Ma quindi, con la riforma del catasto, le tasse sulla casa aumenteranno, diminuiranno o rimarranno uguali a oggi? Negli ultimi giorni abbiamo sentito rispondere a questa domanda in ogni modo possibile. La voce più accorata è stata quella di Matteo Salvini, che ha imposto ai rappresentanti leghisti di non partecipare al Consiglio dei ministri chiamato ad approvare la delega fiscale, il contenitore in cui è inserita la riforma del catasto.

Come una zattera verso una cascata, Mps viaggia spedita verso un destino che pare inevitabile ormai da anni: lo spezzatino e la svendita. La settimana scorsa Unicredit ha annunciato l’avvio di una trattativa in esclusiva con il ministero dell’Economia per la possibile acquisizione di una parte del Monte dei Paschi. La Banca milanese ha così accolto l’appello più volte lanciato dal Tesoro, che da tempo ha individuato in Unicredit l’unico interlocutore possibile per disfarsi dell’istituto senese. Il Mef, ricordiamo, controlla il 64% di Montepaschi e si è impegnato con Bruxelles a riprivatizzare il carrozzone toscano entro il 2022.

Il G20 ha dato il via libera alla “global minimum tax”, una nuova tassa mondiale che punta a cancellare dal pianeta i paradisi fiscali. La struttura è ancora da definire nei dettagli e sarà probabilmente affinata in sede Ocse già dai prossimi giorni. Lo schema di fondo è però chiaro: dal 2023, un’aliquota minima mondiale del 15% sarà applicata ai profitti delle multinazionali che fatturano almeno 750 milioni di euro l’anno. Il meccanismo prevede due livelli.

In primo luogo, ai grandi gruppi non converrà più stabilire la sede in un paradiso fiscale, perché quello che non pagheranno in Paesi dalla tassazione agevolata saranno costretti a versarlo in patria. Esempio: se Google continuerà a pagare il 12,5% in Irlanda, dovrà versare un altro 2,5% al fisco degli Stati Uniti, fino a raggiungere la soglia minima del 15%.

L’accordo sulla tassazione minima delle multinazionali, partorito nei giorni scorsi dal G7 dei ministri delle Finanze, ha già incontrato i primi ostacoli sulla complicatissima strada verso l’effettiva implementazione a livello globale. L’attitudine del Senato americano non sembra infatti particolarmente propizio al provvedimento proposto dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, soprattutto tra gli esponenti del Partito Repubblicano. L’iniziativa ha poi una portata tutt’altro che storica e, oltre a rischiare di innescare una dinamica esattamente contraria a quella auspicata, è da collegare in primo luogo agli obiettivi geo-strategici dell’amministrazione Biden.

L’avvio del Recovery Fund rischia di slittare a settembre, ma a Bruxelles, per il momento, ostentano sicurezza. “Siamo pronti a mettere in moto la macchina entro giugno - ha detto la settimana scorsa il commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn - e siamo fiduciosi di poter versare i primi fondi, il 13% per ogni Paese, entro luglio”. Il problema è che, per rispettare questi tempi, i 27 parlamenti nazionali dell’Unione dovrebbero ratificare il piano entro maggio e i via libera mancanti sono ancora 10, compresi quelli di alcuni Paesi dell’Est in cui la situazione è piuttosto complicata.

A suscitare le maggiori preoccupazioni è la Polonia, dove il governo Morawiecki non ha più la maggioranza. “Solidarietà polacca”, partito di ultradestra, ha già detto che non voterà la ratifica “per non avviare l’europeizzazione del debito”.


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