di Alessandro Iacuelli

C’è la provincia di Brescia al primo posto per il traffico illegale di rifuti in Lombardia. Il dato emerge dal sedicesimo Rapporto Ecomafie presentato da Legambiente, che nel 2009 ha censito nella sola Lombardia 855 infrazioni contro l'ambiente con 340 sequestri e 865 persone denunciate. Al primo posto per lo smaltimento illegale c'è il pericoloso asse Milano-Brescia, dove il capoluogo lombardo si pone come crocevia, anche finanziario dei traffici, mentre la provincia bresciana cresce come luogo di smaltimento.

Si tratta soprattutto di rottami metallici, protagonisti indiscussi dei traffici. Rottami di provenienza spesso dubbia, contaminati da cose che solo una serie accurata di analisi (ancora non effettuate) potrà censire seriamente. Rottami classificati come rifiuti in ferro pericolosi, che oltre a prendere la solita strada del Sud Italia, dell'Africa, della Cina, hanno trovato una nuova rotta: quella di Brescia, dove vengono smaltiti illegalmente nelle discariche o rivenduti alle acciaierie locali, che trasformano il tutto in tondini di ferro destinati all'edilizia. Lo rivelano soprattutto le indagini del biennio 2007/2009, ad indicare come l'ecocriminalità sia sempre in grado di inventare nuove rotte.

Il dato più preoccupante è però quello che riguarda Milano. Negli ultimi otto anni, il 35 per cento di tutte le inchieste sui crimini ambientali in Italia ha toccato a vario titolo la Lombardia, come punto di partenza, transito o arrivo dei rifiuti, per la corruzione di funzionari pubblici, per il riciclaggio di denaro o come sede delle società coinvolte. Lo spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia: "L'ecomafia lombarda non conosce la crisi. Si stima che il fatturato nel 2009 ammonti a più di un miliardo di euro".

Con buona pace per chi, per anni, ha creduto ingenuamente che questo tipo di crimini fosse in qualche modo riservato alla Campania, in Lombardia sono dilaganti i reati che Legambiente definisce collegati al "ciclo del cemento": appalti pubblici truccati, scavi illegali nei fiumi e nelle campagne, bonifiche fasulle. E, come proprio il caso campano ha insegnato, il ciclo del cemento ed il ciclo dei rifiuti presentano un numero tale di punti di contatto da poter essere considerati sovrapposti.

Una recente operazione nel Parco del Ticino, condotta dalla Procura di Busto Arsizio, ha svelato che un giro di società gestiva scavi abusivi in territori intorno a Lonate Pozzolo per la realizzazione della Tav Torino-Milano. Anche qui sono comparse le cave abusive. Anche qui qualcuno è arrivato con le ruspe a scavare le buche. Secondo le indagini, dalla cava sequestrata sono stati portati via abusivamente almeno 450 mila metri cubi di sabbia e ghiaia in 2 anni, una quantità di materiale in grado di riempire 82 mila camion. Nelle buche vuote sono stati poi sepolti rifiuti pericolosi, intrecciando i due filoni più redditizi della criminalità ambientale. Guai a dirlo, per anni. Amministratori locali, politici di vari colori, si sono sempre affrettati a dire che queste "sono cose da Castelvolturno", o che sono "attività casertane".

Nell’ultimo anno sono stati ritirati i certificati antimafia a ben 17 aziende lombarde nel settore del "movimento terra", come in quello dello smaltimento dei materiali delle demolizioni. Per fare un esempio, la tesi dell'accusa nel processo "Cerberus" è che i rifiuti tossici sono stati smaltiti nei cantieri di costruzione o di demolizione di immobili. In quegli scavi sono stati scaricati eternit, idrocarburi, catrame, gasolio. Sotto i cantieri ferroviari, sotto le strade, le case e in alcuni casi i parchi giochi. Per la "sepoltura" dei rifiuti tossici, gli scavi arrivano fino a 15 o 20 metri sotto il piano campagna, per poi ricoprire con terra buona ed eludere i controlli. Proprio come sul litorale casertano 15 o 20 anni fa.

D'altronde c'era da aspettarselo: se 20 anni fa l'imprenditoria italiana, che già all'epoca si lamentava di questa o quella "crisi", sfruttò la pericolosa alleanza con le mafie per spedire in Campania una cifra che oggi è stimata attorno ai 30 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, nel tempo, quella stessa imprenditoria ha imparato a muoversi con i suoi piedi, diventando a sua volta ecocriminale, e risparmiando anche il costo del trasporto verso sud. E si sa, in tempi di crisi...

Di sicuro anche in questo caso la mortifera alleanza con le mafie non è mancata. Lo si evince dalle intercettazioni telefoniche, quelle che si vorrebbe eliminare ad ogni costo, durante le inchieste Cerberus e Parco Sud, che hanno ricostruito gli affari della ’ndrangheta a partire dai territori di Corsico, Buccinasco e Trezzano sul Naviglio. Ancor più significativa una delle rare ammissioni di un imprenditore, raccolta dagli inquirenti durante le indagini: "In sostanza il movimento terra è monopolio dei padroncini calabresi ma, a parer mio, la responsabilità di tutto ciò è anche dei committenti che permettono a costoro di lavorare sottocosto. I calabresi spesso non hanno alcuna autorizzazione e soprattutto, dopo gli scavi, non conferiscono il materiale inerte nelle discariche autorizzate ma lo buttano in giro". E ancora: "I prezzi sono buoni perché queste imprese spesso e volentieri operano smaltimenti abusivi di materiali tossici, non sostenendo così i costi" di un corretto trattamento.

Ancora una volta, la Campania, rimasta inascoltata, avrebbe dovuto fare scuola: scavare, spostare terra, riempire cave, smaltire rifiuti tossici falsa il mercato, attrae industria ed imprenditoria verso il lavorare fuorilegge, come è stato dimostrato dalle inchieste e, soprattutto, ricorda Legambiente, provoca disastri ecologici. In tutta l'Italia.

Ma sono disastri che in qualche modo si accetta e si ammette, sacrificando non solo la legge ma anche la nostra salute: c'è la "crisi", e l'industria italiana per essere competitiva sul mercato globale deve tagliare i costi. Anche quelli dell'eliminazione delle proprie scorie, dei propri scarti di produzione. A noi invece, come disse non molto tempo fa qualcuno molto famoso, tocca essere ottimisti.

di Michele Paris

Mentre l’amministratore delegato della BP, Tony Hayward, stava volando negli Emirati Arabi per raccogliere denaro, in vista delle crescenti spese per le operazioni di contenimento della disastrosa fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico, la pubblicazione di un’indagine giornalistica negli USA ha aggiunto un altro capitolo alla storia dell’irresponsabilità delle corporation del petrolio, tra cui la stessa multinazionale britannica.

Una ricerca condotta dall’Associated Press ha rivelato infatti la presenza di migliaia di pozzi petroliferi abbandonati sul fondo del Golfo del Messico, molti dei quali rischiano di cedere e di provocare un nuovo disastro ambientale, a causa della scarsa manutenzione e della carenza di ispezioni da parte degli organi federali di controllo.

Le trivellazioni nelle acque federali del Golfo del Messico hanno riguardato finora circa 50mila pozzi, oltre la metà dei quali (27 mila), secondo l’agenzia di stampa statunitense, non più produttivi. Di questi, 23.500 vengono catalogati come pozzi permanentemente chiusi., 3.500 risultano invece temporaneamente abbandonati. Un migliaio non vengono trivellati da oltre un decennio. I più datati sono in disuso almeno dagli anni Quaranta del secolo scorso.

Quando un pozzo viene definitivamente abbandonato dalla compagnia che ne detiene i diritti di estrazione, si attiva una procedura che permette di sigillarlo in maniera relativamente sicura, anche se piuttosto costosa. Proprio per evitare di sostenere le spese elevate di chiusura dei pozzi, spesso le compagnie petrolifere decidono di dichiararli “temporaneamente abbandonati”, così da poter ricorrere a procedure più economiche, ma che non garantiscono dall’eventualità di fuoriuscite di petrolio.

In questi casi, oltretutto, le autorità federali preposte si limitano a richiedere una dichiarazione annuale nella quale l’azienda estrattrice esprime la propria intenzione di tornare a sfruttare il pozzo oppure s’impegna a sigillarlo in maniera definitiva in un futuro imprecisato. Grazie a questo espediente, le compagnie lasciano migliaia di pozzi in uno stato di pericoloso abbandono per anni, trasformando il Golfo del Messico, secondo le parole usate dalla stessa Associated Press, in un vero e proprio “campo minato”.

Le corporation del settore energetico abbandonano le operazioni off-shore per svariati motivi: quando un pozzo non è più in grado di generare i profitti sperati, oppure nel caso in cui il quantitativo di petrolio in esso conservato non corrisponde a quello delle stime preventive. In alcuni casi, i pozzi possono essere anche temporaneamente chiusi in attesa di un’impennata del prezzo del petrolio.

Abbandonate a grandi profondità, le strutture costruite per sigillare i pozzi col passare degli anni sono soggette a deterioramento e all’azione della pressione sottomarina. Se le operazioni di chiusura dei pozzi non avvengono in maniera sufficientemente corretta, le probabilità di fuoriuscite sono molto alte e possono presentarsi sia sottoforma di graduale rilascio di greggio che d’improvvise e rovinose esplosioni.

Nonostante i pericoli e le documentate violazioni delle regole da parte delle compagnie, le verifiche governative dei pozzi abbandonati sono pressoché inesistenti, così come irrisori appaiono i provvedimenti punitivi. L’indagine della Associated Press ha calcolato che tra il 2003 e il 2007 l’agenzia federale addetta ai controlli (Minerals Management Service, MMS) ha emesso sanzioni pari appena a 440 mila dollari per operazioni di chiusura dei pozzi definite “improprie”.

L’assenza di garanzie di sicurezza nel sigillare i pozzi abbandonati è d’altra parte estremamente diffusa. Nelle acque appartenenti a Texas e California, ad esempio, le autorità statali negli ultimi decenni sono state in grado di intervenire e mettere in sicurezza decine di migliaia di pozzi in condizioni pericolose. A livello federale, al contrario, l’MMS non si è dimostrato altrettanto zelante, anche a causa delle accertate collusioni con l’industria petrolifera le cui azioni era incaricato di sorvegliare.

Sempre da quanto si è appreso dalla ricerca dell’Associated Press, poi, a Washington si è più volte deciso di sorvolare sui segnali che da più parti erano giunti circa le condizioni dei pozzi abbandonati nel Golfo del Messico. Già nel 1989 il Government Accountability Office (GAO) - una sorta di Corte dei Conti americana - aveva condotto un check-up dei giacimenti petroliferi e di gas naturale del paese, scoprendo che circa il 17% di essi risultava sigillato in maniera impropria.

Lo stesso organismo, nel 1994, mise in guardia da possibili “disastri ambientali”, causati da fuoriuscite di greggio dai pozzi off-shore non più sfruttati, chiedendo ispezioni che non vennero però effettuate. Ugualmente nel vuoto caddero anche gli avvertimenti lanciati nel 2001 dallo stesso MMS relativamente al Golfo del Messico, così come quelli più recenti dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA), nel 2006.

Dei 27 mila pozzi abbandonati al largo delle coste al sud degli Stati Uniti, 600 erano sfruttati dalla BP, il cui livello di scrupolo per le procedure di sicurezza si è potuto osservare il 20 aprile scorso, in seguito all’esplosione avvenuta al di sotto della piattaforma Deepwater Horizon. Da allora si sono tristemente moltiplicati i resoconti presenti e passati del comportamento di queste enormi compagnie multinazionali, che pongono il perseguimento del profitto prima di qualsiasi considerazione relativa al rispetto dell’ambiente e della vita delle persone.

Un comportamento che, nel Golfo del Messico come altrove, minaccia di provocare nuove catastrofi che andrebbero drammaticamente ad aggiungersi a quello che è già stato definito come il più grave disastro ambientale della storia e la cui entità è ancora tutta da valutare.

di Alessandro Iacuelli

Freon, è il nome commerciale di una famiglia di gas, noti anche come CFC (clorofluorocarburi). Sono gas impiegati nei cicli del freddo, poi abbandonati perché responsabili del buco nell'ozono, e addirittura proibiti dal 1990 per molti usi. Ma freon è anche il nome dell'operazione condotta dal Corpo forestale dello Stato, che ha condotto all'identificazione di un’organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di rifiuti, soprattutto derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche; traffico che è stato in piedi per anni tra la Provincia di Torino e la Nigeria.

Ad essere trasportati verso l'Africa occidentale erano frigoriferi e congelatori dismessi che, insieme a ingenti quantitativi di elettrodomestici, apparecchiature elettroniche e parti di veicoli, erano stipati a Torino in container da nave pronti per essere trasportati dal porto di Genova fino in Nigeria. I carichi erano contrassegnati come "masserizie" per la spedizione ma, in seguito ai sequestri effettuati alla dogana di Genova, sono risultati costituiti da tonnellate di rifiuti pericolosi, e pieni di freon.

Sei mesi d’indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Torino e condotte dai Forestali del Nucleo investigativo provinciale di Polizia ambientale e forestale di Torino, hanno portato al sequestro di centinaia di tonnellate di rifiuti e all'iscrizione sul registro degli indagati di 14 persone tra rifornitori, trasportatori e gestori dei rifiuti, tutti di nazionalità italiana o nigeriana, ma residenti nella provincia del capoluogo piemontese. Traffico illecito di rifiuti e violazioni della Convenzione di Basilea sui movimenti internazionali e sull'eliminazione di rifiuti pericolosi: a oggi sono questi i capi d'accusa formulati.

I rifiuti erano forniti prevalentemente da uno stabilimento di Beinasco e da centri di raccolta del pinerolese, erano poi trasportati a Torino e depositati su un'area ampia migliaia di metri quadri, ora posta sotto sequestro. Si stima che il traffico abbia generato un volume di affari di oltre 500.000 euro l'anno, considerando anche il conseguente risparmio dei costi per lo smaltimento regolare dei rifiuti.

Ma non si tratta di rifiuti solo piemontesi: sui trasporti illeciti è stata realizzata davvero l'unità d'Italia, negli ultimi decenni. Unità d’intenti e di profitti. Molto di quel materiale da imbarcare arrivava dalla civile e benestante Emilia, come hanno accertato gli uomini della Guardia Forestale di Reggio Emilia. Così, in Nigeria sono arrivati vecchi computer, frigoriferi ormai inutilizzabili, componenti meccanici e informatici, ma anche televisori, videoregistratori, pneumatici fuori uso e persino cofani e paraurti. Rifiuti pericolosi per la legge italiana, come dice il Decreto Ronchi del 1997 aggiornato nel 2006 grazie alle nuove direttive europee.

Dal 17 giugno, grazie ai controlli a tappeto del Corpo Forestale, si sono stati sequestrati camion carichi di materiale esausto che stava per salpare verso l’Africa, dove sarebbe stato rivenduto in mercati locali oppure accatastato in discariche illegali, in cui i lavoratori, spesso bambini, operano senza protezioni, esposti a cocktail velenosi di composti chimici.

In Emilia, i punti di partenza erano Vezzano, Bagnolo e Reggio Emilia, e il modus operandi era sempre lo stesso, lo stesso di sempre: i bravi e onesti imprenditori industriali italiani si presentavano nei depositi e ne uscivano con furgoni carichi di materiale di scarto e con un bel po' di soldi. Il guadagno era almeno duplice: i titolari delle rimesse non dovevano ricorrere alle elevate spese di smaltimento.

C'è da dire che la società civile, a differenza dei migliaia di casi del passato, stavolta non è stata a guardare, anzi. Tutto è cominciato proprio dai residenti nella frazione di Sedrio, poco distante da Vezzano di Reggio Emilia, che hanno chiamato le forze dell’ordine: quel viavai di camion zeppi di batterie, elettrodomestici e vecchi computer li aveva allarmati.

L’indagine, durata sei mesi e condotta dai pubblici ministeri Andrea Paladino e Paola Stupino, ha permesso di individuare tonnellate di rifiuti potenzialmente pericolosi che uscivano illecitamente dal nostro Paese. Il nodo cruciale del traffico era nella zona della Falchera a Torino, che alcuni nigeriani avevano affittato a un privato. Qui, in quattro diversi cumuli, erano stoccate delle automobili radiate, cioè senza più immatricolazione per il mercato europeo: la loro destinazione dovrebbe essere la rottamazione, ma sono ormai anni che le auto da rottamare vengono in realtà reimmatricolate nei mercati extraeuropei.

Proprio all’interno delle vetture venivano nascosti i rifiuti, che provenivano da tre centri di raccolta (due di Pinerolo e uno di Piscina) e dall'azienda di Beinasco, i cui titolari avevano un evidente risparmio sul costo di smaltimento legale. Le auto così riempite, potevano essere caricate sui container e dirette al porto di Genova, dove venivano imbarcate per la Nigeria.

In generale è compresa tra le venti e le cinquantamila tonnellate all'anno, la quantità di rifiuti elettronici che si perdono in esportazioni legali e traffici illegali, o si disciolgono fra gli acidi nei corsi d’acqua dei paesi in via di sviluppo. In particolare, la "trovata" degli spedizionieri che operano presso i porti italiani, è quella di mascherare i rifiuti inutilizzabili, e indicarli come "materiale in beneficenza". Così, ogni mese arrivano a Lagos, in Nigeria, cinquecento container di merce elettronica usata. Sulle bolle è scritto che è un bene che i paesi ricchi donano per quelli in via di sviluppo. Le apparecchiature però sono per tre quarti spazzatura. Non funzionante, non riutilizzabile, né riparabile.

Così, montagne di rottami, un concentrato di bario, mercurio, ritardanti di fiamma, cadmio e piombo, vengono bruciati; mentre cavi e circuiti stampati vengono disciolti con acidi per recuperare in modo artigianale il rame, inquinando i fiumi ed avvelenando il suolo.

di Alessandro Iacuelli

Il Nucleo Investigativo per la Repressione degli Illeciti Ambientali di Brescia, ha eseguito una serie di misure cautelari nell’ambito di un’inchiesta su un traffico illecito di rifiuti per un quantitativo di oltre 4.000 tonnellate. Un uomo è stato arrestato e sono stati sequestrati 15 autocarri e cisterne per un valore di circa un milione e mezzo di euro, appartenenti a tre aziende bresciane, utilizzati per il traffico illecito di rifiuti.

Le indagini, coordinate dalla Procura di Brescia, erano iniziate lo scorso novembre con il sequestro dell'area di via Nullo, nel sito della Caffaro, oggetto di bonifica dal Pcb, e di una cava situata nella vicina Manerbio, dove era stato smaltito il materiale. Ora, l'esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere è arrivata a carico dell'amministratore della "Moviter" di Edolo, vincitrice della gara d'appalto indetta dal comune di Brescia per la bonifica dell'area della Caffaro.

L'uomo è finito in manette per traffico illecito di rifiuti: il materiale prelevato sui terreni inquinati di Pcb del sito di interesse nazionale Caffaro, secondo le contestazioni mosse dalla Procura, anzichè essere smaltito secondo le norme di legge presso centri autorizzati e messo in sicurezza, sarebbe stato semplicemente depositato nella cava di Manerbio e poi collocato in discarica. Sulla pericolosità di questo modo di fare c'è poco da discutere: il grado di tossicità dei composti Pcb (Policlorobifenili) è appurato sia dalla chimica sia dalla medicina, e molti studi su lavoratori esposti hanno mostrato alterazioni nell'analisi di sangue e urine correlabili a danni a carico del fegato.

Da un punto di vista ambientale, il PCB è in grado di infiltrarsi attraverso i terreni nelle acque, penetra nel corpo degli animali, compreso l'uomo, ed essendo liposolubile, passa e si accumula nei tessuti adiposi. Penetra e si diffonde soprattutto nel fegato e nei tessuti nervosi.

Quanto avvenuto a Manerbio non riguarda un piccolo ritaglio di terreno, con pochi chilogrammi di Pcb, ma un'area piuttosto vasta ed una quantità di materiale contaminato da Pcb, secondo gli investigatori, stimata in 4000 tonnellate. Quanto prelevato dal sito Caffaro è stato destinato al riempimento di una cava contenente acqua, invece d'essere avviato al trattamento in centri autorizzati. Nei confronti dell’arrestato sono state accertate, inoltre, responsabilità anche in relazione ad un altro traffico illecito di rifiuti, in questo caso provenienti dai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle fognature delle provincie di Brescia e Bergamo.

L'attività illecita è stata attuata, secondo gli investigatori, ricorrendo a formulari falsi, grazie ai quali sarebbero state truffate le aziende dalle quali era stato ottenuto l’appalto per i lavori di manutenzione delle fognature. In questo caso l’azienda utilizzando documenti falsi otteneva dalla società che gestisce il servizio nelle province di Brescia e Bergamo compensi per smaltimenti di rifiuti invece smaltiti illegalmente in siti non ancora identificati.

Inutile la difesa della Moviter, che a novembre aveva precisato, attraverso il proprio legale, che tutte le analisi compiute sul materiale di bonifica avevano escluso si trattasse di rifiuti speciali pericolosi. Secondo il legale, quei rifiuti erano "inerti non pericolosi". Anche il titolare dalla cava di Manerbio aveva preso le distanze, precisando di "sentirsi parte lesa, perché quanto avvenuto nella cava era conforme alle autorizzazioni".

La produzione di PCB è stata vietata per la prima volta in Giappone nel 1972, dopo un grave incidente che coinvolse 2000 persone. Fu poi vietata negli Stati Uniti, a partire dal 1977, e in Italia a partire dal 1983, quanto ha cessò l'attività dell'unico stabilimento italiano che produceva PCB, la Caffaro di Brescia. La Caffaro produceva PCB dal 1932 ed ha portato il tasso d’inquinamento ambientale ad un livello talmente elevato che oggi Brescia è considerata uno dei due casi a livello mondiale di contaminazione da PCB nelle acque e nel suolo: in termini di quantità di sostanza tossica dispersa, di estensione del territorio contaminato, di numerosità della popolazione coinvolta, di durata della produzione. I valori rilevati dalla ASL bresciana sono dal 1999, anche 5000 volte al di sopra dei limiti fissati dalla legge.

L'area bresciana contaminata da Pcb si estende anche nei comuni limitrofi, inquinando rogge e terreni, fino a spingere il comune di Brescia, nel 2007, ad emettere un ordinanza di divieto di coltivazione dei terreni. Ovvio che quest'area va bonificata assolutamente, ma parte della bonifica stava avvenendo semplicemente spostando i materiali nella cava di Manerbio, senza alcuna messa in sicurezza. E per Brescia, il caso Caffaro diviene sempre più, col passare degli anni, un'odissea senza fine.

di mazzetta

La storia del buco sul fondo del Golfo del Messico è una delle vicende più istruttive degli ultimi anni. In essa si trovano riflesse le storture di un sistema economico dai tratti spesso demenziali, lo stato dei rapporti di forza tra economia e politica, la scarsa consapevolezza dei problemi ambientali, le differenze abissali e le incredibili similitudini tra i paesi più avanzati e quelli disperati, lo stato dei media e molto altro. Il buco che perde petrolio ci parla prima di tutto dell'irresponsabilità delle grandi corporation.

Nulla di nuovo, la stessa crisi che abbiamo appena cominciato ad attraversare ha già certificato che i giganti dell'economia sono immortali e intoccabili. In quella definizione di “troppo grandi per fallire” c'è già il seme del disastro: la garanzia dell'impunità degli amministratori e degli azionisti, liberi di giocare sapendo che le loro sconfitte saranno pagate da altri. Un'impunità garantita dal sostanziale acquisto o condizionamento del personale politico ai massimi livelli.

Negli Stati Uniti, ancora oggi considerati un modello da replicare universalmente, le regole per l'industria petrolifera le scrivono gli uomini dell'industria petrolifera e, quei pochi che ci hanno trovato da ridire, sono considerati pericolosi radicali, socialisti che vorrebbero limitare la libertà d'azione e la riservatezza delle aziende. Non basta: si è scoperto che anche quelli incaricati di controllare quel poco che era di competenza delle autorità americane, sono a libro paga delle compagnie, esattamente come altre decine di funzionari governativi che un anno lavorano per il governo e quello successivo per le aziende che dovevano controllare. Esattamente come i tre incaricati da Obama di riformare la finanza arrivano da Goldman Sachs, una delle principali banche-canaglia del pianeta, tra le maggiori responsabili della crisi in corso.

Non è stato un caso che il costo delle campagne politiche americane sia lievitato a livelli stellari: ovunque la maggiore disponibilità di fondi costituisce un vantaggio, ma in questo caso è evidente l'esistenza di un'asta permanente nella quale si cerca di conquistare la rappresentanza e i rappresentanti comprandoli. Si può ben dire che le compagnie petrolifere americane hanno una lunga tradizione in questo senso e il risultato e sotto gli occhi di tutti. Così com'è sotto gli occhi di tutti la diffusione di questo modello che ben poco ha a che fare con la democrazia e molto con quello che proprio i padri fondatori combatterono: la tirannia del denaro e delle compagnie finanziarie sugli uomini liberi.

Pochi sanno o hanno voglia di ricordare che i primi decenni di vita degli Stati Uniti furono caratterizzati dal divieto di costituzione di società per azioni e a responsabilità limitata. La ribellione fu contro la corona inglese, ma anche e soprattutto contro le imprese coloniali delle compagnie commerciali e la loro capacità di controllo sul governo britannico, potere che poi spinse la monarchia a scioglierle d'autorità e assumere il potere politico sui territori da queste assoggettate con la forza.

Al potere si accompagna l'atteggiamento di sufficienza verso le regole e un approccio volto più a soddisfarne i requisiti formali che a perseguire i risultati che queste ricercherebbero. Particolarmente gustosa, in questo senso, è la storia dei prescritti piani di emergenza in caso di perdite dalle trivellazioni nel Golfo del Messico, piani dei quali devono essere dotate tutte le compagnie che vi operano. In un'audizione al Congresso, i piani delle cinque maggiori compagnie sono risultati quasi identici nella loro inconsistenza. Identici al 90% e non poteva essere diversamente, visto che erano stati commissionati alla stessa azienda. Identici e ridicoli e non solo perché alla prova dei fatti si sono rivelati lontanissimi dalla necessità.

Due di questi riportano il numero di telefono di un biologo da chiamare in caso d'emergenza, che però è morto nel 2005. Tutti fanno riferimento all'importanza dell'integrità dell'habitat dei trichechi, che nel Golfo del Messico non si sono mai visti. Robaccia tirata via, del tutto inutile a limitare i danni verso terzi o l'ambiente.

Impressione confermata dal manuale della EXXON, che ha un'addizione di quaranta pagine su come gestire le obiezioni e le domande dei media, il doppio di quelle dedicate a come cercare di fermare il disastro. EXXON ha già attraversato un disastro del genere e sa che fa più danno l'odio della gente di quanto non faranno ridicole sanzioni o risarcimenti stiracchiati e pagati dopo decenni. Il piano d'emergenza si concentra quindi su come limitare i danni all'azienda più che su come limitare altri danni che interessano relativamente. Uno dei boss delle compagnie ha provato a giustificarsi dicendo che i piani per il dopo-disastro non raccolgono molta attenzione perché “loro” sono più concentrati sul fare in modo che i disastri non succedano.

E qui c'è la conferma che questa gente vive in mondi diversi dalla “piccola gente”, come l'ha definita il capo della British Petroleum in una gaffe rivelatrice. Tale e tanta é l'impunità reale dei suoi pari da trasudare platealmente in sfacciata megalomania, come testimoniano da oltre un secolo la cronaca e la letteratura e come hanno confermato anche le recenti esibizioni dei “signori dell'universo” di Wall Street nel bel mezzo dell'ecatombe da loro stessi provocata.

Comportamenti stigmatizzabili, ma perfettamente comprensibili se si considera che parliamo di persone che guadagnano spropositi e muovono ricchezze incalcolabili, che hanno più potere reale di gran parte dei leader mondiali e sono alla guida di macchine finanziarie costruite per fare profitti prendendo rischi, con la consapevolezza che il fallimento non è possibile e che qualsiasi danno o perdita saranno a carico di collettività di “piccola gente” che vive in mondi alieni.

Perdite e mondi tenuti a distanza da regole su misura, dalla protezione politica e, se non bastasse, dall'abilità nell'attraversare le frontiere dell'economia globalizzata per risparmiare su tutto e sfuggire al maggior numero di responsabilità. Non è un caso che il pozzo sia negli Stati Uniti, la titolare della concessione britannica, la piattaforma costruita in Corea del Sud, registrata alle isole Marshall e di proprietà svizzera e le operazioni in loco affidate ad altre società di diversa nazionalità. Non è il frutto del caso, ma un'architettura organizzativa che permette di sfuggire a normative e controlli e di abbattere i costi.

Le isole Marshall non hanno la competenza i mezzi  e nemmeno le persone per gestire un registro navale e nemmeno per verificare la congruità tecnica di un “naviglio” del tipo della Deep Water Horizon, la piattaforma esplosa. Ci pensano allora delle società incaricate appositamente e appositamente costituite dalle previdenti compagnie che gestiscono navi e piattaforme. i regolamenti del registro delle Marshall prescrivono normalmente piante organiche ridotte rispetto alla media degli altri registri navali e non è che uno dei vantaggi.

Nulla possono le autorità americane sulla piattaforma, la loro competenza comincia al di sotto del pelo dell'acqua e, come già ricordato, si è scoperto che nemmeno lì guardavano bene. Nessuna lunga mano della legge può arrivare nemmeno a contestare i contratti di lavoro, spesso stipulati da lavoratori e società di paesi terzi e nemmeno coincidenti. La catena delle responsabilità è tanto lunga e tanto frammentata che il CEO di una grande corporation può ragionevolmente pensare di finire in galera per i suo comportamenti in azienda, solo presentandosi al lavoro armato e facendo fuoco personalmente su qualche presente. È proprio il sistema che spinge inevitabilmente a prendere rischi enormi: se va bene i guadagni saranno enormi, sa va male saranno altri a pagare. A queste condizioni nessuno può resistere alla tentazione di prendere rischi enormi.

Il fatto che il buco sia negli Stati Uniti e che il petrolio trasportato dalla Corrente del Golfo finirà proprio tra le sponde atlantiche, ha garantito e garantirà una certa visibilità al disastro e provocato danni economici enormi. Prevedibilmente, per anni ci saranno migliaia di cittadini e società commerciali degli Stati Uniti e di altre economie avanzate che rincorreranno la BP in cerca di risarcimenti. Una seccatura inevitabile, ma anche questa è una circostanza abbastanza remota nell'operatività complessiva delle compagnie petrolifere, che operano ovunque nel mondo e che in genere non hanno neppure questi fastidi. Il tempo gioca sempre a favore delle compagnie nelle lunghe liti che seguono eventi del genere; l'esito risarcitorio del disastro della EXXON Valdez dovrebbe tranquillizzare BP e i venti miliardi di dollari che Obama ha chiesto di accantonare per i risarcimenti, non sono soldi sequestrati e nemmeno da considerarsi già spesi, nemmeno se i danni dovessero eccedere quella somma come già sembra.

Il mondo è vasto e le compagnie hanno già fatto sapere che un'eventuale moratoria delle perforazioni del Golfo del Messico determinerà solo lo spostamento delle piattaforme in acque più ospitali: le piattaforme costano e non si possono lasciar ferme neppure un giorno, il tempo è notoriamente denaro. In molti paesi le compagnie petrolifere fanno semplicemente quello che vogliono, così si spingono a risparmi criminali e provocano danni molto più estesi di quello di cui si discute. Un lungo articolo del New York Times ha raccontato la situazione nel delta del fiume Niger, dove da cinquant'anni le perdite dalle trivellazioni e dagli oleodotti riversano nel fiume e nel Golfo di Guinea l'equivalente del contenuto della EXXON Valdez e nessuno dice niente.

Gli abitanti della zona si sono ribellati a una tale devastazione, prendendo le armi contro un governo centrale corrotto che incassa le royalty  lasciando la regione e i suoi abitanti nella miseria e sempre più inquinati. Li hanno chiamati terroristi e blanditi con quattro soldi, persino i riscatti dei lavoratori pagati dalle compagnie sono una goccia nel mare di petrolio che ha devastato tutto. Le compagnie accusano i sabotaggi dei ribelli per le perdite, ma le tubature arrugginite, gli impianti fatiscenti e l'assenza di dispositivi di sicurezza, testimoniano ben altro.

Le vite degli abitanti del delta non valgono niente, i vegetali e i pesci di cui si nutrivano non valgono niente sui mercati internazionali, le loro case, i pozzi dai quali bevevano, i campi che coltivavano non valgono niente e, anche quando fossero stabiliti risarcimenti, sarebbero spiccioli in confronto ai miliardi di dollari risparmiati.

Tutto legale, tutto perfettamente in regola: se perfori il Golfo di Guinea nelle acque della Guinea Equatoriale, paghi diritti scontati direttamente sui conti personali di uno dei peggiori dittatori del mondo, tanto flessibile in materia di sicurezza da diventare un benemerito, anche se il suo popolo non vede un dollaro di quel denaro, visto che Teodoro Obiang investe per lo più in repressione. Ma è tutto legale, proprio com'è tutto legale nel Golfo del Messico e anche di più.

Nel Golfo del Messico, in quello di Guinea e in molte altri parti del mondo non ci sono feroci islamici a minacciare il nostro futuro, ma un sistema che nessuno ha voglia di mettere seriamente in discussione e che, al contrario, è sempre più teso alla privatizzazione dei guadagni e alla socializzazione delle perdite. Sarebbe il caso di rifletterci senza decidere subito che si tratta di eventi lontani e di cose che ci riguardano poco. Ci riguardano eccome e ci riguarderebbero anche se la “nostra”  ENI non fosse uno dei cavalieri di questa apocalisse.

 


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