di Mario Braconi

Souteigai (totalmente inatteso, in Giapponese): con questo aggettivo hanno descritto il terremoto di magnitudo 8,9 Richter e il conseguente tsunami i rappresentanti delle istituzioni nipponiche e quelli della Tokyo Electric Company (TEPCO), la società elettrica che gestisce l’impianto di Fukushima. Benché non occorra il conforto della scienza per comprendere come questa valutazione sia non solo errata, ma anche in malafede, un servizio molto accurato pubblicato da Reuters USA, il 29 marzo, conferma l’impressione fornita dal buonsenso: in effetti, tutte le istituzioni chiamate a garantire la sicurezza dei cittadini giapponesi, pur essendo nelle condizioni di prevedere e contenere i danni di un evento disastroso tutt’altro che improbabile, hanno preferito ignorare allarmi, segnali e risultati di ricerche effettuate sul campo.

Non solo: da un punto di vista politico, alla luce dei molti elementi di fatto riportati dall’agenzia di stampa, è evidente un impressionante rimbalzo di responsabilità, a due livelli: dal governo e dalle (ben) tre agenzie per l’energia atomica al gestore e da quest’ultimo al personale del singolo impianto.

Reuters ha messo le mani sul rapporto presentato nel luglio del 2007 dal team di Toshiaki Sakai, tecnico anziano della TEPCO, alla Conferenza Internazionale sull’Ingegneria Nucleare di Miami: da quel documento, realizzato sulla base di ricerche pluriennali, si evinceva come una delle strutture più a rischio della società elettrica fosse proprio l’impianto Dai-Ichi di Fukushima. Nella zona in cui sorge la struttura, infatti, i terremoti di magnitudo pari o superiore ad 8 sono tutt’altro che infrequenti; se ne sono registrati ben 4 in quattrocento anni. Secondo Sakai, inoltre, non vi era alcun dubbio che, nel corso di un cinquantennio, la struttura avrebbe dovuto sopportare uno se non due tsunami con onde non inferiori ai due metri; in ogni caso, la probabilità che l’inevitabile tsunami potesse superare i sei metri era stimata “non inferiore al 10%”.

Questo dato, apparentemente tecnico, è in verità di importanza essenziale: la diga che protegge la struttura dalla furia del mare, infatti, è alta proprio sei metri: troppo poco, visto che le onde dello tsunami che ha invaso l’impianto nucleare 11 marzo scorso erano alte quattordici metri. Il limite dei sei metri era funzione delle conseguenze del terremoto che colpì il Cile nel 1960, provocando uno tsunami in Giappone con onde per l’appunto di quelle dimensioni.

La cosa sorprendente, però, è che, nonostante una ricerca della stessa TEPCO di quattro anni fa avesse messo in guardia sull’elevato rischio di una protezione così bassa, nulla sia stato fatto per migliorare la resistenza della centrale ad un maremoto. In effetti altri operatori elettrici hanno riconosciuto l’importanza di questo fattore: il personale della centrale di Onagawa della Tohoku Electric Power Company, più vicina di ben 75 chilometri all’epicentro del terremoto è riuscito a spegnere i reattori in sicurezza mentre il sistema di raffreddamento ha continuato regolarmente a funzionare. Questo perché è costruita a 15 metri sul livello del mare.

Non solo: come ha candidamente spiegato il governo giapponese all’agenzia ONU sull’energia atomica (AEIA) nel 2008 “non esistono vincoli di legge a rivisitare con regolarità gli standard di sicurezza dei siti”. Se da un lato le agenzie che si occupano di energia atomica in Giappone non hanno mai escluso la possibilità di un incidente nucleare grave (fusione del nocciolo), dall’altro esse hanno sempre associato a tale evento una probabilità estremamente bassa (secondo un documento ufficiale del 1992, esso potrebbe verificarsi una volta ogni 185 anni).

Talmente bassa che alla Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese è sembrato perfettamente naturale, nel dicembre 2010, affidare la gestione dell’eventuale emergenza direttamente alle società produttrici. Impossibile non concordare con Hideaki Shiroyama, professore all’università di Tokio ed esperto di politiche di sicurezza nucleare: “Tanto i regolatori che la TEPCO stanno solo cercando di sfuggire alle loro responsabilità”.

Mentre negli Stati Uniti, a seguito dell’incidente di Three Mile Island, gli standard prevedono la costruzione di sfiatatoi rinforzati che, in maniera non troppo dissimile dalla canna di un’arma da fuoco, permettono alla pressione in eccesso di uscire senza che avvengano danneggiamenti al canale e soprattutto senza provocare esplosioni nel reattore, i regolatori giapponesi non hanno imposto agli operatori di adeguarsi a questa elementare misura di sicurezza. A dire il vero, l’idea di aprire i (vulnerabili) sfiatatoi di Fukushima, assunta in un momento di panico generale, è stata una delle cause principali del disastro: secondo un esperto giapponese sentito da Reuters, una simile manovra equivale ad accendere una fiamma ossidrica dentro il serbatoio di un’automobile. Non per niente, a sei ore dall’apertura degli sfiatatoi, il reattore n. 1 è esploso.

E’ già piuttosto singolare che un regolatore deleghi i suoi compiti al soggetto controllato, specialmente quando i rischi per la salute pubblica e gli interessi economici sono così cospicui e sovente in conflitto tra loro; se non fosse che l’immagine della TEPCO come operatore era già gravemente compromessa. Basti ricordare che, nel corso dei 17 controlli di sicurezza effettuati dalla Nuclear Safety Agency Organization sugli stabilimenti della TEPCO dal 2005, sono state rilevate ben 18 anomalie, dieci delle quali dovute ad imperizia o errori del personale. Nonostante ciò, la TEPCO continuava a godere della fiducia praticamente incondizionata delle istituzioni giapponesi, cosa che non mancò di attirare le critiche dell’AIEA.

Che vi sia qualcosa che non va nelle procedure della TEPCO si capisce anche dal fatto che il primo incidente al reattore n.2 di Fukushima è stato apparentemente causato dal fatto che, nel caos successivo al terremoto, nessuno si è ricordato (o ha potuto) rifornire di gasolio i generatori che alimentavano i dispositivi di pompaggio di acqua. Se essi avessero funzionato, avrebbero probabilmente impedito l’esplosione del reattore.

Nonostante questo sistema di controlli traballante, per non dire autolesionista, il governo giapponese ha continuato nella sua politica di rafforzamento dell’energia nucleare (tra gli obiettivi, quello di realizzare con l’atomo il 50% della produzione, e/o raddoppiare l’apporto rispetto al 2007). Per questa ragione, solo un mese prima del terremoto, i regolatori avevano approvato un piano di estensione dell’operatività di Fukushima per altri dieci anni; il tutto anche se si erano già registrate carenze significative nella sala motori delle pompe e nonostante la stessa TEPCO ad un certo punto avesse ammesso di non aver effettuato ispezioni su ben 33 elementi collegati al sistema di raffreddamento, incluse le  pompe stesse e i generatori destinati a partire in caso di emergenza.

In conclusione, si può ben dire che a provocare il disastro di Fukushima siano state, oltre alla furia degli elementi, una miscela distruttiva di errori progettuali ed imperizia umana, santificate da un criminale laissez faire delle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sulla sicurezza dei cittadini. Fermo restando che il nucleare sicuro era e resta un mito, in un mondo perfetto, dove la vita umana fosse considerata prioritaria rispetto al profitto e all’orgoglio nazionale, forse si potrebbe immaginare un sistema di produzione di elettricità dall’atomo a rischio controllato: poiché invece nel mondo reale queste condizioni non vengono riscontrate, è inevitabile che si levi un “No” sonoro a questa forma di produzione di elettricità.

 

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