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di Emanuela Pessina
BERLINO. In Germania ha ricominciato a far parlare di sé il deposito di scorie nucleari di Asse, nella Bassa Sassonia (Nord della Germania): da qualche giorno, l’ex miniera di sale adibita a stoccaggio dei rifiuti tossici ha fatto nuovamente registrare percentuali radioattive fuori dall’ordinario. Con un’unica differenza: dopo trent’anni di silenzio, le autorità sembrano finalmente intenzionate a chiarire la situazione all’interno delle caverne di sale.
A quanto pare, anche la politica comincia a capire: tant’è vero che, nel frattempo, anche il Governo di Angela Merkel (CDU) ha scelto di dire il suo definitivo no al nucleare. Resta da vedere, ora, se l’improvvisa marcia indietro le farà recuperare la fiducia dei suoi cittadini.
Asse è una vecchia miniera di sale a 300 chilometri da Berlino, dove nel 1967 sono stati stoccati 126.300 barili di rifiuti nucleari di bassa e media radioattività. Gli esperti hanno calcolato che, da allora, penetrano quotidianamente 12’000 litri di acqua, il che farebbe pensare a barili arrugginiti non più sigillati a dovere e quindi pericolosi per ambiente e salute. La situazione potrebbe essere tragica, avvertono gli esperti già da qualche tempo, eppure, finora, le autorità non hanno mai ritenuto necessario ulteriori indagini. Neppure nel 1998, quando gli specialisti hanno rilevato una pozzanghera liquida di materiale particolarmente radioattivo alle porte del deposito: nessuno si è mai preso la briga di controllare.
Negli ultimi giorni, vicino al deposito radioattivo di Asse si è registrata la percentuale radioattiva più alta della storia: la differenza è che ora, alla luce dell’acceso dibattito nucleare di questi ultimi tempi, i cittadini tedeschi pretendono chiarezza e la politica non può più fare finta di non capire.
Le autorità hanno deciso di inserire una telecamera che monitori la situazione nelle miniere di Asse: il timore è grande, anche perché da trent’anni a questa parte nessuno ha mai controllato effettivamente cosa stia succedendo nelle caverne di sale di Asse.
E il rispetto per i propri cittadini, assieme alla paura di perdere i propri elettori, hanno fatto cambiare idea anche al Governo di Berlino, che si è deciso per l’abbandono ufficiale dell’energia nucleare venerdì, nel corso di un vertice interno tra il Governo e i rappresentanti dei Laender, gli stati federali tedeschi, sul tema energia: “Siamo tutti d’accordo”, ha esordito con determinazione la cancelliera Angela Merkel (CDU), “tutti vogliamo abbandonare l’energia nucleare il più velocemente possibile per passare alle energie rinnovabili”.
Per cominciare, la Merkel ha annunciato un piano concreto di conversione a favore delle energie ecologiche; un piano tanto ambizioso che neppure l’opposizione se lo sarebbe mai aspettato. Entro giugno, il Governo tedesco svilupperà una legge vera e propria che regoli l’abbandono dell’energia nucleare in maniera risolutiva: nel giro di due mesi, la Germania sarà tenuta a stabilire il tempo di vita rimanente delle 17 centrali nucleari tedesche, la questione che, più di un anno fa, ha dato il via al rovente dibattito sul nucleare in Germania.
All’inizio del 2010, il neo Governo tedesco di cristianodemocratici (CDU) e Liberali aveva deciso di prolungare l’attività delle centrali nucleari per le quali era già stata decretata la chiusura entro il 2021. Già allora, i tedeschi avevano manifestato contro una decisione che sembrava andare a fare gli interessi della lobby atomica in barba alla sicurezza del Paese stesso; a riaprire il dibattito e ad acuirne i toni è stata, inutile dirlo, la recente catastrofe di Fukushiima.
Eppure, la coalizione di Angela Merkel non ha saputo dare il giusto peso alle voci della protesta ed è stata castigata: alle recenti elezioni regionali, CDU e Liberali hanno registrato le percentuali di voto più basse degli ultimi 50 anni a favore dei Verdi. Sconfitte, per alcuni, di portata storica, che segnano l’inesorabile tramonto dell’attuale Governo Merkel.
E ora, la Cancelliera tenta di fare marcia indietro e vuole ricominciare con l’ecologia. Oltre a indicare le tappe dell’abbandono del nucleare, la legge annunciata dalla Merkel dovrà contenere un programma concreto di sviluppo delle energie rinnovabili. Entro giugno, la Germania prevede di aver ben chiaro dove costruire gli impianti per la produzione di energia eolica, così come la provenienza dei cinque miliardi di euro richiesti per la costruzione dei suddetti, e gli ulteriori due miliardi annuali necessari per il rinnovamento “in verde” delle abitazioni private. L’unica cosa certa, per il momento, è che il burbero ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble (CDU) non era presente al vertice: e, si sa, è difficile fare i conti senza l’oste.
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di Alessandro Iacuelli
Nei giorni scorsi, è passata la notizia, un po' al volo e senza molti approfondimenti, di un sequestro avvenuto nel porto di Napoli l'11 aprile: cinque container pieni di rifiuti speciali, pronti ad essere imbarcati per un porto della Repubblica Popolare Cinese. Qualcuno ha precisato che si tratta di rifiuti “speciali non pericolosi”, altri che si tratta di una semplice esportazione illecita. In realtà l'argomento è delicato, non si tratta di un caso isolato, e va approfondito con la dovuta attenzione.
I cinque container sono stati scoperti e sequestrati nel Porto di Napoli dagli uomini del Comando provinciale della guardia di finanza partenopea, in collaborazione con i funzionari dell'Agenzia delle Dogane, attraverso l'attività di analisi dei rischi sulla documentazione presentata all'ingresso degli spazi doganali. All'interno è stato trovato un carico costituito da cascami, ritagli e avanzi di altre materie plastiche, classificabili come rifiuti speciali non pericolosi ai sensi del Testo Unico delle norme in materia ambientale.
Dai successivi accertamenti sulla documentazione è emerso che il destinatario finale dei rifiuti era, contrariamente a quanto dichiarato dall'esportatore, un'attività commerciale e non di recupero. Quindi il materiale a cosa era destinato? Non al recupero, ma neanche allo smaltimento, attività peraltro vietata dalla normativa comunitaria. Se il destinatario è un commerciante, è plausibile che li avrebbe rivenduti ad altri soggetti, magari a loro volta commerciali e quindi in grado di rivenderli. Di conseguenza, quei rifiuti sarebbero stati trasportati e trasferiti in altre città della Cina, fino a perderne le tracce. E poi? E' questo l'interrogativo inquietante.
I cinesi non buttano niente. E' questa la risposta, ancora più inquietante. Quel che è certo è che oramai da anni in Cina gli scarti, soprattutto plastici, finiscono nuovamente nel ciclo produttivo. A sostenere questa tesi, che pure è ormai confermata da anni di indagini, è Alessio Iannone, capitano della Guardia di Finanza di Napoli, che proprio a proposito di questo sequestro dichiara: "Non è la prima volta che operiamo sequestri di questo tipo; è difficile, però, riuscire a capire la loro destinazione finale perché, non essendo paese comunitario, è complesso estendere la nostra giurisdizione. Certamente i rifiuti che nel corso del tempo abbiamo rinvenuto nel porto partenopeo vengono reimpiegati e trasformati in altro che poi, a sua volta, viene rimesso sul mercato o sotto forma di giocattoli, o di articoli elettronici oppure in fibre sintetiche per abiti e maglieria".
Quindi, in definitiva, ci tornano indietro, sotto forma diversa, celati dietro l'infinità di prodotti "made in PRC" che quotidianamente usiamo. Dai giocattoli per i nostri bambini, ai vestiti, passando anche per l'elettronica. Quella plastica viene fusa, triturata, e plagiata di nuovo. Poco importa se in Italia era classificata come "non recuperabile", magari perché inquinata e contaminata da sostanze chimiche velenose, magari perché proveniente da cicli industriali in cui quel materiale va a contatto con cose che non ne permettono il riuso. Per questa volta non sono arrivati a Tsingtao, città sub-provinciale nell'est della provincia di Shandong, sede di un importante porto, base navale e centro industriale, ma chissà quanti container passano quotidianamente i controlli.
Sempre restando al caso di pochi giorni fa, racconta il colonnello Pietro Venutolo delle fiamme gialle: "E' un mercato molto florido perché, nonostante il prezzo di ogni singolo quintale di rifiuti non sia molto alto, queste aziende si arricchiscono sulle grosse quantità e sul fatto che, violando le normative vigenti in materia, evitano di pagare tasse specifiche violando, di fatto, le regole della concorrenza. Nel caso del sequestro specifico dei cinque container, il carico era privo di autorizzazioni e la merce destinata a impianti inesistenti o non impiegati per il trattamento dei rifiuti". Il titolare della ditta esportatrice, operante nell'hinterland napoletano, è stato denunciato a piede libero, mentre i rifiuti, per un totale di 86.070 chilogrammi, sono stati sequestrati.
Per quel materiale, la legge prevede ed impone lo smaltimento, non la reimmissione in commercio. Nonostante questo, il destinatario commerciale cinese è una società esercente un'attività legata alla realizzazione di giocattoli, casalinghi per la casa e articoli elettronici.
Tanto per chiarire la dimensione del fenomeno, solo nel porto di Napoli, che si conferma da decenni come snodo nevralgico per questo tipo di traffici, di casi del genere ce ne sono mediamente una decina all'anno. Di casi portati alla luce, s'intende. Il porto ha una movimentazione containers talmente elevata che, se si fa una media su un anno, i container che transitano per la dogana sono più di uno al secondo, oltre 3600 all'ora.
L'Agenzia delle Dogane, con le poche forze a disposizione, non può naturalmente controllare ogni container in movimento. Vengono usati dei particolari algoritmi, basati sui modelli matematici della Teoria dei Giochi, per calcolare quali container, a campione, andare qua e là a controllare. In molti casi si riesce a controllare quelli giusti, ma si tratta plausibilmente di una punta d'iceberg: poche decine di container sequestrati a fronte di chissà quanti che ne passano.
Casi simili sono avvenuti e avvengono anche in altri porti italiani: Taranto, Trieste, Ancona. Proprio ad Ancona, negli scorsi mesi, è avvenuto un caso simile. I Carabinieri del NOE hanno sequestrato sei container contenenti rifiuti speciali non trattati, destinati a Cina, Hong Kong ed India, e spacciati per materia prima da lavorare.
Quei rifiuti provenivano da un'azienda friulana con sede a San Quirino (PN), che dal 2006 opera nel settore della gestione e del trasporto di rifiuti speciali non pericolosi di materiale plastico. L'azienda raccoglieva tali rifiuti, in grandi quantità, dai rispettivi produttori e, successivamente, li scaricava in impianti di destinazione finale senza farli passare dal proprio impianto di recupero.
Si tratta di casi molto diversi rispetto a quelli dei trasporti di rifiuti verso il Golfo di Guinea, o verso l'Africa in generale. In quel caso, infatti, per risparmiare, reputando che trattare i rifiuti speciali sia troppo dispendioso di fondi ed energie, le industrie italiane che vogliono tagliare i costi, usando la "crisi economica" come paravento, trovano la soluzione più semplice: spedirli altrove dove nessuno andrà a controllare, andare ad inquinare altri luoghi, lontani da occhi indiscreti, dove spesso la fame compra tutto.
Con la Cina ed il sud-est asiatico, invece, viene interrotto il ciclo dei rifiuti e prolungato il ciclo delle merci, senza che avvenga un reale riciclaggio, un reale trattamento disinquinante, spesso inesistente, dei materiali da smaltire: i cinesi triturano il tutto, fondono, costruiscono nuovi oggetti, e poi li rivendono di nuovo a noi.
Succede ogni anno, in Italia, troppe decine di volte. Inutili gli allarmi, deboli i richiami all'attenzione fatti ai consumatori, che quasi mai hanno la possibilità di capire se stanno comprando una plastica ancora pura o se contaminata da sostanze tossiche.
E' la nuova frontiera nell'ascesa delle ecomafie al potere economico mondiale: la globalizzazione. Lo sostiene anche Michele Buonomo, presidente di Legambiente Campania: "Enormi guadagni per la nuova Eldorado dell'ecomafia dei rifiuti globalizzata con il container come elemento cardine del traffico. Una sorta di riciclo criminale che alimenta lavoro nero e mala-economia. Siamo davanti a un nuovo capitolo della storia noir dell'ecomafia dove i rifiuti speciali partono dalla Campania arrivano in Oriente, ritornano in Italia sotto forma di prodotti di ogni tipo, dai giochi in plastica per bambini a materiale informatico per uffici, ma con una marchio di qualità: alto livello di tossicità".
Nel 2009, 7.400 le tonnellate di rifiuti speciali sequestrate nel corso di controlli doganali in Italia, quasi il doppio dell'anno precedente. Per il 2010 non esistono ancora dati ufficiali. E per quanto riguarda quell'alto livello di tossicità, i prodotti finali, a volte sequestrati in Italia quando erano già sui banchi di vendita al dettaglio, includono cosmetici, giocattoli, pitture e vernici, prodotti di carrozzeria ed apparecchiature elettriche e elettroniche.
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di Alessandro Iacuelli
Sulla skyline di Fukushima, proprio in corrispondenza dei miseri resti dell'impianto di Daiichi, è comparso nelle scorse ore un nuovo elemento, suggestivo ma preoccupante: un breve lampo luminoso, di forma approssimativamente globulare. Molto breve per essere notato ad occhio nudo da tutti, troppo breve per essere immortalato da macchine fotografiche e telecamere. Sono passati alcuni minuti, e un altro lampo; poi alcune ore, e il fenomeno ha iniziato a ripetersi con una frequenza apparentemente aperiodica, ma che risponde perfettamente alle regole della meccanica statistica.
Il fenomeno dei lampi, una rapida ionizzazione dell'aria attorno ai reattori 1 e 2, non è però sfuggito alla strumentazione di controllo portata in loco un po' da tutti i Paesi del mondo, accorsi nella terra del Sol Levante nel tentativo di dare una mano a scongiurare l'apocalisse nucleare, ed il conseguente olocausto. Grazie alle registrazioni strumentali, il fisico Ferenc Dalnoki-Veress, del "James Martin Center for Nonproliferation Studies" in California, ha potuto caratterizzare quanto sta succedendo.
Nonostante la Tepco, società che gestisce la centrale di Fukushima, abbia annunciato da parecchi giorni che i reattori sono spenti, quei bagliori luminescenti altro non sono che lampi di neutroni. Dalnoki-Veress; analizzando le misure, ha anche notato che non tornano i conti del livello di cloro radioattivo nell'acqua delle turbine del reattore 1.
La presenza di cloro radioattivo oltre i valori attesi, e soprattutto la presenza preoccupante, allarmante e non ambigua dei lampi di neutroni, indicano chiaramente che all'interno dell'impianto sono ancora in corso delle reazioni a catena, delle reazioni nucleari. Ma a reattore spento, si tratta di reazioni totalmente incontrollate.
Già il 25 marzo, la Tepco ha rilevato la presenza di cloro 38 nell'acqua dei locali delle turbine del reattore 1. Il cloro 38 si forma spontaneamente quando dei neutroni colpiscono il cloro 37, un elemento normalmente presente nell'acqua di mare. La notizia aveva favorito la Tepco stessa, ed il governo giapponese a ruota, nel frenare ogni allarmismo. La tesi presentata è stata quella del "nulla di strano": il cloro 37 è presente in acqua di mare, in quell'acqua di mare usata per raffreddare il reattore, reattore spento e quindi dove non avviene alcuna reazione a catena.
Secondo i calcoli di Dalnoki-Veress, un reattore spento non può produrre abbastanza neutroni da giustificare i livelli di cloro 38 rilevati: ben 1,6 milioni di becquerel per millilitro. Per il fisico, nonostante le barre di controllo abbiano bloccato la fissione, la parziale o totale fusione delle barre di uranio avrebbe portato a contatto quantità di combustibile nucleare tali da far continuare le reazioni nucleari.
Il fenomeno è chiaramente oltre ogni allarme pensato a livello industriale, ben oltre il famoso "livello 7" che si vuol far credere raggiunto solo dalla sciagura di Chernobyl: se la quantità di Uranio e Plutonio che va in contatto supera la famosa "massa critica" di cui sono pieni tutti i manuali di fisica anche elementari, l'esplosione atomica sarà inevitabile. In un attimo.
A triste conferma di questa tesi arrivano le rilevazioni, confermate dalla Tepco e rese note dall'agenzia Kyodo News, dei lampi di neutroni vicino ai reattori 1 e 2. Per causarli, c'è bisogno di brevi ma ripetute reazioni di fissione. Una bomba atomica già innescata. Le autorità hanno risposto ribadendo che la situazione è sotto controllo.
Non è possibile dal punto di vista tecnico, da quello scientifico, e da quello del buon senso, che la situazione sia sotto controllo: tra i resti di quello che fu un grande impianto nucleare, c'è fissione nucleare in corso. Si riaccendono brevi reazioni senza alcun controllo e il lampo di neutroni, premessa di una possibile esplosione atomica, diventa il nuovo incubo per Fukushima.
La Tepco ha ammesso di aver riscontrato l'uscita di fasci di neutroni dal reattore 1, e in diversi momenti dei vari giorni passati è stata anche osservata l'immissione in atmosfera di notevoli dosi di isotopi caratterizzati da un tempo di dimezzamento brevissimo, cioè tali da dimezzarsi rapidamente e naturalmente. Quasi tutti elementi transuranici pesanti, che possono significare una cosa sola: anche se il reattore è spento, parte del nucleo è tuttora sporadicamente interessata da reazioni nucleari a catena. E se quella parte del nucleo s’ingrandisse, per semplice contatto con altre parti...
Oltre al cloro 28, hanno fatto la loro comparsa isotopi come il tellurio 129, lo iodio 131 ed altro. Cosa sta succedendo a Fukushima, allora? Il fatto che del plutonio sia stato trovato fuori dal reattore, significa che il contenitore del reattore è stato bucato, il nocciolo ha fuso e il risultato di questo pericoloso melt down sta scendendo verso il basso.
Se non saranno in grado di fermarlo raggiungerà la falda profonda e la catastrofe sarà completa. A Chernobyl, dove anche avvenne il melt down, la colata lavica radioattiva si fermò in modo fortuito, grazie ad uno spesso strato di sottosuolo che si rivelò impermeabile a tutto. Se in Giappone non sarà così, le cose andranno molto peggio nel giro di poco tempo.
La considerazione tecnica è che gli stessi tecnici della Tepco mostrano spesso idee confuse circa cosa stia succedendo e in quale punto preciso. Al di là della difficoltà oggettiva a gestire una crisi nucleare di questo tipo, c'è il fatto imprescindibile che una semplice fuoriuscita di plutonio significa contaminazione per migliaia di anni: è un incidente che non è mai successo, pertanto nel mondo manca un'adeguata esperienza circa il "cosa fare".
Tutto questo implica che fatalmente diventa diversa da zero la probabilità di vedere scoppiare una bomba atomica. Questo significa che dovrebbe immediatamente scattare, prima dell'ora dell'apocalisse, l'ora dell'evacuazione completa di un'area ben più vasta di quella svuotata dalle autorità nipponiche. Ed ogni minuto che si perde, potrebbe essere troppo tardi.
Il professor Dalnoki-Veress ha scritto un articolo sulle misure che ha effettuato e sull'analisi dei dati, articolo reperibile in rete: http://lewis.armscontrolwonk.com/files/2011/03/Cause_of_the_high_Cl38_Radioactivity.pdf
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di Alessandro Iacuelli
Sale l'allarme nucleare in Giappone, giorno dopo giorno. Ogni giorno sembra che si sia arrivato al massimo allarme possibile, e ogni giorno si va oltre. Adesso siamo alla certezza che nel suolo sono state rinvenute tracce di plutonio. A renderlo noto è la Tepco, la controversa società che gestisce la centrale nucleare di Fukushima. Ad un primo esame, sembrerebbe che il plutonio sia fuoriuscito dalle barre di combustibile del reattore numero 3 danneggiato dal terremoto, e non sarebbe mai dovuto fuoriuscire, non ci sono parametri di sicurezza che tengano, e neanche scuse del tipo "l'evento sismico è andato oltre ogni previsione".
Il Plutonio non può e non deve mai entrare contatto con l'ambiente. Viene definito infatti come "la sostanza più pericolosa al mondo", il che è già sbagliato per definizione: si tratta di un elemeno transuranico pesante, incompatibile con la vita nell'intero universo, pertanto non esiste al mondo, e neanche in altri mondi, ma viene realizzato artificialmente dall'uomo.
Nel frattempo oltre mille persone, tra residenti locali e addetti alle squadre di soccorso, sono state sottoposte a test per valutarne la contaminazione. Forse prematuro: occorrono almeno 30 giorni per vederne gli effetti, primo tra tutti una violenta diminuzione dei linfociti nel sangue, che può portare alla morte rapidamente. Non cessa di tremare la terra un'altra scossa di terremoto di magnitudo 6,4 della scala Richter è stata registrata nel nordest del Giappone.
La situazione nella centrale nucleare resta gravissima e spesso fuori controllo, ad ammetterlo è stato il capo dell'Agenzia nucleare nell'Onu. Intanto, Anne Lauvergeon, presidente del colosso francese del nucleare Areva, è arrivata in Giappone per offrire aiuto contro la crisi nucleare. La manager, secondo quanto riferisce l'agenzia Kyodo, è accompagnata da cinque esperti nucleari, specializzati nelle tecniche di rimozione dell'acqua contaminata accumulatasi all'interno di reattori danneggiati. In realtà, l'Areva procede per conto delle aziende nipponiche alla lavorazione del mox, il combustibile misto fatto di ossidi di uranio e plutonio, utilizzato nel reattore n.3.
Il resto del mondo? Si sente impotente, e con ragione. Nella mattinata di mercoledì scorso, una preoccupante uscita di fumo è comparsa a Fukushima Daini, la centrale gemella dell'impianto Daiichi, quello danneggiato. La nube si è levata dalla sala comandi della centrale elettrica che alimenta le turbine di uno dei reattori di Daini e immediatamente è scattato l'allarme.
Le notizie non sono confortanti neanche riguardo al tasso di iodio radioattivo nel mare, a 300 metri dalla centrale nucleare, che risulta essere 3.355 volte superiore al limite di legge e molto di più se invece seguiamo i limiti del buon senso, della chimica, della biologia. A rendere noti i valori è stata l'Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese. Il vicedirettore dell'Agenzia, Hidehiko Nishiyama, ha provato a minimizzare ricordando come la popolazione locale sia stata allontanata e come l'attività di pesca nella zona sia stata vietata. Non solo non basta, ma minimizzare gli incidenti nucleari è quanto di più criminale possa fare un'istituzione pubblica. Alla fine, il vicedirettore ha comunque ammesso di brancolare nel buio, e di non conoscere le cause dell'aumento del livello di radiazioni.
Il governo di Tokyo, secondo quanto si è appreso, starebbe valutando la possibilità di coprire i tre reattori danneggiati per ridurre le emissioni radioattive e di utilizzare un'autocisterna per sbarazzarsi dell'acqua contaminata persente nell'impianto. Chissà come, viene da chiedersi. Il governo starebbe pensando di ricorrere a delle coperture speciali per i tetti e per le pareti degli edifici esterni dei reattori numero 1, 3 e 4. Un altro piano preso in valutazione, prevede di ancorare un'autocisterna nell'Oceano Pacif
co, vicino ai reattori 1 e 4, per eliminare l'acqua radioattiva rinvenuta nella sala macchine e in un tunnel in prossimità del reattore 2. Il portavoce del governo di Tokio ha annunciato, però, la soluzione più probabile - nel lungo termine - è quella dello smantellamento totale delle centrali di Fukushima: l'Esecutivo giapponese, spinto dallo choc del Paese per quello che sta accadendo, potrebbe decidere per questa mossa drastica, ma deve affrontare le ritrosie della Tepco che vorrebbe chiudere solo quattro reattori. Intanto, il governo degli Stati Uniti ha fatto sapere che invierà un gruppo di robot in Giappone per cercare di riprendere il controllo della situazione a Fukushima.
La stessa Tepco ha già annunciato che i reattori 1, 2 3 e 4 saranno probabilmente chiusi, ma anche il destino delle unità 5 e 6 sembra segnato e nessuno pensa più di costruire i due nuovi reattori nucleari che erano previsti nell'area. I reattori 1, 2 e 3 probabilmente sono inservibili a causa dei danni che avrebbero subito e che non si potranno davvero conoscere fino a che non verranno completamente stabilizzati. L'unità 4, nonostante fosse fuori servizio al momento dello tsunami, ha subito gravi danni all'edificio del reattore, con un'esplosione di idrogeno ed incendi nei dintorni della piscina del combustibile esausto, che potrebbe aver subito danni.
Il terremoto dell'11 marzo sembra aver spazzato via, mostrandone tutta la vulnerabilità e portando a galla e facendo esplodere tutte le magagne nascoste, quello che era destinato a diventare il più grande distretto nucleare del mondo: in totale, nello spazio di soli 25 Km di costa, i reattori esistenti e quelli in progetto sarebbero arrivati ad almeno 13, per circa 12.000 MWe, il 7,5% dell'elettricità del Giappone, un Paese dove il nucleare fornisce, anzi forniva, il 30% dell'energia.
Ora il governo di Tokyo è veramente nei guai: aveva promesso che il nucleare entro il 2017 avrebbe rappresentato il 40% della produzione di energia del Paese, ma i pasticci post terremoto della Tepco e lo tsunami hanno fatto emergere l'opacità del nucleare giapponese e l'ingordigia delle grandi multinazionali complici dello Stato, per non parlare dell'utilizzo del Mox che il governo voleva incrementare come combustibile nucleare e che i giapponesi hanno scoperto sulla loro pelle essere molto pericoloso. Anche il Giappone dovrà cercare nuove energie e dovranno essere davvero alternative. Intanto, l’incubo nucleare sembra non avere fine.
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di Mario Braconi
Souteigai (totalmente inatteso, in Giapponese): con questo aggettivo hanno descritto il terremoto di magnitudo 8,9 Richter e il conseguente tsunami i rappresentanti delle istituzioni nipponiche e quelli della Tokyo Electric Company (TEPCO), la società elettrica che gestisce l’impianto di Fukushima. Benché non occorra il conforto della scienza per comprendere come questa valutazione sia non solo errata, ma anche in malafede, un servizio molto accurato pubblicato da Reuters USA, il 29 marzo, conferma l’impressione fornita dal buonsenso: in effetti, tutte le istituzioni chiamate a garantire la sicurezza dei cittadini giapponesi, pur essendo nelle condizioni di prevedere e contenere i danni di un evento disastroso tutt’altro che improbabile, hanno preferito ignorare allarmi, segnali e risultati di ricerche effettuate sul campo.
Non solo: da un punto di vista politico, alla luce dei molti elementi di fatto riportati dall’agenzia di stampa, è evidente un impressionante rimbalzo di responsabilità, a due livelli: dal governo e dalle (ben) tre agenzie per l’energia atomica al gestore e da quest’ultimo al personale del singolo impianto.
Reuters ha messo le mani sul rapporto presentato nel luglio del 2007 dal team di Toshiaki Sakai, tecnico anziano della TEPCO, alla Conferenza Internazionale sull’Ingegneria Nucleare di Miami: da quel documento, realizzato sulla base di ricerche pluriennali, si evinceva come una delle strutture più a rischio della società elettrica fosse proprio l’impianto Dai-Ichi di Fukushima. Nella zona in cui sorge la struttura, infatti, i terremoti di magnitudo pari o superiore ad 8 sono tutt’altro che infrequenti; se ne sono registrati ben 4 in quattrocento anni. Secondo Sakai, inoltre, non vi era alcun dubbio che, nel corso di un cinquantennio, la struttura avrebbe dovuto sopportare uno se non due tsunami con onde non inferiori ai due metri; in ogni caso, la probabilità che l’inevitabile tsunami potesse superare i sei metri era stimata “non inferiore al 10%”.
Questo dato, apparentemente tecnico, è in verità di importanza essenziale: la diga che protegge la struttura dalla furia del mare, infatti, è alta proprio sei metri: troppo poco, visto che le onde dello tsunami che ha invaso l’impianto nucleare 11 marzo scorso erano alte quattordici metri. Il limite dei sei metri era funzione delle conseguenze del terremoto che colpì il Cile nel 1960, provocando uno tsunami in Giappone con onde per l’appunto di quelle dimensioni.
La cosa sorprendente, però, è che, nonostante una ricerca della stessa TEPCO di quattro anni fa avesse messo in guardia sull’elevato rischio di una protezione così bassa, nulla sia stato fatto per migliorare la resistenza della centrale ad un maremoto. In effetti altri operatori elettrici hanno riconosciuto l’importanza di questo fattore: il personale della centrale di Onagawa della Tohoku Electric Power Company, più vicina di ben 75 chilometri all’epicentro del terremoto è riuscito a spegnere i reattori in sicurezza mentre il sistema di raffreddamento ha continuato regolarmente a funzionare. Questo perché è costruita a 15 metri sul livello del mare.
Non solo: come ha candidamente spiegato il governo giapponese all’agenzia ONU sull’energia atomica (AEIA) nel 2008 “non esistono vincoli di legge a rivisitare con regolarità gli standard di sicurezza dei siti”. Se da un lato le agenzie che si occupano di energia atomica in Giappone non hanno mai escluso la possibilità di un incidente nucleare grave (fusione del nocciolo), dall’altro esse hanno sempre associato a tale evento una probabilità estremamente bassa (secondo un documento ufficiale del 1992, esso potrebbe verificarsi una volta ogni 185 anni).
Talmente bassa che alla Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese è sembrato perfettamente naturale, nel dicembre 2010, affidare la gestione dell’eventuale emergenza direttamente alle società produttrici. Impossibile non concordare con Hideaki Shiroyama, professore all’università di Tokio ed esperto di politiche di sicurezza nucleare: “Tanto i regolatori che la TEPCO stanno solo cercando di sfuggire alle loro responsabilità”.
Mentre negli Stati Uniti, a seguito dell’incidente di Three Mile Island, gli standard prevedono la costruzione di sfiatatoi rinforzati che, in maniera non troppo dissimile dalla canna di un’arma da fuoco, permettono alla pressione in eccesso di uscire senza che avvengano danneggiamenti al canale e soprattutto senza provocare esplosioni nel reattore, i regolatori giapponesi non hanno imposto agli operatori di adeguarsi a questa elementare misura di sicurezza. A dire il vero, l’idea di aprire i (vulnerabili) sfiatatoi di Fukushima, assunta in un momento di panico generale, è stata una delle cause principali del disastro: secondo un esperto giapponese sentito da Reuters, una simile manovra equivale ad accendere una fiamma ossidrica dentro il serbatoio di un’automobile. Non per niente, a sei ore dall’apertura degli sfiatatoi, il reattore n. 1 è esploso.
E’ già piuttosto singolare che un regolatore deleghi i suoi compiti al soggetto controllato, specialmente quando i rischi per la salute pubblica e gli interessi economici sono così cospicui e sovente in conflitto tra loro; se non fosse che l’immagine della TEPCO come operatore era già gravemente compromessa. Basti ricordare che, nel corso dei 17 controlli di sicurezza effettuati dalla Nuclear Safety Agency Organization sugli stabilimenti della TEPCO dal 2005, sono state rilevate ben 18 anomalie, dieci delle quali dovute ad imperizia o errori del personale. Nonostante ciò, la TEPCO continuava a godere della fiducia praticamente incondizionata delle istituzioni giapponesi, cosa che non mancò di attirare le critiche dell’AIEA.
Che vi sia qualcosa che non va nelle procedure della TEPCO si capisce anche dal fatto che il primo incidente al reattore n.2 di Fukushima è stato apparentemente causato dal fatto che, nel caos successivo al terremoto, nessuno si è ricordato (o ha potuto) rifornire di gasolio i generatori che alimentavano i dispositivi di pompaggio di acqua. Se essi avessero funzionato, avrebbero probabilmente impedito l’esplosione del reattore.
Nonostante questo sistema di controlli traballante, per non dire autolesionista, il governo giapponese ha continuato nella sua politica di rafforzamento dell’energia nucleare (tra gli obiettivi, quello di realizzare con l’atomo il 50% della produzione, e/o raddoppiare l’apporto rispetto al 2007). Per questa ragione, solo un mese prima del terremoto, i regolatori avevano approvato un piano di estensione dell’operatività di Fukushima per altri dieci anni; il tutto anche se si erano già registrate carenze significative nella sala motori delle pompe e nonostante la stessa TEPCO ad un certo punto avesse ammesso di non aver effettuato ispezioni su ben 33 elementi collegati al sistema di raffreddamento, incluse le pompe stesse e i generatori destinati a partire in caso di emergenza.
In conclusione, si può ben dire che a provocare il disastro di Fukushima siano state, oltre alla furia degli elementi, una miscela distruttiva di errori progettuali ed imperizia umana, santificate da un criminale laissez faire delle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sulla sicurezza dei cittadini. Fermo restando che il nucleare sicuro era e resta un mito, in un mondo perfetto, dove la vita umana fosse considerata prioritaria rispetto al profitto e all’orgoglio nazionale, forse si potrebbe immaginare un sistema di produzione di elettricità dall’atomo a rischio controllato: poiché invece nel mondo reale queste condizioni non vengono riscontrate, è inevitabile che si levi un “No” sonoro a questa forma di produzione di elettricità.