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di Alessandro Iacuelli
Tutto secondo copione, poco più di due anni dopo una campagna elettorale in cui l'emergenza rifiuti in Campania era stato il tema centrale dello scontro politico ed il terreno su cui si era giocato lo spostamento di milioni di voti: nei telegiornali sono tornate le immagini dei cassonetti campani stracolmi di rifiuti, della polizia in tenuta antisommossa a presidiare le discariche, dei cittadini inferociti, per i quali ci sono sempre le due solite etichette, "fiancheggiatori della camorra" oppure "pochi isolati dell'area dell'antagonismo". Niente di nuovo sotto il sole del Golfo.
Ancora una volta, si tratta di un'emergenza che viene sovraesposta mediaticamente per un solo aspetto, quello dei rifiuti urbani. Ma è solo l'ennesima falsa emergenza, presentata da una sola angolazione. Infatti, non è certo questo che preoccupa. A dare pensieri seri a chi è competente in materia, é semmai la totale assenza di una progettualità, di una seppure vaga idea di un ciclo integrato dei rifiuti. Certo, qui la camorra non c'entra molto, anzi quasi nulla: la storia della mancata risoluzione del problema dei rifiuti campano (e di tante altre regioni italiane) è una storia di mala politica, di mala amministrazione, piuttosto che di malavita.
In Campania la produzione di rifiuti è nota e ben misurata. Attualmente, la regione produce in un anno 2.8 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e ben 4.5 milioni di rifiuti speciali di provenienza industriale, e la Campania non è certo una delle regioni più industrializzate d'Italia. Da altre parti, spesso e volentieri i rifiuti speciali sono oltre il doppio di quelli urbani, e solo per questo dovrebbe risultare alquanto sospetto che un'emergenza rifiuti riguardi i soli rifiuti solidi provenienti dalle utenze domestiche. I sospetti aumentano se si nota che in Campania non esiste né un ciclo integrato per i rifiuti urbani né uno per i rifiuti speciali, anche se di questi ultimi si tende fin troppo spesso a non parlare. Ed è proprio in questo settore, invece, che la malavita s’innesta alla perfezione.
In questo quadro, quel che trova spazio nel panorama informativo italiano sono gli attacchi con vetri rotti ai mezzi di trasporto, gli scontri con la polizia. Cioè solo alcuni effetti del problema, ma non certo al problema stesso. Anche quando si parla dei rifiuti, si parla solo dello stadio finale, dello smaltimento. Come se aprire una discarica, che prima o poi si esaurirà, o un inceneritore - che chiederà maggiori quantità di rifiuti e prima o poi non basterà più - possa essere la soluzione. Sarebbe certamente più serio e costruttivo parlare di politica dei processi industriali, di come modificarli affinché generino minori quantità di scarti e scorie, di politica dei materiali e tutto il resto. Ma in Italia, si sa, si preferisce alla politica la mala politica e soprattutto si preferisce fare cose che permettano spese ingenti di capitali pubblici e che facciano girare i soldi. Soldi che oggi girano per aprire una nuova discarica a Terzigno, domani da qualche altra parte.
Nel caso particolare di questi giorni, l'attuale maggioranza di governo del Paese attribuisce la responsabilità della situazione alle aziende municipalizzate: sarebbe quindi un problema organizzativo delle singole realtà municipali. Per l'opposizione, l'Esecutivo non ha fatto altro che illudere i cittadini, non fornendo un ciclo completo e virtuoso per lo smaltimento dei rifiuti. I cittadini, in realtà, per ora si chiedono dove sia la verità; anzi, a dire il vero, sono 16 anni che se lo chiedono.
Nella Campania reduce da una gestione commissariale straordinaria che dura dal febbraio 1994, la famosa "soluzione" sbandierata da Berlusconi all'indomani della vittoria elettorale del 2008 è stata quella di mettere qualche "toppa" qua e là, costituita da qualche discarica poco capiente, spesso e volentieri di rifiuti indifferenziati. Esaurita la discarica, se n’é aperta un'altra, poi un'altra ancora, sempre con spirito "emergenziale". Facendo sempre attenzione a rimuovere bene i rifiuti dal centro-salotto del capoluogo, visitato dai turisti e a limitare la circolazione di stampa e telecamere nelle periferie. In pratica, volendo fare un paragone con una partita a scacchi, si è scelto di giocare senza un piano. E giocare a scacchi senza un piano, è sempre una strada perdente.
Lo si vede in questi giorni a Terzigno: questo continuo andare a risolvere con delle toppe messe qua e la, poteva al massimo far tardare di qualche mese la venuta dei nodi al pettine e fa emergere in modo inconfutabile la mancanza di un vero e proprio ciclo integrato dei rifiuti. Questa è la situazione di oggi in Campania: una vera soluzione non è mai stata adottata, anzi addirittura neanche pensata. Si è preferito applicare delle pezze successive. In nome della situazione di emergenza, le discariche sono state imposte con la forza in luoghi dove non dovrebbero essere situate, come a ridosso di centri abitati o all'interno di un parco nazionale. Tutto è stato fatto nel nome dell'emergenza e del "fare presto", sacrificando quindi continuamente il "fare bene" e, in fin dei conti, la legge stessa.
Anche per quanto riguarda la permeabilità del sistema dei rifiuti dalla criminalità organizzata, delle vere e proprie misure non sono mai state prese. Per tutta l'epoca commissariale si è agito, ancora una volta per "emergenza", senza fare delle gare di appalto regolari, senza svolgere regolari controlli antimafia. Il risultato è che il ciclo criminale dei rifiuti speciali, compresi quelli tossico nocivi, ancora oggi (contrariamente a quel che sbandiera chi si ostina a negare) gode di ottima salute e si sovrappone non solo al ciclo del cemento, come avviene da trent’anni, ma sta invadendo in pieno il ciclo agricolo, facendo finire i rifiuti anche sulle nostre tavole.
Eppure le soluzioni esistono, ma tutte le buone soluzioni non possono certo essere imposte dall'alto da questo o quel prefetto, vanno invece concertate con tutta la società civile. Peccato che proprio la concertazione è venuta a mancare in Campania da almeno otto anni, provocando una gravissima frattura, tuttora non sanata, nella democrazia della regione. Sono le conseguenze di questa frattura democratica, quelle che ci fanno vedere nei TG, non certo le conseguenze di "fiancheggiatori della camorra", che di solito si guardano bene dall'andare a fare tafferugli con la polizia fuori le discariche. Sono i segni della frattura democratica causata dal fatto che fino ad oggi si è sempre cercato di imporre dall'alto certi determinati modelli di soluzione al problema dei rifiuti, sempre limitatamente a quelli urbani. Ma sono modelli che non sono né accettati né ben visti dalla società civile e neanche dai tecnici, che di ciclo dei rifiuti ne capiscono.
Intanto, se oggi tocca alla Campania e alla Sicilia, si vedrà domani a chi toccherà: la Campania e la Sicilia non sono le uniche regioni italiane ad essere in emergenza rifiuti, sono in compagnia di Calabria, Puglia e Lazio e, prima o poi, toccherà anche ad altre regioni. D'altronde, in un'Italia che sembra aver perso ogni forma di memoria, sia storica sia a breve termine, pare che nessuno ricordi più dei primi anni '90, quando l'emergenza rifiuti era in Lombardia e Milano era ricoperta di rifiuti. All'epoca il problema venne risolto da qualcuno che poi è andato a ricoprire un ruolo di primo piano anche nell'emergenza campana: lo fece circondando la città di inceneritori, che al passare degli anni non bastano più, perché hanno spinto tutta la società ad incrementare la mole dei rifiuti prodotti, ad usare prodotti usa e getta.
Tornando alla Campania, dove le cose sono molto più gravi che nella Lombardia di 15 anni fa, il territorio è martoriato da migliaia di discariche abusive, alcune delle quali hanno un'età talmente elevata da essere prossime al maturare una pensione INPS. Mai bonificate, con un traffico di rifiuti speciali e tossico-nocivi di provenienza extra-regionale mai terminato e che oggi si cerca addirittura di negare. Non esiste alcuna forma di gestione dei rifiuti, qualunque essi siano, ma si preferisce far notare che qualcuno va a fare a botte con la polizia, cercando di sdoganare il messaggio che la cittadinanza si oppone alla soluzione del problema ed alla rimozione dei rifiuti dalle strade.
Ottima scelta per fuorviare chi in Campania non ci vive, ma il vero risultato che si cerca di perseguire è duplice: nascondere l'incapacità, come la mancanza di volontà, di gestire seriamente il ciclo dei rifiuti urbani, magari con meno sprechi monetari, e soprattutto mantenere sotto silenzio e lontano dall'opinione pubblica quel che succede in tutta Italia con i rifiuti di provenienza industriale. Peccato che ancora una volta sia la politica del "metterci una pezza dopo l'altra". Politica pericolosa e che non sempre paga.
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di Alessandro Iacuelli
E' arrivato all'esame delle Commissioni Ambiente di Camera e Senato lo schema di Decreto Legislativo per l'attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo relativa ai rifiuti, approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 aprile scorso. Trattandosi di un decreto legislativo, le Commissioni parlamentari potranno solo dare un "parere" al governo. In questo Schema ci sono nascosti qua e là diversi articoli che sono dei veri e propri "cavalli di Troia" per il futuro dell'ambiente in Italia; tutti cavilli nascosti nella modifica del Testo Unico Ambientale, in particolare della sua Quarta Parte, quella sulle norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinanti.
Tanto per cominciare, alla norma che definisce la nozione giuridica di "rifiuto" viene affiancata una nuova norma, che introduce un nuovo concetto giuridico: quello di "sottoprodotto". Viene così definito ogni oggetto o sostanza che presenta sia le caratteristiche di un rifiuto sia altre caratteristiche, senza però specificare quali. Anzi, i criteri da soddisfare per rientrare tra i sottoprodotti e non tra i rifiuti vengono esplicitamente delegati ad uno o più decreti, che dovranno essere fatti dal Ministero dell'Ambiente. Il rischio evidente è che sostanze pericolose non vengano più considerate rifiuti e che possano in qualche modo rientrare nel ciclo delle merci.
Poi ci sono altri punti pericolosi, anche fin troppo evidenti. Come l'articolo 188, quello che favorisce le esportazioni di scarti industriali e rende meno rigidi i controlli. Chi se ne avvantagerà? Le ecomafie, certo, ma anche diverse industrie del Nord e operatori del riciclo sparsi su tutto il territorio nazionale. Certamente otterrebbero un grosso vantaggio un centinaio di grandi imprese specializzate nel riciclo della plastica, quasi tutte con sedi nell’Italia settentrionale. Queste aziende avrebbero benefici che si propagherebbero economicamente su quella parte del mondo produttivo italiano, sempre più vasta in un momento di crisi, che da anni si disfa dei propri rifiuti affidandoli a intermediari con pochi scrupoli. Probabilmente questo articolo 188 è a tutti gli effetti un "regalo" fatto dalla Lega ai propri grandi elettori.
Basta pensare che, solo in Veneto, ci sono 142 imprese nel settore del riciclo della plastica e 233 si trovano in Lombardia. E forniscono numeri da capogiro, con recuperi di plastiche oltre l'80% del consumo. Cifre che sono molto oltre la media nazionale. Troppo oltre. E si sa anche il perché.
Gli operatori che dichiarano quantità di plastica riciclate così superiori alle media, in realtà non hanno alcun impianto di trasformazione e recupero della plastica, ma solo delle piattaforme fanno selezione e compattamento dei rifiuti. Solo delle schiacciaplastica, e niente altro. Il problema è che sia in Veneto, sia in Lombardia, sono dichiarate quantità di plastica riciclata che sono ben oltre la possibilità delle stesse piattaforme, se si sommano le singole capacità degli impianti. Vuol dire che questi impianti riciclano una quantità di rifiuti maggiore rispetto a quella di cui dispongono. Oppure che hanno ritirato dalle aziende molta più plastica di quella che poi hanno "trasformato".
Ancora una volta, il risultato è che i rifiuti spariscono. Per riapparire chissà dove. Spariscono perché passando nelle piattaforme smettono di essere rifiuti e diventano "materie prime seconde", mentre domani diventeranno "sottoprodotti". Sempre di rifiuti si tratta, sia chiaro, rifiuti schiacciati. Con il nuovo Codice Ambientale, diventerà facilissimo sia il farli viaggiare sul territorio nazionali, per essere abbandonati chissà dove, sia l'esportarli.
Dove? Come al solito, in Cina, in Nigeria, in tutto il terzo mondo. Come se non bastasse, lo Stato concede un credito d'IVA alle società che esportano; esse, pertanto, esportando "sottoprodotti" e non rifiuti, ricadranno nelle regole per ottenere questo credito e guadagneranno un mucchio di soldi.
Poi, come già la magistratura ha dimostrato nel corso di un decennio, gli scarti comprati dai cinesi verranno trasformati in prodotti commerciali, spesso tossici (come dimostrano i sequestri quasi quotidiani nelle dogane e nei magazzini occidentali) e ci torneranno indietro, e saremo ben lieti di acquistarli perché costeranno poco. Ci guadagneranno i grandi operatori che fingono di effettuare il riciclo, ma anche gli intermediari, i famosi "stakeholders" che permettono alle ecomafie di esistere - da ora legalizzati dal Decreto Legislativo - che piazzano i rifiuti italiani negli impianti cinesi.
Infatti, mandare i rifiuti all'estero sarà molto più semplice: basterà affidarsi a un intermediario. Nessuno dei due dovrà essere iscritto a un albo né avere un'autorizzazione specifica e non sarà nemmeno obbligato a spiegare in che tipo di impianto finirà e a che processo di smaltimento sarà sottoposta la materia ritirata. Bel cavallo di Troia, nascosto in Decreto Legislativo, che permetterà la nascita di tanti nuovi "imprenditori" in odore di ecomafia.
Per la prima volta in Europa, assumerà pieno riconoscimento legale proprio lo "stakeholder", il "piazzista" dei rifiuti speciali. Figura mafiosa fino a ieri, oggi diviene attore indicato dalla legge. Chiunque potrà così disfarsi dei propri rifiuti speciali e pericolosi mettendoli (pagando) nelle mani di uno di questi intermediari che fanno il “porta a porta” tra le grosse aziende italiane e propongono lo smaltimento a prezzi stracciati.
L'unico obbligo sarà l'iscrizione al Sistri, il nuovo sistema informatico di cui il ministro Prestigiacomo si vanta, ma in realtà introdotto dall'ultimo governo Prodi. Così, “l'Italia che produce” potrà procedere in modo ancor meno responsabile, inquinando come gli pare, in modo riconosciuto dalla legge.
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di Alessandro Iacuelli
"Le centrali nucleari sono brutte. Talmente brutte che la loro bruttezza contribuisce alla non accettazione di tali impianti da parte dell'opinione pubblica". Bella frase ad effetto, anche se palesa delle chiare intenzioni propagandistiche. E a pronunciarla sono gli esperti della World Nuclear Association (WNA), attraverso il proprio foglio informativo, il World Nuclear News (WNN). Insomma, i cittadini cattivi non hanno tutti i torti: non vogliono le centrali perché sono brutte, non certo per tutti i discorsi su sicurezza, ambiente, salute, temi che già hanno fatto e continuano a fare vittime in tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, passando per Francia, Gran Bretagna, Russia eccetera.
E' chiaro che occorre rimediare, e al più presto. Anzi: adesso o mai più, visto che ora la Germania ha deciso di prolungare i tempi della propria uscita dal nucleare, Obama ha deciso di rilanciare l'industria dell'Atomo, l'Italia sta per entrarvi fuori tempo. Adesso o mai più, visto che l'Uranio presente sulla terra è destinato a finire nel giro di relativamente pochi anni. E, per rimediare all'estetica dei reattori, non certo al loro funzionamento, il WNA ha lanciato nientedimeno che il First Annual Showcase: un concorso che si potrebbe definire "di bellezza", un concorso internazionale per architetti ed artisti per premiare il design più bello, e accettabile dalle popolazioni, per le prossime centrali nucleari. Accettabile esteticamente, come è ovvio.
La dichiarazione ad effetto è di John Ritch, il presidente del WNA, alla conclusione di un simposio svolto a Londra e lanciato il concorso. In sala stampa, Ritch ha dichiarato: "L'industria nucleare impressiona la gente perché la sua tecnologia comporta potenti forze misteriose e invisibili. Ciò che certamente l'industria può controllare, è la visione che il pubblico ha delle centrali. Esprimendo modernità e precisione del nucleare, oggi l'architettura potrebbe con pochi costi aggiuntivi, contribuire a promuovere l'apprezzamento della gente per una tecnologia che non è solo ammirevole ma cruciale per il futuro del nostro mondo".
In pratica, l'obiettivo è di progettare l'esterno di una centrale nucleare da 1 MW, tenendo conto di tutti gli standard di sicurezza, con una torre di raffreddamento, che sia anche piacevole da vedere. Quale sia il premio in palio, Ritch non l'ha raccontato. L'importante è che nasca un design accattivante, l'importante è che la forma nasconda bene la sostanza.
"La maggior parte degli impianti assomiglia alle fabbriche di 100 anni fa", ha proseguito Ritch, "dobbiamo e possiamo fare meglio. Anche l'estetica deve essere all'altezza dell'alta tecnologia delle centrali, e con il concorso vogliamo stimolare artisti e architetti ad affrontare questa sfida". L'obiettivo dell'iniziativa, spiega Ritch, è creare una visione delle centrali associata a una "visione futuristica della vita nelle città. Eventuali costi aggiuntivi saranno compensati dai benefici di una migliore accettazione da parte dell'opinione pubblica".
A fare da contraltare al simposio londinese, arriva come un fulmine a ciel sereno uno studio scientifico da un ente "titolato" e celebre come il Massachusetts Institute of technology che racconta come "l'uranio disponibile è sufficiente per non frenare l'espansione dell'uso dell'atomo prevista nei prossimi decenni." Secondo lo studio, in pratica, anche con le tecnologie attuali non c'è il rischio di una penuria della materia prima.
Lo studio contraddice diverse ricerche precedenti, secondo cui l'uranio potrebbe non essere sufficiente a sostenere il crescente ricorso a nuove centrali previsto per il prossimo decennio, ma non dà indicazioni su quale tipo di ciclo del combustibile è più utile usare nella prossima generazione di centrali. In pratica, contraddicendo fior fiori di ricerche, misure e statistiche, anche autorevolissime, secondo cui fra tre o quattro decenni, cioè poco dopo la fine della costruzione delle centrali, l'Uranio sarà finito, dal MIT si svegliano e raccontano al mondo che tutti gli altri si sono sbagliati, e che invece di Uranio ce ne sta ancora per cento anni.
Quindi le centrali diventeranno rottami inutilizzabili, e contaminati, solo tra cento anni, per cui sarà un problema dei nostri pronipoti. E forse non è un caso se questo studio arriva poco tempo dopo la decisione della Casa Bianca di rilanciare il nucleare in Nord America, cercando di dare ossigeno ad un'industria pesante, quella nucleare, che rientra nell'elenco dei finanziatori del MIT stesso.
Intanto in Italia, parlando al forum dei giovani di Confcommercio a Venezia, il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dichiarato in maniera perentoria: "Noi non abbiamo il nucleare, le altre economie con cui competiamo lo hanno. Se avessimo il nucleare, avremmo un pil diverso, sarebbe più facile crescere come gli altri paesi". Suona come una sentenza, peccato che non è motivata né sostenuta da dati. In realtà, l'unica cosa vera che c'è nella sentenza di Tremonti è che l'investimento nel nucleare scuote sì il PIL, ma solo se i costruttori degli impianti hanno il sostegno economico dello Stato, altrimenti andrebbero tutti in rosso.
E se il sostegno dello Stato non bastasse, occorrerà gonfiare le bollette degli utenti. Basti pensare che la stessa Associazione Italiana Nucleare ha ammesso di recente che il costo di produzione del kWh nucleare si colloca in un intervallo tra gli 8 e i 12 centesimi di Euro, senza considerare i costi di smaltimento delle scorie, cioè almeno quanto il termoelettrico convenzionale: energia che costa di più, molto di più, e che smentisce clamorosamente la presidente di Confindustria Marcegaglia, che anni fa in un convegno a Capri sbandierava un costo di 3 centesimi di Euro.
Anche se questo coccio dei costi si è rotto, si continua, Tremonti in testa, a spacciare il nucleare tra gli elementi di "innovazione" necessari all'Italia per competere con gli altri paesi e guadagnare indipendenza dai combustibili fossili. Sarebbe ora di ricordare che il nucleare non è un'innovazione: è una tecnologia ferma a mezzo secolo fa, il numero di centrali nel mondo è lo stesso da vent'anni, e che nei prossimi anni le centrali nucleari che saranno spente per ragioni tecniche o economiche sono in numero maggiore di quelle che entreranno in funzione.
Infine, il nucleare non darà affatto indipendenza energetica all'Italia, visto che si basa sull'uso di un combustibile, l'uranio, che non è infinito e che non viene estratto in Italia. Anzi, il nostro Paese non solo non possiede significative riserve di uranio, e quindi sarà costretto ad importarlo, ma nel corso degli ultimi decenni ha anche perduto competenze e conoscenze nel campo della costruzione e gestione delle centrali. Pertanto dovremo comprare dall'estero l'uranio, farci costruire le centrali dall'estero, e farcele gestire sotto una guida estera. E sarà quindi la guida estera ad intascare le bollette.
Non sarebbe la stessa cosa della dipendenza energetica dal petrolio e dal metano, come avviene oggi. Infatti, come ricorda il WWF in un suo recente documento, il monopolio sul nucleare è nelle mani di lobby molto più ristrette dell'OPEC, lobby dalle quali avremmo una dipendenza ancora più stringente. Ma il problema vero a quanto pare, e lo dice il World Nuclear Association, è che le centrali sono brutte.
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di Alessandro Iacuelli
Ancora una volta, il porto di Napoli si dimostra essere uno degli snodi principali dei traffici illeciti di rifiuti a livello mondiale. Nonostante il livello di guardia sia ormai alto, da molto tempo, ci sono enormi quantità di materiali di scarto che passano per Napoli, in partenza o in arrivo o in semplice transito. Niente affatto trascurabile la quantità di rifiuti scoperta dai finanzieri del Comando provinciale di Napoli e dai funzionari dell'Agenzia delle dogane, che hanno sequestrato undici container, di proprietà di una società casertana, destinati illecitamente ad un cementificio in Malesia.
In tutto, i container sequestrati contengono circa 300.000 kg di rifiuti speciali che, per legge, avrebbero dovuto essere trattati per il recupero. La normativa sulla gestione, la raccolta e lo smaltimento di rifiuti speciali o pericolosi, impone obblighi molto severi agli operatori del settore, prescrivendo limiti precisi al trattamento, al commercio degli stessi e vincolando l'esercizio di tali attività al rilascio di specifiche autorizzazioni degli organi competenti. In questo caso la società, priva delle necessarie autorizzazioni, aveva tentato di sottrarsi ai controlli doganali, con l’intenzione di esportare illegalmente pneumatici usati, in gran parte tagliuzzati o triturati, al fine di aumentare illecitamente il volume delle vendite, eludendo la legge e agguantando notevoli profitti illeciti.
Il rappresentante legale è stato denunciato a piede libero all'Autorità Giudiziaria per attività di gestione rifiuti non autorizzata e per traffico illecito di rifiuti in violazione delle norme previste dal decreto legislativo 152/06. Il cementificio malese al quale erano destinati li avrebbe usati come combustibile, proprio come da noi si usano quantità difficilmente calcolabili di pneumatici come combustibile per i forni, rilasciando in atmosfera quantità di diossine da far impallidire.
Questo ennesimo caso di malaffare apre obbligatoriamente un ventaglio di considerazioni. I container erano di proprietà di un'azienda casertana, ora sotto inchiesta; ma ciò che urge chiarire è il luogo di provenienza dei materiali di scarto. Già in luglio, nello stesso porto di Napoli, erano stati sequestrati altri container contenenti rottami ferrosi contaminati da PCB. Da dove arrivano? Chi li produce? Chi, per disfarsene, li cede - pagando prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato - ai trafficanti?
E poiché le quantità in gioco, sia di rottami ferrosi sia di pneumatici, fanno presupporre una provenienza extra-regionale (in Campania non ci sono industrie che hanno rottami ferrosi come scarti, né tantomeno che li trattano con PCB), risulterebbe oltre modo interessante sapere da dove sono arrivati e perché. E ancora: quanti di questi materiali, che comunque legalmente andrebbero avviati al recupero, sono stati invece avviati all'imbarco per l'estero, e quanti invece sono stati illecitamente "riciclati" in Campania?
Se 300 tonnellate di pneumatici triturati, d’ignota provenienza, sono stati imbarcati per la Malesia, quante tonnellate invece sono rimaste in loco, per alimentare e fare da letto di combustione alle centinaia di roghi che ogni giorno infiammano le campagne tra Napoli e Caserta? E quanti invece sono finiti ad alimentare i forni di cementifici, spesso abusivi, in odore di camorra?
Analogamente, se sette container di rottami metallici intrisi di PCB erano nel porto, quanti invece sono stati rivenduti ad acciaierie e affini, quasi tutte del nord Italia, per fare tondini di ferro per il cemento armato destinato all'edilizia residenziale?
Perché un Paese come la Malesia, con un'urbanizzazione disordinata ed esplosiva, un traffico bestiale, non solo nella sua capitale di 2.000.000 di abitanti ma in tutte le sue metropoli densamente abitate e piene di automobili (che prima o poi cambiano pneumatici), importa pneumatici triturati da un'azienda casertana? E allora i milioni di pneumatici usati malesi che fine fanno? O hanno solo cementifici con forni che vanno "a copertoni", oppure qualcosa non quadra... Ma anche se avessero tutti e soli forni che bruciano vecchi pneumatici, certamente avrebbero costi di viaggio più convenienti importandone da un altro qualsiasi Paese del sud est asiatico, rispetto ai costi di trasporto necessari per farli arrivare da Caserta.
Non basta dunque sequestrare i carichi illeciti e individuare chi li stava spedendo e chi è il proprietario dei container. C'è da ricostruire l'intera filiera illegale, dall'industria che in tempo di crisi trova comodo disfarsi dei propri rifiuti tossici a costi bassissimi, fino all'utilizzatore finale, che può essere un cementificio come un altoforno, che poi immetterà i materiali inquinati nel ciclo normale delle merci e del mercato. Stroncando la concorrenza, ma solo quella che sostiene i costi dell'agire legalmente. C'è da ricostruire la filiera, e la rete d’interessi economici che la sostengono. Tutto lavoro per gli inquirenti napoletani, nelle prossime settimane.
Sequestro di containers nel porto di Napoli
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di Ilvio Pannullo
Per alcune ore, l'incubo di una nuova “marea nera” è tornato ad impaurire gli abitanti della Louisiana. Dopo il disastro della BP, sempre nel Golfo del Messico è scoppiata una nuova piattaforma petrolifera, la Vermilion Oil 380, di proprietà della Mariner Energy. Per fortuna, questa volta gli operai a bordo della piattaforma, in tutto 13, sono riusciti a salvarsi tuffandosi in mare. La nuova esplosione ha naturalmente preoccupato le associazioni ambientaliste statunitensi e Michael Brune, il direttore di Sierra Club, la più grossa Ong ecologista Usa, ha subito affermato: «I nostri cuori si rivolgono ai lavoratori coinvolti in questo disastro e alle loro famiglie. Questo è il secondo incidente negli ultimi mesi che ha scagliato i lavoratori del petrolio in acqua, e alcuni di loro non li ha mai restituiti.
L'industria petrolifera continua ad inveire contro la sua regolamentazione, ma è diventato fin troppo chiaro che l'attuale approccio alla perforazione in mare aperto è semplicemente troppo pericoloso. Non abbiamo bisogno di mettere i lavoratori americani e le nostre acque in pericolo perché le multinazionali petrolifere solo così possono battere i tutti i record di guadagno. Invece di proseguire nella pericolosa, sporca e antiquata perforazione in mare aperto, si potrebbe investire in energia pulita e in un sistema di trasporto del XXI secolo, che creerebbe posti di lavoro buoni e sicuri e infonderebbe nuova vita alla nostra economia.
Quanti disastri ci vorranno ancora perché i nostri leader si decidano ad agire? Non vogliamo vedere più un altro disastro petrolifero. Il disastro Bp avrebbe dovuto essere un allarme, invece si è premuto il pulsante della sveglia. Oggi la sveglia si è messa nuovamente in moto. Il petrolio è troppo pericoloso e sporco. È il momento di portare l'America fuori del petrolio e verso l'energia pulita e sicura».
In questo contesto desta un certo sconcerto sapere che, con un tempismo che nella migliore delle ipotesi desta sorpresa e nella peggiore desta perplessità. Proprio la BP, il 25 luglio, ha confermato le indiscrezioni del Financial Times: presto inizierà una serie di trivellazioni nel Golfo libico della Sirte. Si tratta di un accordo risalente al 2007 che prevede la trivellazione di cinque pozzi in acque profonde, a 1.760 metri di profondità, 200 più in giù di quella del pozzo Macondo nel Golfo del Messico.
Dalle dichiarazioni rese, la BP spenderà 900 milioni di dollari in un periodo di 7 anni nell’esplorazione di tre settori del golfo libico per un’area di 54 mila chilometri quadrati, situata a soli 600 chilometri dalla Sicilia. L’obiettivo sono i giacimenti di idrocarburi del pre-Oligocene la cui ultra-profondità pone delle sfide tecnologiche considerevoli e la cui perforazione potrebbe richiedere fino a sei mesi di tempo.
Il solo dato dovrebbe far riflettere quanti ancora credono che l’economia del petrolio sia prossima alla fine. Purtroppo i comportamenti schizofrenici delle masse e la miopia dei governanti stanno spingendo il pianeta verso un futuro che appare sempre più compromesso, nonostante siano in costante aumento i segnali della febbre di cui soffre la nostra Terra. L’annuncio della BP di nuove trivellazioni sul Mediterraneo arriva, infatti, a tre mesi dall’esplosione della piattaforma della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico, che dal 20 aprile al 15 luglio ha causato una fuoriuscita di 4,9 milioni di barili (780 milioni di litri) di petrolio sospinto verso le coste della Louisiana.
Le immagini dell’immane catastrofe ambientale sono ancora negli occhi di tutti, ma probabilmente a mancare è la dimensione quantitativa del disastro. Per farsi un’idea delle dimensioni, la macchia nera fuoriuscita dal pozzo corrisponde grosso modo alla quantità di petrolio prodotta finora dal più grande campo petrolifero del nostro paese, quello della Val d'Agri in Basilicata. L’operazione static kill con la quale è stata arginata la perdita, ha utilizzato finalmente con successo una tecnica abituale per il settore petrolifero, ma mai sperimentata a quelle profondità e che richiede un minimo di 24 ore per essere portata a compimento. Alla fine, la BP ha annunciato una perdita di 32 miliardi di dollari connessa all’oil spill, solo 3 dei quali già sopportati.
Certe tragedie dovrebbero far riflettere: se si pensa al pianeta come ad una grande famiglia e alla specie umana come a chi ha le maggiori responsabilità - perché detentrice dei maggiori poteri - se ne deduce che il nostro comportamento è decisamente schizofrenico. Completamente scollegano dalla realtà. Come “genitori del pianeta” meriteremmo che ci venisse revocata la potestà genitoriale. Questo perché c'eravamo abituati fin da bambini ad aspettarci un futuro ricco di prosperità, benessere, un futuro radioso, strepitoso, un futuro in cui sofisticati macchinari superveloci e autoveicoli sempre più efficienti ci avrebbero consentito di spostarci a grande velocità o addirittura volando nel cielo da una parte all'altra del paese.
Ci è stato fatto credere, grazie un sapiente bombardamento mediatico, che grazie al consumismo esasperato di massa ogni generazione sarebbe stata più ricca e benestante di quella che la precedeva. Ma siamo sicuri di questo? Siamo davvero sicuri che ci saranno risorse per tutti? La risposta è no: la verità è che la civiltà umana, all'inizio del nuovo millennio, si trova innanzi a un baratro di proporzioni inimmaginabili, almeno per l’uomo medio, oramai intontito dal dorato mondo di illusioni disegnato da calciatori e veline. La linfa che ha alimentato una fenomenale orgia energetica, consentendo alla nostra specie di proliferare a dismisura, si sta esaurendo.
Si sta cioè esaurendo quella variante di petrolio, il cosiddetto petrolio convenzionale (light sweet crude oil) sulla quale sino a oggi si è basata tutta l'evoluzione della civiltà umana, in tutte le sue forme. Nei prossimi cinque anni il greggio non sarà più disponibile in termini quantitativi tali da soddisfare completamente le richieste del mercato e di conseguenza non sarà più a buon mercato. Appare quasi ridicolo puntualizzarlo, ma talvolta anche l'ovvio può non risultare così scontato come si potrebbe pensare: viviamo in un pianeta dotato di risorse fossili definite che, se consumate ai ritmi che impone la moderna società industriale e consumistica, inevitabilmente sono destinate ad esaurirsi.
Ma cosa è accaduto di così pericoloso da aver aggravato lo scenario per i prossimi anni? Semplice, due grandi orsi, Cina ed India, sino a qualche anno fa in letargo industriale, hanno deciso di svegliarsi, favoriti in questo dalla follia globalizzatrice che anima quel superclan - la superclasse direbbe il premio nobel per l’economia Stiglitz - che siede sul ponte di comando del mondo. Due nuovi ed insaziabili concorrenti di Europa, America e Giappone, per l'accaparramento non solo delle risorse strategiche ma anche di stabilimenti, posti di lavoro, brevetti, capitali e risorse umane.
Da qui la corsa per nuove trivellazioni, alla disperata ricerca di quell’oro nero che difficilmente potrà essere sostituito nel suo ruolo di risorsa strategica essenziale. L’annuncio della BP deve essere letto anche come il chiaro segnale che ormai - vale proprio il caso di dirlo - si sta raschiando il fondo del barile. Se infatti si prevedono stanziamenti così ingenti per la realizzazione di nuove piattaforme in mare aperto, è solo perché di nuovi giacimenti di petrolio scoperti a terra oramai non si parla più da anni. È allora il caso di domandarsi se vi sono dei fattori sistemici che possono produrre potenziali disastri come quello del GdM e come quello paventato nel Mediterraneo. In realtà ve ne sono due, uno legato all’altro.
Il primo è la sete di petrolio dell’economia mondiale, non solo del mondo occidentale. Oggi il mondo ingurgita, stante la depressa situazione economica, 84 milioni di barili di petrolio ogni giorno, in riduzione dagli 86 pre-crisi. Il 61 per cento di quest’ammontare se lo beve il settore dei trasporti, un settore in tendenziale continua crescita. L’Agenzia internazionale dell’energia prevede che il consumo mondiale di petrolio, in assenza d’interventi, passerebbe dalle 4093 Mtoe (milioni di “tonnellata equivalente di petrolio”) del 2007 alle 5009 nel 2030, continuando a risultare la fonte principale e con una quota percentuale sostanzialmente invariata. Se il mondo continua ad avere bisogno di energia, e di petrolio in particolare, allora è necessario assicurarne i rifornimenti.
In mezzo a speculazioni circa i picchi e l’esaurimento prossimo venturo delle riserve mondiali, accade che il 90 per cento di queste sia controllato dalle compagnie nazionali soprattutto dei paesi Opec, le cosiddette Noc (National Oil Companies) che tengono generalmente lontane o in posizione subalterna le grandi compagnie occidentali. Come conseguenza, Big oil deve andarsi a cercare il petrolio in zone più impervie e costose, dai campi ultra-profondi del Golfo del Messico e della costa occidentale dell’Africa, alle zone del Polo Nord e tra le sabbie oleose del Canada. Le oil majors sono per di più le uniche a possedere la tecnologia per questo tipo di operazioni.
E questo è il secondo fatto. La capacità produttiva in acque profonde (da 2000 piedi, o 610 metri, di profondità e oltre) a livello globale è triplicata dal 2000 ad oggi, ed è pari a più di 5 milioni di barili al giorno. I principali paesi interessati sono il Brasile (26 per cento), gli USA nel GdM (22 per cento), l’Angola (15 per cento) e la Nigeria (12 per cento). Seguono India (6 per cento), Egitto (5 per cento) e Norvegia (5 per cento). Le previsioni pre-disastro davano infine una capacità produttiva in crescita a 10 milioni di barili al giorno al 2015.
Appare chiaro che l’esplosione della piattaforma nel GdM ha enormemente accresciuto la preoccupazione per le possibili conseguenze di un analogo evento nel mar Mediterraneo. Se si verificasse un simile incidente, nel giro di un mese l’equilibrio ecologico ed ambientale del nostro mare sarebbe irreparabilmente devastato. La reazione è stata dunque quella di imporre e chiedere moratorie alle nuove trivellazioni. Il nostro ministro, Stefania Prestigiacomo, ha annunciato che non si potranno trivellare pozzi entro cinque miglia delle nostre coste (la linea su cui si attesta la maggioranza delle richieste di concessione) e a 12 miglia dalle aree marine protette.
Ma anche a livello europeo il commissario all’energia, Oettinger, ha proposto una serie di misure che comprendono una moratoria sulle nuove trivellazioni in attesa di fare piena luce su cause e responsabilità dell’incidente nel GdM, il rafforzamento dei livelli di prevenzione esistenti con regimi autorizzativi severi ed approfondite verifiche e controlli, il completamento dello stress test sulla legislazione esistente in materia, lo sforzo per unire le forze con i partner per rafforzare le norme internazionali e regionali esistenti.
Nonostante l’inopportuna replica dei portavoce della BP, secondo cui la società ha esperienza di queste cose da 45 anni (!) e non deve ricevere lezioni da nessuno, quello che l’incidente del pozzo Macondo ha dimostrato è che le oil majors, o per lo meno la Bp, hanno tecnologie e capacità idonee per estrarre petrolio in acque profonde, ma non la capacità e le tecnologie per rimediare ad una perdita di petrolio di grandi dimensioni in tempi rapidi o rapidissimi.
Cosa suggeriscono allora le considerazioni fatte finora? A parte le necessarie ed assolutamente opportune misure temporanee e di breve termine, è il mondo contemporaneo e così anche l’Europa con i suoi trasporti a non potere né volere fare a meno del petrolio di cui si rifornisce. Le importazioni perciò non cesseranno, le trivellazioni non si fermeranno ed il trasporto via terra e via mare continuerà ancora a lungo. Le buone pratiche e i comportamenti responsabili hanno la funzione di rendere meno probabili incidenti come quelli del GdM e particolarmente alta la guardia deve essere tenuta nel Mediterraneo.
Questo suggerisce un ruolo importantissimo per la politica europea ed internazionale. Se però si riflette sul come sia stato possibile che il genere umano abbia impiegato 5000 anni per raggiungere una popolazione mondiale di 2 miliardi di individui, ma abbia impiegato solo dall'inizio del secolo scorso ad oggi, ossia in poco più di 100 anni, per passare dai 2 ai 6,7 miliardi attuali, sarà evidente che qualcosa di diverso e di assolutamente straordinario è successo. La formidabile crescita della popolazione mondiale coincide, infatti, con il sorgere dell'industria petrolifera e il conseguente sviluppo della petrolchimica e dei derivati del petrolio.
L'inarrestabile crescita è stata resa possibile, infatti, solo grazie al petrolio e ai suoi derivati che hanno premesso di muovere trattori da 900 CV e trebbiatrici da 12 tonnellate, che hanno permesso l'aumento del 700% della produttività dei terreni grazie alle pompe d'irrigazione, ai fertilizzanti sintetici e ai pesticidi; che ci hanno, in sostanza, permesso di svilupparci come mai prima nella storia dell'uomo era successo. Ora il gioco si è rotto, anche grazie alla mancanza di prospettiva e all'insopprimibile avidità che contraddistingue l'essere umano. Se, poi, s’immagina di spostare i trattori e le trebbiatrici di cui sopra con pannelli fotovoltaici sul tetto, allora non si è capita l'entità del problema.
Non esiste infatti altro che consenta di sostituire con facilità, a basso prezzo e in quantità abbondanti, quello su cui abbiamo potuto contare fino ad oggi. Conoscere questo significa conoscere che la radice del problema è nell’attuale modello consumistico sostenuto dai paesi industrializzati. Non bisogna dunque perdere di vista le “vere” soluzioni, quelle che consentono di risolvere questi problemi in maniera definitiva. Sono queste le misure di cui la politica può sempre meno permettersi di tralasciare.
Queste soluzioni si chiamano transizione verso economie tendenzialmente senza petrolio (ed altri combustibili fossili), che poi vuole anche dire economie tendenzialmente senza emissioni, con un ambiente e la sua biodiversità maggiormente preservati. In sostanza una politica diversa richiesta da popoli diversi in ragione d’interessi diversi. Non sarà facile, ma vale la pena di battersi. In gioco c’è la sopravvivenza di tutti e tutto.