di Alessandro Iacuelli

Sono passati mesi, e Fukushima come previsto ha anche iniziato ad uscire dalla memoria di noi europei. A riportarla alla ribalta sono state le notizie di due nuove forti scosse di terremoto, nei giorni scorsi. L'11 agosto, una scossa di sei gradi di magnitudo della scala Richter, con l'epicentro a pochi chilometri dalla centrale nucleare duramente danneggiata dal terremoto dello scorso marzo. Non è scattato l'allerta tsunami.

La seconda il 18 agosto, quando il nordest del Giappone è tornato a tremare: un terremoto di magnitudo 6.8 nelle acque del Pacifico di fronte alla prefettura di Fukushima, seguito dall’allerta tsunami, ha creato paura e apprensione. Ma cosa sta succedendo a Fukushima? Come è evoluta la situazione?

Come si apprende da fonti ufficiali, sono state rilevate tracce di elementi radioattivi nella ghiandola tiroidea del 45% dei bambini sottoposti a controlli delle municipalità limitrofe alla centrale nucleare di Fukushima. Un gruppo di esperti governativi ha effettuato delle analisi su 1.149 bambini sotto i 15 anni, due settimane dopo il sisma e lo tsunami dell'11 marzo, che hanno colpito la centrale nucleare di Fukushima provocando il black out dell'impianto di raffreddamento dei nuclei dei reattori e fughe radioattive di enorme entità.

Dei 1.080 test validi, il 44,6% presenta tracce di contaminazione della tiroide, la ghiandola dove si fissa lo iodio radioattivo, aumentando in questo modo il rischio di sviluppare un tumore. I risultati dei test sono stati comunicati alle famiglie solo la settimana scorsa. Questi sono i dati preoccupanti sul fronte della salute.

Anche sul fronte dell'analisi tecnica, le novità non sono affatto buone. Non fu lo tsunami, o almeno non solo lui, a causare il disastro. Già prima, vale a dire nel momento della violentissima scossa di terremoto, alcune delle strutture dell'impianto avevano ceduto in modo definitivo. La scomoda verità viene raccontata dal quotidiano britannico Independent, in un lungo articolo che raccoglie le testimonianze di numerosi tecnici e operai dell'impianto nucleare giapponese. "La posta in gioco è alta", si legge nell'articolo, "se è stato il terremoto a compromettere strutturalmente l'impianto e la sicurezza del combustibile nucleare, questo potrebbe significare che tutti i reattori di identica concezione presenti in Giappone dovrebbero essere chiusi, perché incapaci strutturalmente di resistere a scosse sismiche di una certa entità."

Nonostante mesi di disinformazione, durante i quali la Tepco, società che gestisce l'impianto, ha continuato ad affermare che quanto accaduto era "assolutamente imprevedibile" e dovuto allo tsunami, emerge in modo sempre più netto che fu il terremoto, ben prima che l'onda gigantesca travolgesse l'impianto, a bloccare il sistema di raffreddamento dei reattori. Lo tsunami, 40 minuti dopo, sommerse, spegnendoli, i generatori, provocando il definitivo spegnimento del sistema e dando il via alla catena di eventi che hanno portato poi alla fusione di tre reattori.

Situazione decisamente da scandalo, per un Paese come il Giappone. Ma di scandali ce ne sono altri dietro l'angolo. La Nuclear Safety Commission nipponica è stata accusata di aver cancellato dal suo sito i dati sui risultati delle visite mediche di controllo radiologico nella prefettura di Fukushima.

La Nuclear Safety Commission aveva caricato i risultati dei test effettuati dal governo a marzo. I risultati, incluse le informazioni che dimostravano che un bambino di 4 anni di Iwaki era stato esposto a 35 millisievert di radiazioni, un livello che non è considerato una minaccia per la salute, sono stati eliminati all'inizio di agosto, ufficialmente perché ci sarebbe la possibilità che i singoli bambini possano essere identificati, in quanto le informazioni sono dettagliate.

La cancellazione dei dati però sta insospettendo molti, visto che nessun altro dato simile per la salute dei bambini è disponibile. Come dice al network radiotelevisivo Nhk Hirotada Hirose, della Tokyo Woman's Christian University, "i bambini hanno maggiori rischi di sviluppare il cancro alla tiroide. Alla commissione non può sfuggire che la  rimozione dei dati potrebbe provocare una reazione negativa riguardo all'esposizione dei bambini. La mossa va contro alla necessità di fornire informazioni accurate all'opinione pubblica". 

Oltre questo, Bellona, Ong scientifico/ambientalista norvegese-russa accusa il governo giapponese di aver "nascosto informazioni e negato i fatti del disastro nucleare di Fukushima Daiichi nucleare, incluso l'aver ignorato le previsioni dal sistema di previsione delle radiazioni del loro stesso Paese, al fine di limitare le costose e distruttive evacuazioni e per evitare la discussione pubblica sul settore nucleare politicamente potente". L'accusa di Bellona si fonda sulle rivelazioni dall'Associated Press confermate da una fonte dell'ex-governo giapponese a Bellona, ​​così come da un rapporto del New York Times.

Nils Bohmer, un fisico nucleare che fa parte di Bellona, aveva già detto più volte che il Giappone stava nascondendo informazioni sui pericoli delle radiazioni e ora è convinto che "politici potenti hanno costretto il Giappone a creare un clima della bocca chiusa, di deferenza acritica al nucleare. Questo è un altro esempio del caos della comunità nucleare giapponese, compresi industria e governo. Tutto questo dimostra la necessità urgente di cambiamenti drastici nell'industria nucleare giapponese, se l'energia nucleare deve avere un futuro in tutto il Giappone".

All'opinione pubblica sarebbero state tenute molte informazioni che cominciano a trapelare solo negli ultimi giorni. Secondo i rapporti quando è iniziato l'incidente nucleare di Fukushimas Daiichi i tecnici nucleari sapevano benissimo che la scuola elementare di Karino sarebbe stata colpita dal fallout radioattivo ma, invece di sgombrarla, è stata trasformata in un rifugio per gli sfollati del terremoto/tsunami. Rapporti su questa clamorosa sottovalutazione stati inviati alle agenzie di sicurezza nucleare del Giappone, ma il flusso dei dati si è fermato lì. 

I documenti e le testimonianze ottenuti da Ap, New York Times e Bellona dimostrano una completa impreparazione dei parlamentari giapponesi, una paralisi nella catena delle comunicazioni tra le istituzioni e anche una pessima conoscenza di base del sistema di previsione delle radiazioni.

"Non è chiaro quante persone potrebbero essere state esposte alle radiazioni rimanendo in zone lungo il percorso della nube radioattiva" dice Bohmer, "figuriamoci se si sa se qualcuno possa soffrire di problemi di salute per l'esposizione. Potrebbe essere difficile provare una connessione: i  funzionari della sanità dicono di non avere intenzione di dare priorità ai test sulle radiazioni per di coloro che erano a scuola".

Le rivelazioni dei dati, o meglio le confessioni, avvengono tra fine maggio e inizio giugno, quando in Giappone ci sono gli ispettori dell'International atomic energy agency (Iaea), il governo e la Tepco a quel punto non potevano più tenere del tutto nascosta la portata del disastro nucleare.

di Alessandro Iacuelli

Così l'ha definito il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo: "un grave regalo alle ecomafie", e non si vede come darle torto. Nella manovra anti crisi appena varata dal Governo, tra le varie misure adottate si prevede l’abolizione del sistema di tracciabilità dei rifiuti, il cosiddetto Sistri. Lo ha detto il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. Il Sistri (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti) fu creato su iniziativa del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nel più ampio quadro di innovazione e modernizzazione della Pubblica Amministrazione per permettere l'informatizzazione dell'intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani per la Regione Campania.

Perchè questa eliminazione? Non si tratta certo di un "taglio" che diminuirà le spese dello Stato, anzi: con il ritorno al vecchio sistema cartaceo, di sicuro ci saranno costi superiori rispetto ad un sistema informatizzato, più veloce e sicuro. L'abrogazione del Sistri, come spiegato dallo stesso Calderoli, è: "Una misura fortemente richiesta da tutte le categorie". Il ministro ha poi enunciato alcune deboli motivazioni, come ad esempio che si tratta di una semplificazione per le aziende, che di certo non gradiscono il Sistri. Certo, non c'entra niente con la manovra anti-crisi, ma l'Italia è anche questa.

Nella stessa serata del 13 agosto, è arrivato il contrattacco del ministro dell'Ambiente: "Gravissima l'inaspettata norma contenuta nella manovra che cancella il Sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti. Un vero e proprio regalo alle ecomafie".

Secondo il ministro il sistema Sistri "avrebbe consentito il controllo e la movimentazione di tutti i rifiuti speciali nel Paese che rappresentano l'80% di quelli prodotti. La tracciabilità dei rifiuti è un obbligo comunitario e tutti sanno che l'attuale sistema cartaceo consente frodi e abusi e non è in grado di fornire in tempo reale, tanto al ministero dell'Ambiente quanto alle forze dell'ordine, un quadro della movimentazione dei rifiuti. I dati nazionali disponibili hanno un ritardo di due anni".

Forti anche le altre dichiarazioni del ministro: "A parole sosteniamo di voler risolvere il problema dei rifiuti che vede mezza Italia in emergenza ma poi facciamo i regali alla criminalità organizzata in nome della semplificazione amministrativa che però stavolta obbligherà le imprese, nel terzo millennio, a usare china e carta anzichè il computer. Mi appello al senso di responsabilità di tutti affinchè si possa correggere questo clamoroso autogol".

Prestigiacono sottolinea quindi che "le imprese sane e le associazioni di categoria non hanno mai chiesto di cancellare il Sistri ma hanno chiesto modifiche e gradualità nell'entrata in vigore. Tutte richieste che sono state accolte. Buttare ora il bambino con l'acqua sporca, è un colpo alla legalità e alla lotta alla criminalità".

Vero è che le imprese sane non hanno mai chiesto di cancellare il Sistri, non proprio vero che la stessa cosa sia stata fatta da tutte le associazioni di categoria, Confindustria in testa, che ha sempre fatto una poco velata opposizione al sistema di tracciabilità.

Strano comportamento per un governo che ha basato la sua credibilità alla lotta alle mafie e che ora si rimangia proprio questo, come anche il fatto di non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Quindi, ieri, il consiglio dei ministri ha deciso di cancellare il progetto, causando un vero e proprio scoramento nella Prestigiacomo.

Eppure il sistema funziona in modo abbastanza semplice. L’azienda che produce rifiuti speciali inserisce in rete i dati sul tipo e la quantità di rifiuti da smaltire. La società di trasporto prescelta indica i mezzi utilizzati, le generalità degli autisti e il percorso. Le aziende di stoccaggio e smaltimento infine forniscono i dati relativi ai materiali ricevuti. Tutte le informazioni viaggiano poi su una speciale chiavetta Usb per computer e Gps montate sui camion adibiti al trasporto. Tutte le operazioni e i trasporti vengono monitorati costantemente da una “sala controllo” e dai carabinieri, anche se presto i dati saranno disponibili per tutte le forze di polizia.

Lo scopo è duplice: mandare in pensione per sempre il sistema dei MUD, documentazione cartacea che fino ad oggi è stata spesso contraffatta e che permette di “evadere” facilmente sulle quantità di rifiuti, e tenere sotto controllo i flussi di rifiuti speciali, di cui ogni anno in Italia spariscono più di una decina di milioni di tonnellate.

In oltre 600 discariche sono già state installate telecamere per controllare i camion in entrata, e il ministero contava di utilizzare anche dei piccoli droni, velivoli quadrielica che possono girare video 3D, per rafforzare i controlli. Il sistema, poi, segnala automaticamente ogni sosta particolare o deviazione dal percorso dei camion che trasportano rifiuti.

Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente sulle ecomafie, in Italia il giro d’affari legato alla gestione criminale dell’ambiente è di circa 20 miliardi di euro. Nel 2009, dice il rapporto, sono cresciute di oltre il 33%, a 5.217, le infrazioni accertate relative allo smaltimento dei rifiuti. All’aprile 2010, poi erano 151 le inchieste in corso su traffici illeciti di rifiuti, coinvolgendo oltre 600 inchieste. Il Sistri, se e quando funzionerà, potrebbe essere un ottimo strumento di contrasto.

Dura la risposta del WWF: "Le parole del ministro Calderoli appaiono sconcertanti e incredibili al tempo stesso. Incredibili perchè non ci si rende conto che sarebbe un falso risparmio; sconcertanti perchè, al di là di ogni riduzione di spesa, sembra che il ministro non si renda conto dell’assoluta gravità del fatto che dietro lo smaltimento illegale dei rifiuti c’è un gravissimo profilo di danno ambientale e il drammatico fenomeno delle ecomafie. Nel merito, dobbiamo sottolineare che ad oggi già diversi milioni sono stati spesi per la tracciabilità dei rifiuti e in particolare per l'organizzazione del Sistri sono stati predisposti: programmi informatici, aggiornamento del personale, sistemi elettronici di controllo, sale operative. Sono inoltre state acquistate le cosiddette ‘black-box’, già distribuite ai privati. Possibile che ora che la gran parte dei costi ricadrebbe sugli operatori in funzione del servizio che svolgono lo Stato si appresta a buttare tutto l’investimento fatto?".Nonostante questo, il sedicente "governo del fare" ha deciso di tornare indietro, trasformando in vero spreco i soldi buttati per la realizzazione e messa in opera del Sistri, e facendo l'ennesimo regalo a quegli industriali che hanno scelto di risparmiare soldi smaltendo abusivamente e senza trattamenti di sicurezza i propri rifiuti tossici.

Di certo, è un'azione che non salverà l'Italia da nessuna crisi economica, ma che prolunga indefinitamente la crisi ambientale del Paese. Applaudono Confindustria e Confartigianato, tira un sospiro di sollievo chi vive e si arricchisce di ecomafia. Questa è l'Italia.

di Sara Seganti 

La più grande foresta pluviale del mondo è di nuovo al centro di uno scontro che vede come protagonisti attivisti internazionali, Parlamento brasiliano, Partito comunista locale, piccoli produttori e grandi multinazionali. Dato il suo rilievo, l’Amazzonia finisce sempre per diventare oggetto del contendere tra diverse visioni dello sviluppo che, negli ultimi mesi, ha visto due questioni di grande rilievo politico all’ordine del giorno.

Da un lato, la controversa riforma del Codice Forestale brasiliano, che ha passato il primo voto della Camera dei deputati a larga maggioranza, suscitando l’indignazione su scala globale: si profila un significativo allentamento dei vincoli di tutela della foresta e un’amnistia per le azioni di disboscamento illegale commesse prima del 2008.

Dall’altro lato la ripresa della lunga e inarrestata serie di omicidi di attivisti, ma sarebbe più giusto definirli lavoratori rurali che si oppongono agli interessi delle grandi compagnie del disboscamento in Amazzonia, sull’esempio di Chico Mendes assassinato nel 1988. Si contano, infatti, più di 1.500 omicidi negli ultimi 25 anni in qualche modo correlati allo sfruttamento della foresta: un dato eloquente riguardo l’assenza di legalità che caratterizza l’Amazzonia, un territorio immenso molto difficile da controllare.

Dall’ecosistema della foresta amazzonica, unico per la ricchezza della sua biodiversità, dipendono il 20% dell’ossigeno e il 60% dell’acqua dolce del mondo. La foresta, perno insostituibile nell’equilibrio della nostra biosfera, è stata già seriamente intaccata dal disboscamento perpetrato intensivamente da grandi compagnie private interessate alle materie prime, alla creazione di pascoli per gli allevamenti di bovini e alla coltivazione intensiva di cereali; ma anche, pur su scala molto ridotta, dai piccoli produttori locali che reclamano il diritto di sfruttare le risorse del posto in cui vivono e uscire così dalla povertà.

Recentemente, grazie all’aumento del controllo da parte del precedente governo brasiliano di Lula negli ultimi anni del suo mandato e alle costanti operazioni di denuncia degli attivisti, la deforestazione aveva subito un calo. Ma da qualche mese la situazione è cambiata di nuovo: da Maggio, da quando cioè la riforma è passata alla Camera, il ritmo della deforestazione è più che raddoppiato.

Si respira aria di impunità nella remota amazzonia, infatti, perché l’attuale Codice Forestale prevede l’obbligo per ogni proprietario terriero di mantenere un quantitativo minimo di foresta vergine pari al 20% di tutto il possedimento. Con il passaggio definitivo della riforma (oltre all’amnistia per le azioni illegali di disboscamento prima del 2008) questa percentuale potrebbe salire legalmente fino all’80%.

Ora, è tutto da vedere che la riforma passi davvero. La Presidente, Dilma Roussef, ha il potere di porre il suo veto e, pur avendo dichiarato la totale contrarietà all’amnistia, per adesso non si è ancora espressa riguardo alla riforma in modo chiaro e definitivo.
Esistono però dei dubbi sulla decisione che prenderà la Presidente, tanto che dieci ex-ministri brasiliani dell’ambiente hanno lanciato in questi giorni un appello sul web per fermare la riforma. Perché questi dubbi?

Il fatto è che dentro il Parlamento sono in molti a sostenere questa modifica del Codice Forestale: il promotore della riforma è Aldo Rebelo, leader del PCdoB, il Partito comunista brasiliano, che sostiene le ragioni dei piccoli proprietari terrieri e la tesi secondo cui la presente legge confina nell’indigenza parte della popolazione che vive in Amazzonia, non consentendo loro di sviluppare attività agricole e pastorizie.

Un’altra sostenitrice della riforma, la Senatrice Katia Abreu, passata al neonato Psd, (Partito Socialdemocratico) e leader della Confederazione nazionale dell'agricoltura, intervistata da mongabay.com ha dichiarato che l’attuale Codice Forestale, obsoleto e rimasto in gran parte sulla carta, carica sulle spalle dei contadini e degli allevatori il peso di una regolamentazione ambientale che non ha eguali negli altri paesi. Abreu  sostiene che migliorare l’attuazione reale della legge, oggi invece quasi per nulla applicata in certe zone dell’Amazzonia brasiliana, mitigherebbe a sufficienza le conseguenze negative della nuova riforma sullo stato di salute della foresta.

Per essere attuata una legge deve essere realistica. Questa in sostanza la posizione dei sostenitori, che rivendicano il diritto all’utilizzazione delle risorse dell’Amazzonia con lo scopo di coniugare sviluppo del paese e tutela ambientale, anche per dare delle opportunità ai piccoli agricoltori che abitano il territorio in condizioni di povertà estrema.

Da un lato, in effetti, la questione alimentare, nonostante i progressi fatti con il programma Fome Zero, non è ancora stata risolta in Brasile. Ma dall’altro lato, quando si parla di produzione e di prezzi degli alimenti di base non si può tenere in conto unicamente il fattore terra, perché molti altri dati influiscono su prezzi e produttività.

Solo per citarne alcuni: trasferimenti di tecnologie nord-sud ancora troppo poco sviluppati, speculazioni sui mercati alimentari e utilizzo di alimenti per altri scopi non alimentari, come la produzione di bio-carburanti.

Affrontare la questione dello sviluppo in Brasile non è affare semplice, ma non sembra comunque onesto confondere le ragioni dei piccoli produttori e dei contadini con i voraci appetiti delle multinazionali, come per ora fa questa proposta di riforma.

L’Amazzonia ha prima di tutto bisogno di legalità e il fatto che il Parlamento brasiliano abbia votato in blocco una riforma che contiene un’amnistia generalizzata non è un segnale rassicurante né per il futuro del polmone verde del mondo, né per le persone che lo abitano. Ma sembra proprio che la storia della riforma non finisca qui visto che Dilma Roussef, almeno su questo punto, non sembra disposta a cedere facilmente.

 

di Alessandro Iacuelli

Che il sisma abruzzese del 6 aprile 2009 sia stato devastante, non solo per i danni e i morti ma anche per la mancata e disordinata ricostruzione, ancora oggi parziale e trasformata dalla politica in una sequenza di spot elettorali, è cosa oramai risaputa. C'è però qualcosa di ancora più devastante in arrivo: una pericolosa colata di cemento, e non per abitazioni civili, che sta per abbattersi sui Parchi Nazionali abruzzesi, in nome di una "ricostruzione" che con il sisma non c'entra nulla.

Non sarà l'Aquila a tornare come era prima: il capoluogo è condannato ad essere, come l'ha definito lo storico Raffaele Colapietra, "la Pompei del Terzo Millennio". Sarà invece l'edilizia selvaggia, autorizzata da tutte le leggi del caso, che sta arrivando sul verde, sui boschi: mascherata da opera benefica, spacciata come soluzione magica di tutti i problemi economici, sociali e urbanistici che affliggono il territorio, viene infatti individuata senza esitazione ancora lei, l'edilizia, ancora considerata come unico sviluppo possibile. Edilizia che presto colerà sulle montagne circostanti, dal Gran Sasso al Velino-Sirente.

Non è l'edilizia per ricostruire l'Aquila. Si tratta di creare i tanto decantati bacini sciistici: impianti, costruzioni e consumi di territorio nel cuore degli ultimi ambienti naturali finora scampati alla distruzione. Poco importa che si tratti di Parchi Nazionali di grande valore, sottoposti a tutti i vincoli di tutela. Analogamente non importa molto che l'innevamento della penisola, di cui è simbolo la progressiva scomparsa dell'unico ghiacciaio appenninico, il Ghiacciaio del Calderone, non risulta davvero in grado di sostenere attività invernali per prolungati periodi.

Nonostante questo, nonostante i bilanci delle scorse stagioni abbiano assodato che gli impianti sciistici nell'Appennino costituiscono imprese disastrose sul piano economico, e destinate a restare comunque fortemente passive, capaci di produrre molti danni paesaggistici, ecologici e ambientali e in grado di offrire solo pochissimi posti di lavoro, la politica sceglie di proseguire.

Ci sono diversi segni nell'ultimo decennio: i ricorrenti fallimenti delle stazioni di Scanno e Pescasseroli, che continuano a divorare fiumi di denaro senza risolvere mai alcun problema e senza creare né occupazione, né sviluppo, né tantomeno ricchezza. Nessuno deve fingere di non sapere e non vedere, che in realtà questi impianti rappresentano veri e propri “specchietti per le allodole” per richiamare un turismo benestante, convincendolo ad acquistare la casa o la villa in montagna.

Il tutto si trasforma così in una nuova guerra tra abruzzesi. Da un lato ci sono gli amministratori regionali, alcuni sindaci del cratere, sostenuti dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri Gianni Letta, che nelle scorse settimane hanno annunciano nuovi progetti che si svilupperanno nei pressi delle ricchezze ecologiche delle aree di maggior pregio ambientale della Regione.

Dall'altro lato, a Pescara, una cordata di forze politiche ed associazioni ambientaliste ha lanciato in questo giorni l'allarme per la salvaguardia dell'Abruzzo contro il progetto di ripianificazione di una parte del territorio aquilano. Alla cordata appartengono Wwf, Lipu, ProNatura, Mountain Abruzzo, Rifondazione, Italia Nostra, Altura Abruzzo, Cgil Abruzzo, Circolo Valorizzazione Terre Pubbliche, Comitato acqua pubblica, Comitatus Aquilanus, Fare Verde onlus, Forum Ambiente e Territorio Sinistra Ecologia e Libert, Gruppo Naturalisti Rosciolo. A loro si è unita la voce autorevole del direttore storico del Parco Nazionale d’Abruzzo, Franco Tassi, attraverso il Comitato Parchi. Lanciano una serie di azioni coordinate per contrastare i progetti programmati e delineare uno scenario alternativo di sviluppo duraturo e valorizzazione delle risorse naturali.

Il Ministero dell'Ambiente, in una recente ed esaustiva nota di risposta alle richieste di alcune associazioni ambientaliste, ha ammonito la Regione Abruzzo e Enti Parco interessati, allertando nel contempo la Commissione Europea: secondo il Ministero, nessuna nuova opera può essere autorizzata in deroga alle norme in vigore su Valutazione di Impatto Ambientale, VAS e Valutazione d'Incidenza, giacchè i territori coinvolti sono tutti compresi nella Rete UE Natura 2000.

Eppure i progetti esistono lo stesso, definiti "devastanti e anacronistici". "Si tratta - denuncia il WWF - di progetti già visti, tirati fuori da vecchi cassetti, a scapito della biodiversità e del paesaggio di zone di particolare pregio del territorio aquilano. Devastanti perché prevedono prioritariamente la modifica permanente del territorio con infrastrutture sciistiche, funiviarie, campi da golf, lottizzazioni nel cuore del sistema delle aree protette dell’Appennino, in aree ricchissime di biodiversità e risorse ecologiche. Anacronistici perché in tali progetti non vi è alcuna novità o analisi delle reali condizioni ed esigenze del territorio, ma solo vecchi progetti più volte bloccati e che oggi si vuole far approvare con procedure di urgenza".

Urgenza nel nome di uno sviluppo reso urgente dal post terremoto, con soldi pubblici da investire in una ricostruzione parziale e che sbaglia mira. Molti sono gli interventi dati già per "cantierabili" in un Protocollo firmato a Palazzo Chigi lo scorso 17 febbraio. Interventi che secondo gli oppositori non sono stati sottoposti a nessuna verifica tecnico-ambientale specifica, come ad esempio il collegamento sciistico tra le stazioni invernali di Ovindoli e Campo Felice, nel Parco Regionele Sirente Velino o la "Cittadella della Montagna" che si vuole far nascere in pieno Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. A rischio sarebbero ambienti di importanza prioritaria, specie di fauna e di flora protette a livello comunitario, nonchè i corridoi ecologici di grande importanza per alcune specie di animali particolarmente protetti, tra cui, prima di tutto, l’orso bruno marsicano.

Proprio in barba al Piano di Azione per la Tutela dell’Orso Marsicano, sono previsti alcuni interventi palesemente assurdi, come i campi da golf in quota, incompatibili con la vocazione ambientale dei luoghi e distruttivi delle unicità floristiche e faunistiche presenti sugli altopiani. E poi, siamo sicuri che serva davvero un campo da golf in quota, in montagna? O ancora una volta resterà, se realizzato, vuoto?

Si continua tuttavia (Gianni Letta in testa) a considerare i bacini sciistici un toccasana magico per il futuro delle zone terremotate. La realtà, ben diversa, é che si prepara invece un diluvio di edilizia residenziale di media e alta quota, con alberghi, condomini e ville da vendere. In questo periodo di crisi finanziaria, da dove mai proverranno questi fiumi di danaro pronti a cementificare l'Aquilano in nome di una causa santa, definita "un vero atto d'amore" per le comunità locali?

C'è anche il precedente storico costituito dalle degli anni Settanta condotte con successo contro la speculazione selvaggia al Parco Nazionale d'Abruzzo. All'epoca, le analisi socioeconomiche condotte da Franco Tassi, le prime del genere a livello internazionale, dimostrarono in modo inoppugnabile che a trarre guadagno dallo sfacelo del territorio erano pochi affaristi, che i paesi e le comunità locali ne ricavavano soltanto svantaggi e che assai meglio sarebbe stato invece puntare sulla risorsa Parco. Una strategia innovativa, che poi avrebbe avuto pieno successo con l’ecosviluppo e l’ecoturismo dei villaggi nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, privi d’impianti sciistici ma ricchi di natura protetta.

La domanda che sorge spontanea è quindi una sola, semplice e chiara: perché l'Abruzzo, polmone verde dell'Italia centrale, non può continuare ad essere la Regione dei Parchi? Magari rilanciandoli davvero e cercando nell’ambiente, nella sua conservazione, la risorsa migliore per il proprio futuro.

La battaglia d'Abruzzo, è appena al principio e certamente continuerà nei prossimi mesi. Intanto, il Comitato Parchi ha prodotto un logo che rilancia l'orgoglio dell'Abruzzo per i parchi. Tutte le associazioni ambientaliste sono schierate a difesa. Lo scontro è pronto per cominciare.

di Alessandro Iacuelli

La presentazione di un rapporto, il primo tra l'altro, sulle infiltrazioni mafiose nel settore alimentare dovrebbe essere una notizia importante, di quelle che trovano ampio spazio nei notiziari. Così non è stato, come per tante altre cose, ed è subito caduto nel silenzio il 1° Rapporto sulle Agromafie, presentato da Eurispes e Coldiretti.

Per la prima volta è stato analizzato il fenomeno della criminalità organizzata che agisce nel comparto agroalimentare, che crea un vero e proprio business parallelo e finisce per arrivare sulle tavole degli italiani aumentando i prezzi e riducendo la qualità dei prodotti acquistati dai consumatori, danneggiando allo stesso tempo anche le imprese impegnate a garantire gli elevati standard del Made in Italy alimentare.

I risultati presentati nel rapporto sono preoccupanti, al punto da meritare riflessioni e approfondimenti. Tanto per cominciare, ogni anno vengono sottratti al mercato regolare dell'agroalimentare 51 miliardi di euro. Cifra da capogiro, cifra da manovra finanziaria. Ed è un dato riferito al 2009, quando il settore dell'industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro, secondo i dati presentati da Federalimentari, mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro, dati secondo Ismea).

Quindi, il giro d'affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro, stiamo cioè parlando di 10% del Pil italiano 2009. Quasi un terzo di questa cifra, quindi una parte non trascurabile, è il bilancio delle mafie nel settore alimentare. Appare fin troppo evidente che si tratta di un dato preoccupante.

Il settore dove le mafie "sfondano" è quello delle false importazioni. Infatti, di tutte le materie prime importate, anche quando si tratta di alimenti una buona parte è classificata come "importazioni temporanee", termine con cui s’intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia, ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento, e poi esportate di nuovo verso i Paesi di destinazione finale.

Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l'attuale normativa possono essere rivenduti all'estero con il marchio "Made in Italy". Questo significa, dati alla mano, che su 27 miliardi di euro d’importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz'altro riesportate come Made in Italy. Fa nulla se si trattasse di prodotti nord africani o sud americani. E secondo le stime presentate nel rapporto, almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia e trasformato nel nostro Paese, viene poi venduto sul nostro mercato interno e all'estero con il marchio Made in Italy.

Quindi non solo riesportazioni, ma anche introduzione nel mercato italiano di prodotti segnalati come italiani, ma che d’italiano hanno solo l'imballaggio o l'etichetta. Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.

Il dato che dovrebbe impressionare di più, come sottolinea il rapporto, emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta. E le organizzazioni criminali sono riuscite per prime a mettere le mani su questo "affare", consentito da falle legislative, portando questo settore di business al terzo posto, dopo l'edilizia abusiva e l'ecomafia dei rifiuti.

E' il primo identikit che tracciamo in Italia su questo argomento. Inquietante, spinoso e pericoloso poiché ce lo ritroviamo inconsapevolmente a tavola. Le mafie hanno dimostrato la capacità di condizionare e controllare l'intera filiera agroalimentare, dalla produzione all'arrivo della merce nei porti, dai mercati all'ingrosso alla grande distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione.

L'intero comparto appare caratterizzato da fenomeni criminali legati al contrabbando, alla contraffazione e alla sofisticazione di prodotti alimentari ed agricoli e dei relativi marchi garantiti, ma anche dal fenomeno del "caporalato", che comporta lo sfruttamento dei braccianti "in nero" con conseguente evasione fiscale e contributiva. Ancora presto per tracciare i potenziali danni al sistema sociale ed economico che, secondo gli autori dello studio, "sono molteplici, dal pericolo per la salute dei consumatori all'alterazione del regolare andamento del mercato".

Le mafie rappresentano ormai una vera e propria holding finanziaria in grado di operare sull'intero territorio nazionale, un business da 220 miliardi di euro l'anno, l'11% del prodotto interno lordo. Pertanto era destino che anche il settore alimentare dovesse prima o poi risultare appetibile. In conclusione, sono le associazioni criminali a determinare l'aumento dei prezzi, a proporsi sempre di più come "soggetto autorevole d’intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l'identità di un centro autonomo di potere".

In un periodo come questo poi, caratterizzato da crisi economica, calo dell'occupazione e dei prezzi alla produzione, diviene facile per le agromafie investire i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione: "La loro crescita ed espansione appaiono supportate dall'inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell'importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita", afferma la Coldiretti nel dossier.

E' proprio l'organizzazione di categoria dei coltivatori, quella che si lamenta di più: "La situazione non migliora nel comparto vegetale dopo che nel 2010 sono stati importati ben 115 milioni di chili di concentrato di pomodoro, il 15 per cento della produzione nazionale". I risultati, non economici, ma in termini di alimentazione e salute, li ha presentati la stessa Coldiretti, attraverso il suo presidente Sergio Marini, in un piccolo "salone degli inganni".

Ce n'è per tutti i (pessimi) gusti: mozzarelle senza latte, concentrato di pomodoro cinese avariato e "spacciato" come Made in Italy, prosciutto ottenuto da maiali olandesi e venduto come nazionale con tanto di fascia tricolore, ma anche grandi marchi di vini contraffatti, olio di semi imbottigliato come extravergine o Chianti prodotto in California. Ci sono anche, identificati attraverso i reperti sequestrati nell'ambito delle operazioni antifrode delle forze dell'ordine, vini con marchi inesistenti o il miele con l'aggiunta illegale di zucchero. Non mancano neppure falsi prosciutti di Parma Dop. Latte, biscotti e succhi cinesi contenenti melamina. Falsa mozzarella di bufala Dop, falso aceto balsamico di Modena Igp e falso vino Amarone Doc.

Ora che questi meccanismi iniziano ad essere chiari, ora che iniziano ad essere studiati, appaiono in tutta la loro pericolosità tutti gli aspetti più inquietanti; e c'è da dire che, purtroppo, sulla penetrazione mafiosa in questo settore siamo certamente ancora alll’inizio.


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