di Alessandro Iacuelli

La politica in Campania torna ancora oggi a fingere di giocare nuove carte, a fingere di cercare soluzioni che in realtà ci sono già, ma non possono forse essere applicate se prima l'esecutivo non prepara il maquillage per un nuovo spot elettorale. Probabilmente è in questa chiave che va visto l'arrivo di Berlusconi in Campania.

Il presidente del Consiglio torna a Napoli, nella polveriera dove si è giocata grossa parte della scorsa campagna elettorale. Ad accoglierlo, quasi 9000 tonnellate di rifiuti solidi urbani rimasti sulle strade. La quantità, certamente maggiore, di rifiuti speciali entrati nel frattempo in Campania, in modo più o meno illecito, non li ha potuti vedere, in quanto già tombati nelle campagne, o miscelati ai rifiuti conferiti a Cava Sari, a Terzigno, o già dati alle fiamme nella piana campana.

E' il vero volto dell'emergenza, ma in Italia, si sa, si parla solo dei rifiuti urbani, quelli sui quali c'è la possibilità di muovere soldi pubblici e di mantenere il controllo, anche politico, su grandi territori e bacini elettorali.

Bacini elettorali talmente importanti che, nonostante la frettolosa dichiarazione di fine dell'emergenza decretata dal premier due anni fa, con tanto di riconsegna dei poteri agli enti locali, il governo si è dovuto affrettare ad entrare in prima persona nella questione. Prima con un decreto non consegnato alla Presidenza della Repubblica - il che non costituisce una dimenticanza ma una voluta stortura - poi con un decreto inviato al Quirinale e, da questo, rimandato indietro con varie perplessità e articoli da riscrivere.

L'esecutivo si è affrettato a rifarlo e così Berlusconi ha appena cancellato tutte e tre le discariche faticosamente individuate da Bertolaso due anni fa: Cava Vitiello, Andretta in Irpinia e Valle della Masseria nel Salernitano. Il governatore Caldoro annuncia in un´intervista che "vanno individuate subito due nuove discariche". Naturalmente si astiene dal dire due cose: dove andrebbero individuate, in un territorio sovrappopolato, e perché è stato necessario cancellarne tre.

Eppure, il problema dei rifiuti di Napoli è un falso problema. L'ASIA, l'azienda municipalizzata che ha il compito di raccogliere il rifiuti della città, non sa dove portare poco meno di diecimila tonnellate di RSU, una volta che non le è consentito l'accesso a Chiaiano e Terzigno. Eppure, se si fa il conto dello spazio libero nelle discariche della Campania, ci si accorge che c'è posto per circa un milione di tonnellate. Ma se c'è tutto questo posto, perché non si riesce a trovare spazio per queste "sole" novemila?

Perché lo spazio libero è in discariche che non si trovano nella provincia di Napoli. E le altre province si sono messe per traverso, non accettando il conferimento di rifiuti extra provinciali. Strano: i presidenti delle altre province (del PDL) remano contro la provincia di Napoli, anch'essa retta dal PDL. Sembra quasi che potrebbe essere vera la frottola raccontata giorni fa dal ministro Carfagna, circa la "guerra di bande" che avviene in Campania.

Probabilmente però il disegno politico è più ampio e vede coinvolti non solo i presidenti delle province, ma anche lo stesso ministro delle Pari Opportunità. Quel che succede è che non si trovano spazi per i rifiuti della città di Napoli, e si è cercato già più volte, soprattutto nella fase calda di "rivolta" degli abitanti di Terzigno, di far ricadere la colpa sull'Asia. Ma l'Asia, come tutte le aziende municipalizzate, risponde in definitiva al Comune di Napoli, uno degli ultimi baluardi rimasti in mano al centro sinistra.

Un fortino dove si avvicinano le elezioni politiche, e dove l'attuale ministro delle Pari Opportunità, dopo i risultati delle scorse elezioni regionali, punta apertamente alla poltrona di sindaco. Quindi, in definitiva più che una "guerra di bande" sembra essere un gioco di alleanze, e non di scontri, per portare l'attacco al municipio napoletano.

Tornando al casus belli degli RSU, i vertici istituzionali della Campania hanno "assicurato" l'immediata apertura della discarica di Macchia Soprana, la seconda discarica di Serre nel salernitano, e di deviarvi i rifiuti di Napoli. E' stato deciso durante la riunione del Pdl della Campania che si è svolta in Senato. Inoltre, è stata assicurata piena collaborazione tra le province e l'immediata chiusura degli accordi commerciali in corso per l'invio delle frazioni destinate al recupero fuori dal territorio della Campania. Al vertice hanno partecipato i parlamentari campani del Pdl, i coordinatori regionali Cosentino e Landolfi, il governatore Caldoro, l'assessore regionale all'Ambiente Giovanni Romano, i capigruppo in Consiglio regionale Martusciello e Nugnes e i presidenti delle Province di Avellino e Napoli.

Peccato che Macchia Soprana si rivelò insufficiente già tre anni fa, essendo un’ex discarica poi riaperta "in emergenza", talmente insufficiente da obbligare il commissariato straordinario a "forzare la mano" per aprire la discarica di Valle della Masseria, nonostante le proteste degli abitanti e delle associazioni ambientaliste (Valle della Masseria è all'interno di un'oasi del WWF).

Strano anche questo. Strano che all'improvviso, dopo tanti bastoni tra le ruote, un'altra provincia, quella di Salerno, dia il proprio assenso all'invio dei rifiuti dal capoluogo regionale. Strano che venga contemporaneamente individuata una discarica troppo poco capiente.

A Serre, istituzioni e cittadini si dicono pronti alla protesta contro la riapertura di Macchia Soprana. Il sindaco Palmiro Cornetta è chiaro: "Qui si rischia il disastro ambientale. Noi blocchiamo tutto". La discarica è chiusa dall'agosto del 2008, e in poco meno di anno e mezzo vi furono sversate 750mila tonnellate di rifiuti, provenienti da tutta la regione, in particolare da Napoli e dai comuni dell’hinterland partenopeo. Era già piena prima, figuriamoci ora.

E non sarà neanche facile arrivarci. Infatti, lo stesso Cornetta dichiara a proposito del presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli: "Nel piano che ha messo a punto è prevista la riapertura della discarica ma è un atto monocratico, il suo, senza alcuna concertazione. La vogliono riaprire subito? Non sanno neanche che la strada di accesso e l’intera area é dissestata, ci sono smottamenti ed è quasi inaccessibile".

Ma i rifiuti di Napoli, a dire il vero, sono ormai soltanto un gioco politico per ridisegnare poteri, riassegnare poltrone e soldi pubblici. Un gioco politico che viene fatto sulla pelle dei cittadini.

Che si tratti di un gioco di equilibri politici lo si capisce dal come si sono evolute le dichiarazioni-spot. Se ci eravamo abituati ad un Berlusconi che sparava frasi tipo "in dieci giorni io risolvo l'emergenza", ora rilancia il governatore Caldoro, con lo slogan ad effetto: "Napoli si può ripulire in tre giorni". E per mascherare la colpa dello scempio e farla semmai ricadere sui soliti cittadini cattivi, ha anche rincarato la dose dicendo che "se l'immondizia è tornata per le strade è a causa delle proteste."

Nel frattempo, a mettere altra benzina sul fuoco dell'attacco volto ad assediare ed espugnare Palazzo San Giacomo, ci si è messa anche la Lega, con Bossi che, senza alcuna cognizione di causa e senza una conoscenza neanche superficiale della situazione, ha dichiarato con il suo solito italiano stentato che per risolvere la situazione in Campania bisogna sollecitare la magistratura a intervenire sul sindaco di Napoli. Risponde la Jervolino: intervenga pure, ho mani e coscienza pulite.

Tra l'altro, il comune di Napoli può ben poco, se un giorno, non molte settimane fa, dalla Regione Campania hanno dato ordine all'ASIA di non conferire più i rifiuti a Chiaiano, ma a Terzigno, causando tutto quello che è successo e che abbiamo visto nei telegiornali. Nei prossimi mesi il gioco certamente continuerà e si inasprirà man mano che ci si avvicinerà alla data delle elezioni comunali. A pagarne le spese sarà la gente normale. Poi, quando sarà caduta la fortezza napoletana, calerà di nuovo il silenzio della pax pidiellina, berlusconiana e cosentiniana. Nel frattempo, ci sarà da seguire passo dopo passo l'assalto a Fort Apache.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Da giorni ormai le scorie radioattive provenienti dall’impianto per il trattamento del combustibile nucleare di La Hague (Francia) sono state seppellite a Gorleben (Bassa Sassonia), ma a quanto pare la polemica non si è ancora spenta e la partita degli anti nucleari tedeschi potrebbe non essere ancora persa. La Hague si trova a soli 1000 chilometri di distanza da Gorleben, ma le numerose proteste hanno ritardato l’arrivo del convoglio di ben cinque giorni: alcuni studi hanno mostrato che il territorio di Gorleben è poco idoneo alla custodia dei rifiuti e i cittadini hanno espresso la loro preoccupazione in grande stile. A manifestare contro il treno delle scorie c’erano oltre 50 mila cittadini; gli agenti impiegati per la sicurezza sono stati 17 mila, per un costo complessivo  di quasi  30 milioni di euro.

Perché, in effetti, il deposito di Gorleben è stato scelto nel 1983 da una commissione di geologi in circostanze ancor’oggi poco chiare. La tabella utilizzata per la valutazione dei siti assegnava dei punti a seconda delle condizioni geologiche di idoneità. Su un totale di 266 possibili, Gorleben ha ottenuto solo 32 punti: un risultato che non giustifica affatto la scelta. Secondo l’autorevole settimanale tedesco Die Zeit, gli esperti sarebbero stati influenzati dal Governo dell’allora Cancelliere Helmut Kohl (CDU): l’aspetto geologico di Gorleben avrebbe giocato un ruolo meno importante di quello politico.

A dispetto di ogni previsione dell’attuale Governo tedesco, le manifestazioni anti- nucleari di Gorleben hanno sortito effetti collaterali a livello politico. Il ministro regionale per l’ambiente della Bassa Sassonia, Hans- Heinrich Sander (FDP), ha chiesto in questi giorni che si cerchi un’area più adatta di Gorleben per il deposito delle scorie. Più che per la sicurezza dei suoi cittadini, probabilmente, il liberale Sander si è preoccupato dei loro voti, ma ciò poco importa. Sander si è espresso a favore del modello di gestione delle scorie radioattive della Svizzera, sostenuto anche da Greenpeace: la Confederazione predispone molteplici depositi in tutte le zone considerate sicure, per la maggior parte rocciose, e dietro consultazione dei cittadini stessi.

E proprio qui nasce il dilemma. I depositi alternativi a Gorleben si trovano nei Laender rocciosi di Baviera e Baden-Württemberg, due tra le regioni politicamente più influenti in Germania. I rispettivi ministri hanno già provveduto a far conoscere la loro opinione: il nein dei ricchi Laender meridionali alle scorie radioattive è stato secco e deciso. Il governatore bavarese Horst Seehofer (CSU), in particolare, ha ribadito la necessità di portare a termine gli studi su Gorleben prima di prendere in considerazione qualsiasi altro deposito.

Durante le ricerche, chiaramente, le scorie radioattive rimarranno dove sono: ciò significa a più di 500 chilometri dalla ricca Baviera. Che il cristianosociale Seehofer cerchi di guadagnare tempo è fuor di dubbio, rimane da chiarire ora la posizione del suo partito, la consorella bavarese della CDU di Angela Merkel. Come si può sostenere lo sviluppo dell’energia nucleare in Governo, senza essere pronti ad accollarsene le conseguenze?

E se da una parte l’interminabile polemica sul nucleare mette in discussione la credibilità di qualcuno, dall’altra c’è anche chi sembra trarne profitto. Si tratta del partito dei Verdi, che ha promesso l’immediata valutazione di altri depositi in caso di elezione alle legislative del 2013. I Verdi sono una forza politica da non sottovalutare: presenti nei Parlamenti regionali di 8 Laender su 16 con oltre il 10% dei seggi, fanno parte del Governo in ben 4 regioni.

Tra l’altro, il loro successo va a inserirsi in un contesto politico estremamente aperto: la popolarità delle forze di governo CDU/ FDP è ai minimi storici a causa delle continue decisioni impopolari, tra cui il prolungamento dell’attività delle centrali nucleari, la riforma sanitaria e il taglio da 80 miliardi alle finanze pubbliche, mentre l'SPD non è capace di mostrare una linea decisa e si aggrappa a critiche poco costruttive per costruirsi una politica. Sono in molti, ormai, a vedere nei Verdi il nuovo “partito del popolo” tedesco.

Inoltre, gli antinuclearisti hanno perso la battaglia di Gorleben, ma in un certo senso la guerra potrebbe non essere del tutto finita. In gioco c’è ancora il prolungamento dell’attività nucleare in Germania: approvato dal Governo Merkel, il decreto non è ancora effettivo. L’ultima parola spetta al Presidente della Repubblica Christian Wulff: sarà la sua firma a sancire l’entrata in vigore definitiva del provvedimento.

In realtà, le probabilità che il Presidente non firmi sono veramente poche: Wulff è nato come “l’uomo della Merkel” ed è difficile immaginarsi una sua presa di posizione contro le scelte della Cancelliera. Dal 1949 a oggi, inoltre, i diversi Presidenti della Repubblica federale si sono rifiutati raramente di firmare decreti già approvati dal Governo, più in particolare in otto casi, e una tale ribellione si giustifica solo con motivazioni formali e non politiche.

Eppure, a voler essere pignoli Wulff avrebbe tutto le ragioni per non firmare il decreto. A quanto pare, la coalizione della Merkel non ha ancora sottoposto il decreto al Bundesrat, il Consiglio federale, l’organo costituzionale attraverso il quale i Laender partecipano al potere legislativo. Nonostante il Governo non lo ritenga un passo necessario, alcuni costituzionalisti considerano l’approvazione del Bundesrat necessaria all’entrata in vigore della legge.

In uno Stato federale, il Governo non può prendere decisioni che vadano a imporsi sulle varie regioni senza interpellarne i vari rappresentanti. Senza dimenticare che la forte partecipazione emotiva dimostrata dal popolo tedesco durante il trasporto del materiale radioattivo verso Gorleben è un segno della profonda disapprovazione da parte dei cittadini. Il popolo è sempre sovrano, o almeno dovrebbe.

E poi c’è l’asso nella manica degli antinuclearisti, che si chiama Charlotte Roche. In una intervista con il settimanale di sinistra Der Spiegel, la giovane scrittrice Roche si è 'offerta' al Presidente Wulff in cambio del veto. “Wulff deve rifiutarsi di firmare il prolungamento dell’attività nucleare”, ha provocato Roche, ”in cambio potrei andare a letto con lui”. Roche ha spiegato che manca solo il consenso della first lady tedesca poiché anche suo marito è d’accordo. Non cogliendo l’assurdità della provocazione, alcuni penalisti tedeschi si sono preoccupati di sporgere denuncia contro la scrittrice per tentata corruzione. E ora, in questo contesto surreale, anche gli antinuclearisti hanno probabilmente cominciato a sperarci. 

 

di Alessandro Iacuelli

"Dirty Energy" è il nome di un'operazione, durata un anno e mezzo, condotta dal Corpo forestale di Milano, che ha individuato una pericolosa produzione illecita di energia, ottenuta bruciando materiali pericolosi per l'ambiente. E a finire nelle maglie dell'indagine sono ancora una volta dei nomi eccellenti, nel panorama industriale ed economico italiano. Infatti, agli arresti domiciliari è finito Giorgio Radice, presidente del consiglio di amministrazione della Riso Scotti Energia, una delle società della galassia del gruppo Riso Scotti. Per lui l'accusa è di traffico illecito di rifiuti e produzione illegale di energia da rifiuti.

Al momento ci sono 12 indagati: sette le persone destinatarie di una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari. "Non ci sono atti d’indagine sugli impianti di produzione del riso", precisano comunque i vertici del Corpo forestale lombardo.

Il Corpo forestale ha eseguito 60 perquisizioni, sequestrando un impianto di coincenerimento e 46 automezzi; il giro d'affari stimato è di quasi 30 milioni di euro nel solo periodo 2007-2009. Oltre all'arresto di Radice è stato disposto il sequestro preventivo dell'impianto di coincenerimento della Scotti Energia a Pavia, situato in via Angelo Scotti, e la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del direttore tecnico dell'impianto, di impiegati e dirigenti, del direttore del laboratorio di analisi chimiche Analytica srl di Genzone (Pavia) e anche di un intermediario nella compravendita di rifiuti speciali.

L'impianto di coincenerimento era nato per bruciare la cosiddetta lolla, gli scarti biologici della lavorazione del riso, ma in realtà utilizzava nella produzione di energia elettrica e termica, secondo gli inquirenti, oltre alle biomasse vegetali, rifiuti di varia natura. Non solo legno, plastiche, imballaggi, ma anche materiali non proprio salubri in caso di combustione, come fanghi di depurazione di acque reflue urbane ed industriali e altri materiali misti, che per le loro caratteristiche chimico-fisiche superano i limiti massimi di concentrazione dei metalli pesanti. Metalli pericolosi come cadmio, cromo, mercurio, nichel, piombo, ed altri pericolosi per ingestione ed inalazione, che naturalmente non bruciano, ma vengono emessi dal camino dell'impianto per poi spargersi e ricadere sul territorio circostante.

Dalle indagini svolte, che hanno impegnato oltre 250 guardie forestali su tutto il territorio nazionale, è stato possibile accertare il coinvolgimento di diversi impianti di trattamento dei rifiuti provenienti dal circuito della raccolta urbana, dall'industria e da altre attività commerciali in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana e Puglia. Da nord a sud, tutti uniti nel disfarsi dei scarti velenosi della produzione industriale pesante: con buona pace di chi predica il secessionismo, si può affermare che sullo smaltimento illecito dei rifiuti industriali si sta finalmente realizzando la vera unità d'Italia.

L'ingresso delle circa 40.000 tonnellate di rifiuti gestiti illecitamente dalla Riso Scotti Energia S.p.A. veniva reso possibile, ed apparentemente regolare, attraverso due vecchie tecniche di orgine camorristica, oramai acquisite culturalmente in tutta Italia: la falsificazione dei certificati d'analisi, ottenuti grazie a laboratori compiacenti e con la miscelazione con rifiuti prodotti nell'impianto, così da celare e alterare le reali caratteristiche dei combustibili destinati ad alimentare la centrale.

Oltre al traffico illecito di rifiuti e alla redazione di certificati di analisi falsi, s’ipotizza una frode in pubbliche forniture e una truffa ai danni dello Stato, visto che tali rifiuti non potevano essere utilizzati in un impianto destinato alla produzione di energia da "fonti rinnovabili" che ha goduto di sovvenzioni pubbliche.

Tra i materiali combustibili impiegati c'era sì la lolla di riso, proveniente dall’adiacente riseria, ma veniva miscelata con polveri provenienti dall'abbattimento dei fumi, fanghi, terre dello spazzamento strade ed altri rifiuti conferiti da ditte esterne. A seguito della miscelazione, la lolla perdeva le caratteristiche di sottoprodotto e diventava un rifiuto speciale, anche pericoloso, che non poteva più essere destinato alla produzione di energia pulita, ma avrebbe dovuto essere smaltito presso impianti esterni autorizzati.

Gli accertamenti eseguiti hanno permesso di accertare che ingenti quantitativi di lolla di riso, anche di quella miscelata con i rifiuti, sono stati venduti illecitamente ad altri impianti di termovalorizzazione, ad industrie di fabbricazione di pannelli in legno e ad aziende agricole ed allevamenti zootecnici (pollame e suini) dislocati in Lombardia, Piemonte e Veneto.

In questo modo, sono stati tratti, dal gruppo industriale, vantaggi e guadagni lontani dal lecito sia dalla vendita della lolla di riso come sottoprodotto, sia dal risparmio sui costi di smaltimento dei rifiuti prodotti dall'impianto, che periodicamente venivano miscelati alla lolla di riso, sia dalla vendita di energia allo Stato a prezzo vantaggioso.

Naturalmente, quanto avvenuto a Pavia pone seri interrogativi sul probabile superamento dei limiti imposti per quanto riguarda le emissioni in atmosfera, e di conseguenza sulla qualità dell’aria. Ci aspettiamo che nei prossimi giorni le strutture competenti per la protezione dell'Ambiente diano avvio ad una doverosa campagna di rilievi ed analisi dell'aria e dei terreni circostanti.

di Alessandro Iacuelli

Era il 13 ottobre 2010, un mese fa, quando a Milano l'assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli, in visita ai cantieri del quartiere Bisceglie insieme al presidente di Assimpredil, Claudio De Albertis, aveva dichiarato: "E' un progetto di riqualificazione nel cuore del sistema dei parchi a ovest della città, in quello che poi sarà il grande parco delle vie d'acqua dell’Expo".

Chissà che faccia avrà fatto, quando la mattina del 10 novembre la Procura della Repubblica ha sequestrato l'area, di trecentomila metri quadri, per irregolarità nelle bonifiche autorizzate dal Comune di Milano e per la presenza di metalli tossici.

Già, è andata proprio così: presenza di metalli tossici e diossina. E' scritto questo nelle motivazioni che hanno fatto scattare il sequestro. Nei terreni sarebbero stati gettati rifiuti tossici. Nella falda acquifera sottostante é stata registrata la presenza di metalli tossici, diossina e altre sostanze cancerogene. Indagati i proprietari dei terreni: per loro le accuse sono di avvelenamento delle acque, omessa bonifica e gestione di discarica. Expo 2015 spa, la società che si occupa della gestione dell'Esposizione Universale, non risulta coinvolta.

Secondo il progetto, il parco in via di costruzione al momento del sequestro dovrebbe collegarsi a sud al Parco delle Risaie e a nord al Parco delle Cave. I progetti connessi con il parco prevedono interventi su una superficie totale di circa 750mila metri quadri, con la realizzazione di 2600 nuovi alloggi, l’80% dei quali in edilizia convenzionata, centri aggregativi per anziani e giovani, un centro per l’infanzia con un nido da sessanta posti, un asilo da novanta, un centro polisportivo, un centro polifunzionale e una residenza sanitaria per disabili.

A richiedere il sequestro dell'area sono stati il pm di Milano, Paola Pirotta e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Tutta l'area interessata è di proprietà Antica Acqua Pia Marcia Spa, società del gruppo Caltagirone, e della Torri Parchi Bisceglie Srl, le società che nel 2009 hanno ricevuto l’autorizzazione dal Comune a effettuare le operazioni di bonifica. Sui terreni stavano cominciando lavori di costruzione. Stando all’indagine, i terreni, che sorgono nella zona dell'ex cava di Gemignano, sarebbero stati inquinati da rifiuti tossici buttati nella cava stessa.

In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Robledo ha raccontato che "c'era un problema grave e urgente per la salute pubblica e per questo siamo intervenuti". Inoltre, nell’ambito delle operazioni di bonifica, il Comune di Milano avrebbe rilasciato "autorizzazioni illegittime" alle società che hanno operato. Il particolare emerge in una relazione dell’Arpa e del Corpo Forestale acquisita agli atti dell'inchiesta. Nella relazione si spiega che le "procedure adottate dal Comune di Milano e avallate dalla Provincia di Milano e dall'Arpa per la messa in sicurezza dell'area sono tutte illegittime". Le autorizzazioni illegittime, inoltre, avrebbero "apportato un vantaggio patrimoniale" per le società private cui è stata data l'autorizzazione alla bonifica.

Nel giugno scorso Legambiente e un comitato avevano presentato in procura delle denuncie sulle irregolarità nelle bonifiche. Nell'ottobre scorso è stato il turno dell'Asl, che ha stilato una relazione, dopo una serie di accertamenti, in cui ha indicato che la falda acquifera è pesantemente inquinata da sostanze cancerogene, proprio su quei terreni dove dovrebbero sorgere alcuni alloggi e palazzine. Per bonificare correttamente l'area le società, a quanto si è appreso, avrebbero dovuto spendere circa 165 milioni di euro, ma in alcuni documenti acquisiti nell'inchiesta le stesse società parlavano di costi "non sostenibili" per loro.

Volontà di risparmio quindi. Volontà di profitto che ha portato i privati a "nascondere" la presenza di rifiuti tossici. Con buona pace per il "Parco delle Acque" che vi avrebbe dovuto sorgere. E' proprio questa, la tesi della procura: la bonifica non è stata fatta, si è solo fatto finta di farla, perchè sarebbe costata 700 euro al metro quadro, molto di più del valore dell'area che si aggira sui 120 euro al metro quadro. Gli inquirenti parlano della realizzazione di un "paradiso sull'immondizia".

Così, è andato sequestrato un intero quartiere in costruzione, dove sui rifiuti tossici era stato solo steso un telone. La Provincia di Milano si è affrettata a precisare che il Piano integrato di intervento è stato autorizzato dal Comune di Milano nel maggio 2009 quando l'Ente era ancora amministrato dalla Giunta Penati. La Provincia di Milano sottolinea anche che, normalmente, i Piani integrati d'intervento non presuppongono l'affidamento dei controlli ad Amministrazioni diverse da quelle autorizzatrici. I tecnici della Provincia di Milano, in ogni caso, stanno procedendo a una verifica di tutta la documentazione in possesso dell'Ente.

Questo sequestro va aggiungersi, fatalmente, a quello dell'area ex montedison, nello scorso luglio, anche quello ha interessato un cantiere per l'Expo. In quel caso, altri rifiuti tossici erano stati sepolti, ovviamente senza autorizzazione, nel nuovo quartiere Santa Giulia. Un milione di metri quadri sequestrati, per un valore di un miliardo di euro, uno dei progetti urbanistici più importanti degli ultimi anni nel capoluogo lombardo.

Indagato anche il gruppo Zunino, uno dei colossi dell'edilizia italiana. Secondo gli inquirenti i costruttori avrebbero realizzato il nuovo quartiere sopra una zona fortemente inquinata e contaminata, falsando anche la bonifica dell'aera su cui una volta sorgevano l'industria chimica Montedison e poi le acciaierie Redaelli. La falda acquifera sottostante l'area, che attualmente rifornisce di acqua potabile il nuovo quartiere di Santa Giulia, sarebbe, infatti, inquinata con alcune sostanze pericolose per l'ambiente e la salute, tra cui alcune cancerogene e altre dannose per fertilità e gravidanza.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Anche la Germania si trova ad affrontare il problema dei rifiuti, un’emergenza di natura diversa da quello che sta sconvolgendo l’Italia in questi mesi, ma di entità non inferiore. Si tratta del treno delle scorie radioattive proveniente da La Hague che, dopo interminabili chilometri di proteste, è arrivato nel circondario rurale di Luechow- Dannenberg, nella Bassa Sassonia, per l’interramento definitivo presso Gorleben. Ad attendere il carico tossico lungo il tragitto c’erano oltre 40mila manifestanti: il Governo tedesco non offre le garanzie di sicurezza necessarie e i cittadini tedeschi si sono sentiti, una volta di più, alla mercé degli interessi economici delle lobby dell’energia nucleare.

Il convoglio ha trasportato 123 tonnellate di materiale tossico, un carico da molti considerato “il più radioattivo della storia”. Non è la prima spedizione di questo tipo verso l’area di Gorleben, ma mai in passato si è parlato di quantità così elevate: e anche la manifestazione anti-nucleare di quest’anno è stata la più violenta degli ultimi decenni. Presso Hitzacker, a qualche decina di chilometri dalla meta, i manifestanti hanno incendiato dei mezzi da lavoro per impedire il passaggio del convoglio e la polizia ha fatto fatica a riportare la situazione sotto controllo. Diverse centinaia di persone si sono incatenate ai binari: azione di grande temerarietà, poiché nel 2004 un ragazzo francese di 21 anni ha perso la vita proprio in questo modo, travolto dal treno delle scorie.

La maggior parte dei manifestanti, tuttavia, ha tentato di bloccare il treno togliendo le pietre dai binari: la polizia ha reagito all’iniziativa con manganelli e spray immobilizzanti. Gli scontri sono continuati fino a tarda notte, ritardando ulteriormente l’arrivo del convoglio a destinazione. Tra l’altro, le forze dell’ordine impiegate per proteggere il carico sono state cospicue, si parla di 17mila unità. Il trasporto del materiale tossico è costato ai cittadini oltre 50 milioni di euro: l’industria del nucleare incassa i miliardi di guadagno, ma per la sicurezza sono i cittadini a pagare. Una situazione, a detta di molti, inconcepibile.

Le scorie provengono dal deposito Areva, ex-gruppo Cogema, di La Hague, sulle coste nord occidentali della Francia. Areva è un impianto per il trattamento del combustibile nucleare, che scompone i rifiuti radioattivi e ne isola le parti eventualmente riutilizzabili per un successivo ciclo di produzione. Secondo gli ambientalisti, l’operazione presuppone lo scarico quotidiano di milioni di litri di liquidi tossici nell’oceano della Normandia. L’impianto tratta i rifiuti nucleari prodotti da Europa, Giappone e Svizzera.

Ma fusione e fissione producono anche uno spreco non rinnovabile per cui non esiste nessuno smaltimento definitivo. Areva scioglie questa “spazzatura” tossica in vetro liquido e la inserisce in conchiglioni di acciaio inossidabile, per poi rispedirla alla nazione originaria come stabilito dal diritto internazionale. Sono i cosiddetti Ca.s.t.o.r. (“cask for storage and transport of radioactive material”), i barattoli giganti di più di cento tonnellate di peso che diventano la tomba finale delle scorie radioattive: sostanze, non dimentichiamolo, che raggiungono una temperatura di 200 gradi centigradi.

Una volta a Gorleben, quindi, i Castor vengono sotterrati tali quali nella fossa predisposta. Si tratta di una vecchia miniera di sale, un elemento che dovrebbe teoricamente garantire l’isolamento del materiale tossico dall’ambiente circostante nel tempo. Ma la sicurezza è, appunto, solo teorica. Una commissione governativa sta ancora valutando con certezza le condizioni geologiche di Gorleben e non è chiaro quanto le cave di sale in questione siano adatte al deposito definitivo dei rifiuti tossici.

 Diversi geologi hanno rilevato il pericolo d’infiltrazioni d’acqua, ruggine e formazione di bolle di gas nel pietrame attorno ai contenitori: a quanto pare, a Gorleben il materiale radioattivo non è isolato a dovere. Alcuni esperimenti risalenti alla fine degli anni ’80 avrebbero addirittura dimostrato l’esistenza di rischi concreti. Inoltre, sembra che le radiazioni tossiche facciano un baffo ai contenitori Castor: la radioattività si riduce con la distanza, ma gli imponenti imballaggi non proteggono chi ci vive attorno e quello che vi cresce vicino. In poche parole, ancora mancano certezze.

Il Governo di Angela Merkel (CDU), tuttavia, non sembra assolutamente intenzionato a risolvere i dubbi nell’immediato: la prossima perizia a Gorleben è prevista per il 2050 ed è destinata a rinnovare l’autorizzazione per il “parcheggio” radioattivo. Una farsa delle formalità, in sostanza, poiché le scorie rimangono nocive per diverse centinaia di migliaia di anni.

Senza dimenticare che il Governo di Berlino ha recentemente deciso di prolungare l’attività delle centrali atomiche tedesche di 14 anni. Protestando contro Gorleben, i tedeschi hanno espresso dissenso nei confronti di un Governo che ha ri-scelto il nucleare senza essere disposto a far le cose per bene in nome della sicurezza. Perché il deposito di Gorleben, più che una scelta dettata dalla ragione, sembra il frutto della convenienza politica ed economica dei gruppi energetici: la sicurezza dei cittadini, quindi, ancora una volta è stata sacrificata agli interessi delle lobby nucleari. Un pasticcio, insomma, che difficilmente il Governo Merkel sarà in grado di recuperare, e che dovrebbe far preoccupare tutti quei Paesi che hanno intenzione di intraprendere la strada dell’energia nucleare senza sapere cosa significhi nella quotidianità.

 

 


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