni.

Sono in molti al di fuori dei circuiti dei media ufficiali a pensare che il conflitto in Ucraina darà una spinta forse decisiva alle tendenze multipolari in atto già da alcuni anni. A farne le spese sarà il dominio già traballante degli Stati Uniti, con lo spostamento del baricentro strategico globale verso il continente asiatico. Un indizio potenzialmente esplosivo dell’accelerazione che questo processo starebbe vivendo è la notizia, circolata in questi giorni, che l’Arabia Saudita starebbe finalizzando con la Cina un accordo per vendere il proprio petrolio a Pechino non più in dollari ma in yuan. Se confermato, questo scenario rappresenterebbe l’inizio della fine dei cosiddetti “petrodollari”, su cui si basa in gran parte la posizione finora indiscussa dell’America di superpotenza finanziaria e, di conseguenza, economica, politica e militare.


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