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di Alberto Mazzoni
Quando il dito indica lo tsunami i conservatori tentano di spezzare il dito. Il procuratore generale della Virginia ha ordinato che l’università dello stato consegni entro il 26 luglio tutti i documenti, i software, i dati e le mail prodotte dal 1999 da Michael Mann - uno dei più grandi climatologi mondiali. Se queste prove non risulteranno convincenti al procuratore, Mann sarà accusato di frode per aver truffato i soldi dei finanziamenti che gli sono stati concessi negli scorsi anni.
Il procuratore della Virginia, Cuccinelli, ha tutte le credenziali per affrontare l’argomento, dato che dall’inizio dell’anno si è già occupato tanto di ambiente - opponendosi alle misure di limitazione dell’effetto serra dell’ente di protezione ambientale americano - quanto di università, opponendosi alle misure anti-omofobia prese all’interno dei campus del suo stato.
Mann, d’altro canto, è solo un paleo climatologo. I suoi risultati sono stati valutati dalla comunità scientifica per anni e quindi pubblicati sulle riviste più importanti, da Science a Nature. Il suo studio più famoso è quello che ha condotto a determinare che il decennio più caldo degli ultimi mille anni è stato l’ultimo. Il grafico delle temperature è visibile su http://en.wikipedia.org/wiki/File:Hockey_stick_chart_ipcc_large.jpg
Mentre la temperatura degli anni recenti è data dalle registrazioni, per il passato la temperatura è stata ricostruita con metodi geologici (con una certa area d’incertezza). E’ importante sottolineare che per il periodo in cui sono disponibili sia le ricostruzioni geologiche quanto le temperature registrate esse coincidono; quindi i metodi di ricostruzione sono affidabili.
Qual’é il risultato dell’analisi? Dal 1000 al 1900 la temperatura è stata sostanzialmente stabile e, da allora, è cresciuta stabilmente. Il grafico è così famoso da essersi meritato un nome: “Hockey stick” (mazza da hockey) proprio a causa della sua forma. Adesso ci troviamo mezzo grado sopra a 30 anni fa e quasi un grado sopra alla temperatura “standard” della terra. Cos’ è che è iniziato nel 1900 e ha causato il riscaldamento globale? Il jazz? O forse il modello di sviluppo industriale e consumo intensivo delle risorse?
Michael Mann non viene attaccato solo per le sue ricerche, ma soprattutto per quanto sono facilmente comprensibili. La scienza che si reclude nelle discussioni per specialisti non fa paura a nessuno, quella che aiuta veramente a comprendere la situazione sì. Per questo deve essere combattuta da esaltati come Cuccinelli che, non scordiamocelo, sono i meri esecutori dei desideri di quanti da questa situazione traggono profitto, perché hanno investimenti nel petrolio, nelle automobili, nella dislocazione della produzione che necessita lo spostamento continuo di merci, o hanno interesse che gli equilibri politici tra nazioni rimangano determinati dal petrolio.
La scienza deve essere posta continuamente a controllo, sia chiaro, e il metodo è la discussione continua: si presentano i propri risultati, che vengono giudicati, replicati, affinati o smentiti in nuove ricerche. I metodi stessi della discussione sono oggetto di un continuo dibattito.
Procedendo con le ricerche e le conferme si giunge a una convergenza su alcuni punti: la terra gira attorno al sole, la velocità della luce è circa 300.000 km al secondo, il DNA trasmette l’informazione genetica e la terra si sta scaldando a causa dell’attività umana. I risultati di Mann, ad esempio, negli anni successivi sono stati resi più accurati, non smentiti. I mandanti di Cuccinelli non si vogliono però inserire nella discussione, la vogliono silenziare.
Può sembrare suicida sul lungo termine negare il riscaldamento globale. Ma non scordiamoci che quello in cui viviamo è un capitalismo cieco, senza idea di futuro diversa dalle scommesse sulle fluttuazioni del valore. E non scordiamoci che, come ha mostrato Katrina, quando gli uragani arriveranno ci saranno quelli che rimarranno indietro senza macchina e quelli che scapperanno con l’elicottero, a bordo del quale inizieranno già a pensare agli investimenti per la ricostruzione.
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di Alessandro Iacuelli
A dieci mesi dall’approvazione della legge delega sul nucleare e ad oltre 2 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto attuativo, il quadro normativo ed istituzionale per il ritorno all'atomo è appena un abbozzo, senza che sia stata intrapresa alcuna direzione precisa. Doveva essere subito istituita l'Agenzia Nazionale per la Sicurezza Nucleare, si aspettava la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dello Statuto nello scorso febbraio, ma non se ne vede ancora neanche l'ombra. Non sono state attuate le delibere per la definizione delle tipologie d’impianto e neanche quelle sui criteri e sulle misure per la costruzione e l'esercizio degli impianti.
Non solo: mancano ancora perfino leggi e regolamenti, come quello per l'organizzazione, il funzionamento e le relative nomine presso l'Agenzia Nucleare. Il tutto per un continuo litigare e far pressioni tra ministero dell'Ambiente e ministero dello Sviluppo Economico, entrambi decisi ad avocare a sé il maggior potere possibile per quanto riguarda il controllo dell'Agenzia stessa. Nel frattempo, il ministro dello Sviluppo Economico ha fatto la fine che ha fatto (a sua insaputa), lasciando vuota la sua poltrona.
A cogliere la palla al balzo è stato il suo grande concorrente: il Ministro dell'ambiente Stefania Prestigiacomo, che ha fatto sapere che è intenzione del Governo andare avanti per la strada tracciata; d'altronde, la caduta di Scajola fa presagire alla Prestigiacomo un ruolo decisivo anche nell’approvazione del documento programmatico del Governo per il ritorno al nucleare. Naturalmente in ritardo. Ora, dopo l'ennesimo rinvio, il Piano Nazionale è atteso per la fine di giugno.
In pratica, nonostante le tante chiamate all'urgenza da parte del governo, poi nei fatti la politica continua a praticare un colossale quanto evidente immobilismo. Che però ha dei costi (pubblici) che non vanno dimenticati. La domanda fondamentale, anzi, dovrebbe essere proprio questa. E' conveniente costruire centrali nucleari impegnando nei prossimi anni ben 30 miliardi di Euro per soddisfare, dal 2020 se tutto va bene, appena il 25% dei consumi elettrici attuali? Consumi che corrispondono solo a circa il 4,5% dei consumi finali di energia?
E' naturalmente una domanda che non raccoglie possibilità di risposte né da parte della politica, né da parte di un'industria che vede profilarsi nuovi guadagni. Ad esempio, Fulvio Conti, amministratore delegato di Enel, non teme che i ritardi della politica possano avere effetti sul programma di costruzione delle centrali nucleari. Ne ha parlato con i giornalisti durante una manifestazione presso il dipartimento di Economia dell'Università di Tor Vergata: "I miei programmi partono dal 2011. Se non ci fosse ancora nulla a fine 2012 o nel 2013, allora sarebbe difficile avere una centrale nel 2019", ha risposto Conti ai giornalisti che gli chiedevano di valutare i ritardi nel programma, dopo le dimissioni del ministro Scajola.
Enel conferma che i fondi stanziati per il programma di rientro al nucleare ammontano a circa 800 milioni di Euro e che la società punta a realizzare quattro reattori Epr. La Westinghouse, una delle maggiori compagnie che costruisce reattori nucleari, suggerisce che il loro reattore AP1000 è il più adatto al sistema elettrico italiano perché è piccolo, richiede poca acqua ed ha una potenza compatibile con la rete esistente e lo propone a tutte le grandi utility europee che hanno interessi in Italia. Contemporaneamente, Conti ha negato che l'azienda abbia già espresso preferenze o selezionato i siti per le nuove centrali nucleari. Lo farà, ha spiegato, "una volta che l'Agenzia per il nucleare avrà definito le aree idonee ad ospitare centrali nucleari".
E i costi? Dalla chiusura delle vecchie centrali ad oggi, la cifra che i cittadini italiani hanno dovuto pagare per la gestione delle scorie radioattive supera i 12 miliardi di euro senza che sia stato possibile indicare il deposito unico nazionale. La quantità attuale di rifiuti radioattivi italiani di seconda (scarti di lavorazione) e terza categoria (combustibile irraggiato, scorie di riprocessamento) è pari a circa 90.000 metri cubi: 25.000 attuali e altri 65.000 provenienti dalle centrali in dismissione. A questi bisogna poi aggiungere una produzione annuale di 1.000 metri cubi di scorie provenienti da usi medici e industriali. Quelli di seconda categoria sono rifiuti pericolosi per circa 300 anni mentre quelli di terza rimangono carichi di radioattività anche per 250.000 anni.
Invece, per il nucleare futuro, i costi totali, cioè la somma di quelli di progettazione e costruzione di una centrale, più quelli di esercizio, più quelli di decomissioning, più quelli di deposito delle scorie, nessuno è in grado di calcolarli. Non si sa. E' una cifra così alta che non si riesce a quantificarla. Quel che è certo, è che si tratta di costi talmente elevati che nessuna impresa privata, o cordata di diverse imprese, sarà mai disposta a sostenere: si tratta di un investimento che è oltre il patrimonio dell'industria privata e che ha ricavi (quelli energetici) incerti; troppo incerti per essere affrontati di tasca propria.
Riassumendo, sono impianti che non conviene, economicamente, costruire. Ecco allora arrivare un Piano Nazionale, approvato con decreto d’urgenza, per spendere miliardi di Euro di soldi pubblici, da dare ai privati per impianti che sono macchine mangiasoldi. In conclusione, è vero che il nucleare è l'unica opzione. E', infatti, l'unica possibilità che consente di salvare il business e la circolazione di denaro pubblico, così com’è ora. Come il ponte sullo Stretto di Messina, come il MOSE a Venezia. In pratica, come tutte le grandi opere pensate nella nostra penisola: opere di nessuna utilità, d’impossibile realizzazione, di sicuro sperpero di risorse preziose.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Quando l'ultima trovata dei tecnici della British Petroleum per fermare la catastrofe petrolifera nel Golfo del Messico si chiama “il colpo della monnezza,” allora capisci che siamo proprio alla frutta. L'idea è molto semplice a dirsi. Si costruisce un lungo condotto ausiliario formato da tanti pezzi di tubo lunghi sei metri l'uno: quindi, una ad una, si riempiono tutte le sezioni di tubo con la monnezza; tubi di plastica, pezzi di rame, palline da golf (i tecnici accettano suggerimenti).
Poi si spediscono dei robot a più di millecinquecento metri di profondità e si mettono in fila le sezioni piene di monnezza, per formare un lungo tubo che viene innestato nel condotto principale del pozzo. All'estremità libera del tubo, si attacca una pompa di fango. A questo punto, viene accesa la pompa esterna, che spinge il fango ad altissima pressione dentro il tubo, sparando la monnezza ad alta pressione dentro il pozzo petrolifero, intasandolo. Se il primo colpo non funziona, si potrà staccare il tubo esterno, portarlo in superficie per ricaricarlo di spazzatura, e giù di nuovo in fondo al pozzo. Finché non si tappa il buco, oppure finché i tecnici non si stufano.
Questa procedura, detta “the junk shot,” è stata già usata in Kuwait durante la prima guerra del Golfo, per bloccare i pozzi incendiati da Saddam nella sua ritirata. Solo che questa volta dovrà essere ripetuta a profondità abissali, manovrando dei sommergibili robot telecomandati dal quartier generale della NASA a Houston, Texas.
Tutte le altre soluzioni finora escogitate dai tecnici petroliferi sono fallite miseramente. Prima la grande cupola, che doveva incanalare il petrolio dalla falla. Poi la piccola cupola, in termini tecnici il cosiddetto “cappellino,” anch'esso fallito. In seguito, la British Petroleum è riuscita ad inserire un tubo nel pozzo principale, per drenare una piccola quantità del petrolio e farlo affluire ad una nave d'appoggio in superficie. Più per recuperare un po' di proventi che per ridurre in modo significativo la falla.
Dopo questo “ridicolo spettacolo” - parola di Obama - offerto al mondo dalla BP e dalle sue sorelle petrolifere nel tentativo di scaricare il barile delle responsabilità, è chiaro a tutti che nessuno si era nemmeno lontanamente posto il problema di cosa fare, nel caso una piattaforma si fosse inabissata. Alla faccia della sostenibilità ambientale. L'ottimo lavoro di squadra che da una parte le multinazionali e dall'altra i controllori delle agenzie statali hanno eseguito è ora sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto sotto inchiesta al Congresso.
La commissione d'inchiesta è partita in quarta e si può prevedere che molte teste cadranno, anche se il grosso punto interrogativo riguarda i risarcimenti miliardari che le compagnie petrolifere dovranno pagare. BP in testa, ma anche la Halliburton di Dick Cheney, che operava sulla piattaforma e altre compagnie coinvolte.
Che la situazione sia di una gravità senza precedenti è chiaro a tutti, soprattutto dopo aver assistito all'attacco frontale del Presidente Obama alle compagnie coinvolte nel disastro. Una marcia indietro clamorosa, a poche settimane dal via libera della stessa Amministrazione al trivellamento vicino alle coste degli Stati Uniti, cavallo di battaglia della campagna presidenziale McCain-Palin nel 2008 e progetto resuscitato a sorpresa da Obama. Senza dubbio la scelta più clamorosamente toppata dal Presidente finora, che è stato svelto a fare una parziale retromarcia.
Mentre si prevede almeno un mese per trivellare un altro pozzo di fianco a quello esploso e chiudere definitivamente la perdita, circa 9 milioni di litri di petrolio si stanno disperdendo in mare ogni giorno. Una vera e propria apocalisse, che stravolgerà per sempre il Golfo del Messico, in maniera molto più grave del famigerato incidente della Exxon Valdez in Alaska.
Una piccola parentesi di folklore: il termine “junk shot” significa letteralmente “foto del pacco”, nel senso dello spassoso film inglese Full Monty, che narra la storia di spogliarellisti squattrinati.
Rimane un mistero il perché i tecnici della BP abbiano scelto proprio questo soprannome per il loro asso nella manica.
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di Michele Paris
La fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico, seguita all’esplosione della piattaforma sottomarina della British Petroleum, continua al ritmo di almeno cinque mila barili al giorno, dopo il fallito tentativo di bloccarne il getto posizionando sul fondo una enorme cupola di metallo. La marea nera, che si sta inesorabilmente avvicinando alle coste americane, non è tuttavia l’unica minaccia all’ecosistema del golfo. A sollevare forti dubbi tra esperti ed ecologisti c’è anche la probabile tossicità degli ingenti quantitativi di sostanze chimiche utilizzate nel disperato tentativo di diluire il greggio nelle acque oceaniche.
Sulla superficie dell’acqua e direttamente in profondità vengono impiegati degli agenti disperdenti che agiscono un po’ come un detersivo per piatti sul grasso, “rompendo” la trama del flusso di petrolio trasformandolo in minuscole particelle, così da farle disperdere dalle correnti oceaniche. La quantità di disperdenti di cui si sta facendo uso nel Golfo del Messico risulta senza precedenti nella storia dei disastri petroliferi, tanto che i dati più recenti raccolti dalla Guardia Costiera americana parlano di quasi un milione di litri già versati.
Svariati media americani - tra cui, in particolare, l’agenzia giornalistica investigativa ProPublica e la testata on-line Grist - da qualche giorno hanno iniziato a pubblicare ricerche sulla pericolosità dei prodotti chimici usati. Gli agenti disperdenti sarebbero essenzialmente due, entrambi riconducibili ad una linea denominata Corexit, prodotta dalla Nalco, un’azienda dell’Illinois facente parte fino al 2004 del comparto chimico della Exxon.
Che i benefici del Corexit portino con sé qualche conseguenza a dir poco sgradita lo riconoscono anche esponenti del governo e della stessa BP impegnati nelle operazioni di tamponamento della perdita. A loro parere, si tratta di scegliere il male minore, cercando di impedire, o quanto meno ritardare il più possibile, l’arrivo sulla costa di una marea nera che avrebbe conseguenze disastrose sulla fauna marina. I danni che i disperdenti potrebbero causare hanno però dato vita ad un dibattito molto acceso, alimentato dalla mancanza di esperimenti approfonditi circa il loro impatto. A ciò va aggiunto poi il fatto che alcuni ingredienti del Corexit, per motivi commerciali, vengono tenuti segreti dall’azienda produttrice.
Tanto per cominciare, ad esempio, questo prodotto è stato bandito in Gran Bretagna da circa dieci anni, poiché causerebbe gravi danni a determinati tipi di molluschi che abitano le scogliere. Difficile però dire se l’impiego in mare aperto possa avere gli stessi effetti. Al largo delle coste, sostengono gli esperti, l’agente disperdente crea una scia tossica che, sebbene disciolta con una certa rapidità dalle acque, risulta pericolosa per la fauna marina che potrebbe eventualmente entrare in contatto. Preoccupati dall’insufficienza di dati certi sulle conseguenze a lungo termine, alcuni paesi vincolano così l’uso dei disperdenti a speciali approvazioni da rilasciarsi caso per caso.
Il governo americano ha da poco reso pubbliche le schede di sicurezza dei due prodotti in questione. Dall’analisi di esse risulta come una delle caratteristiche più preoccupanti sia il cosiddetto bioaccumulo, il processo per cui le sostanze tossiche si accumulano all’interno di un organismo ad un livello più elevato rispetto a quello del mezzo circostante. Questa concentrazione aumenta man mano che si sale nella catena alimentare, con evidenti rischi per l’uomo nel momento in cui dovesse nutrirsi dei pesci provenienti dal Golfo del Messico.
Le proprietà tossiche del Corexit appaiono poi evidenti, nonostante anche in questo ambito non esistano test significativi. Sempre secondo le schede di sicurezza, una eccessiva esposizione dell’uomo al prodotto può causare “danni al sistema nervoso centrale, nausea, vomito, effetti narcotici o anestetici”. Addirittura, la ripetuta esposizione tramite inalazione o contatto con il principio attivo del butossietanolo può produrre danni ai globuli rossi, al fegato e ai reni. Svariate sono in ogni caso le sostanze chimiche pericolose, anche se non viene specificato in quali quantità esse siano presenti nel Corexit.
Se l’impiego di agenti disperdenti è pratica corrente per contrastare le fuoriuscite di greggio in superficie, sia pure per eventi di dimensioni decisamente inferiore, pressoché inesplorato è il loro utilizzo in profondità. Secondo un tossicologo dell’Università di Davis, in California, questa pratica risponderebbe al tentativo di unire il disperdente al petrolio mentre sale verso l’alto, così da diminuirne la quantità che giunge in superficie. I risultati sono però tutt’altro che garantiti a causa delle basse temperature e della pressione più elevata in profondità, tanto da rendere improbabile o più lenta la reazione chimica voluta.
Mentre l’Agenzia federale per la Protezione dell’Ambiente (EPA) e altri organismi governativi hanno avviato ricerche specifiche sugli effetti dei disperdenti, settimana scorsa una sostanza viscosa meno densa del greggio è approdata sulle coste di alcune isole della Louisiana. Secondo alcuni, essa sarebbe precisamente il risultato dell’azione degli agenti disperdenti. Se così fosse, gli effetti sulla fauna che popola un delicato ecosistema si starebbero già facendo sentire. Ad essere interessate sarebbero numerose specie, tra cui almeno una ventina che le autorità statali avevano solo recentemente rimosso dall’elenco di quelle a rischio di estinzione, come l’airone o il pellicano bruno.
Oltre ai danni che il greggio fuoriuscito dalla piattaforma Deepwater Horizon ha già causato all’ambiente, andranno aggiunti insomma anche quelli dei disperdenti chimici impiegati per cercare di contrastarne l’avanzata, la cui reale entità potrebbe però rimanere oscura per molti anni a venire.
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di Mario Braconi
"Siamo pronti ad accettare l'aiuto di chicchessia". Con queste disperate parole Doug Suttles, Chief Operating Officer Produzione ed Estrazione della British Petroleum, ha certificato ufficialmente l'impotenza sua e dell'azienda per la quale lavora di fronte al disastro ecologico che si sta consumando circa 40 miglia al largo della costa della Louisiana dallo scorso 20 aprile, quando la Deepwater Horizon, una piattaforma petrolifera gestita dal colosso britannico, si è inabissata dopo un'esplosione che ha provocato la morte di 11 addetti (le altre 115 persone che vi lavoravano sono state evacuate in sicurezza). Ed in effetti, scorrendo dati notizie dichiarazioni sulla Marea Nera che sta minacciando gli Stati Uniti, viene fuori in quadro assai poco rassicurante in cui dominano il cinismo e l'impreparazione delle società petrolifere come della classe politica che dovrebbe teoricamente tenerle a bada.
Soffermiamoci brevemente sulle misure di prevenzione. Tutte le piattaforme offshore sono dotate di almeno due sistemi concepiti per evitare che un incidente provochi dispersioni di greggio nel mare: il primo viene definito "controllo primario" e può essere attivato manualmente in caso di problemi; il secondo, detto dead man (uomo morto), è progettato per interrompere automaticamente il flusso di petrolio dal pozzo verso la superficie quando, per una qualsiasi ragione, si verifichi una soluzione di continuità nel tubo che collega il giacimento alla piattaforma. Esiste però un terzo dispositivo, il cosiddetto "interruttore acustico", piazzato su una nave a poca distanza dalla piattaforma, in grado di attivare la mega valvola di protezione attraverso comunicazione di impulsi nell'acqua. Cosa che lo dovrebbe rendere efficace anche nel caso in cui i cavi elettrici che costituiscono il sistema nervoso degli altri due sistemi dovessero essere danneggiati nell'incidente.
Alla Deepwater Horizon non hanno funzionato né il primo né il secondo dispositivo, forse perché i lavoratori morti nell'incidente non hanno avuto il tempo di attivare il controllo primario e/o qualche problema ha impedito che scattasse la sicurezza detta dead man. La piattaforma comunque non era dotata dell' "interruttore acustico", poiché negli Stati Uniti la sua installazione non è obbligatoria per legge, a differenza di quanto accade in Brasile, che, per amara ironia, lo ha reso obbligatorio dal 2007, a seguito di un incendio su una piattaforma che aveva provocato (anche il quel caso) undici vittime, e in Norvegia.
Anche se Inger Anda, portavoce dell'autorità norvegese per la Sicurezza petrolifera, sentito dal Wall Street Journal, ha dichiarato che esso costituisce la soluzione più efficace contro le conseguenze ambientali di incidenti simili a quello accaduto alla Deepwater Horizon, gli USA lo hanno sempre considerato con sufficienza quando non con ostilità. A tal proposito, non stupiscono particolarmente le conclusioni di rapporto che l'Associazione dei Contractors Estrattivi ha stilato nel 2001, secondo cui vi sarebbero "molti dubbi sulla capacità di questo sistema di fornire un controllo di secondo livello in caso di esplosione di un pozzo".
E’ invece un tantino più preoccupante l'efficacia con la quale la lobby petrolifera è riuscita a "convincere" il Governo USA a non rendere obbligatorio l'interruttore acustico negli USA: parla chiaro un report preparato nel 2003 dalla Minerals Management Service, un ufficio del Ministero degli Interni, che "non raccomanda l'uso degli interruttori acustici, in quanto esso tende a diventare molto costoso". A chi è abituato a pensare che alle aziende tocchi perseguire il profitto e agli Stati il bene comune, può sembrare strana la solerzia con cui il governo si preoccupa dei costi privati di un dispositivo che può aiutare a salvare vite umane e ad evitare l'autodistruzione del pianeta, ma a quanto pare i tempi sono maturi per nuovi paradigmi.
Dunque, oggi ci troviamo ad affrontare una catastrofe ecologica paragonabile solo al disastro provocato dalla Exxon Valdez anche perché la British Petroleum ha voluto risparmiare una somma di 500.000 dollari (questo il costo di un interruttore acustico). Un risparmio poco lungimirante, anche a voler considerare la cosa esclusivamente dal punto di vista finanziario: l'incidente alla Deepwater Horizon, infatti, sta costando alla compagnia petrolifera britannica tra i 3 e i 6 milioni al giorno in interventi diretti ad arginare la marea nera (il ripristino della piattaforma affondata dovrebbe costare oltre 350 milioni di dollari).
Anche se British Petroleum cercherà di difendersi addebitando almeno una parte delle sue responsabilità nell'accaduto alla società svizzera Transocean Ltd., proprietaria della piattaforma, l'incidente mette in luce la sua leggerezza ed irresponsabilità: subito dopo il sinistro, la società ha mantenuto un atteggiamento relativamente tranquillizzante, lasciando intendere che al dramma umano non sarebbe seguita la catastrofe ambientale.
Con il passare dei giorni, però, è diventato impossibile nascondere la "cruda" verità: "stranamente", quando ai tecnici della BP si è unita la Guardia Costiera americana, la cifra di 1.000 barili al giorno dispersi nel mare è stata quintuplicata. A quel punto è stato chiaro che, a dispetto della cortina fumogena elevata dall' investor relation di BP per tenere sotto controllo il nervosismo delle sale cambi, pronte a vendere il titolo, il danno ambientale è incalcolabile. Finora sono state disperse nell'oceano 76.000 tonnellate di greggio e BP ha dovuto ammettere di avere immense difficoltà a chiudere la valvola all'imboccatura del pozzo.
Le operazioni necessarie a sigillarlo definitivamente, anche alleggerendo la pressione con un nuovo pozzo da costruirsi immediatamente nelle vicinanze, richiederanno la bellezza di tre mesi. Per avere un'idea della gravità della situazione, già alla terza settimana di giugno (un mese prima della presunta data della messa in sicurezza dell'impianto) Deepwater Horizon potrebbe aver gettato nell’Oceano 260.000 tonnellate di greggio, l'attuale, macabro record del disastro ambientale, la cui palma attualmente spetta alla Exxon Valdez (1989).
A parte l'immane danno ambientale, per contenere il quale le notevoli risorse messe in campo dalla BP e dal Governo americano rischiano di avere effetti modesti, il caso Deepwater Horizon avrà importanti conseguenze politiche: affinché il Senato approvi il piano sul cambiamento climatico che prevede l'obbligo ai produttori di energia elettrica di ridurre le loro emissioni di CO2 attraverso una struttura di "cap & trade" (limiti alle emissioni con meccanismo di compensazione tra diversi operatori), Obama ha bisogno del sostegno dei Repubblicani, i quali come contropartita hanno chiesto (e finora ottenuto) un via libera del Presidente all'attivazione di nuove piattaforme petrolifere al largo della Virginia e della Florida. E' ovvio che la tragedia del 20 aprile cambierà l'atteggiamento di Obama su possibili nuove installazioni, cosa che mette a rischio il grande new deal verde sognato dal Presidente. Solo la storia confermerà se siano fondati o meno i sospetti su quella che, ai dietrologi più impenitenti, sembra una coincidenza davvero curiosa.