di Sara Seganti

Il passaggio di consegne alla FAO è avvenuto i primi di gennaio. Adesso il nuovo direttore generale brasiliano, Graziano Da Silvia, è operativo e deve riuscire nell’impresa di riformare un’organizzazione imponente e burocratica, severamente criticata per il suo operato dagli stessi paesi che la finanziano. Da Silva è una ventata di novità dentro le stanze dei bottoni delle politiche alimentari delle Nazioni Unite, e sembra determinato a voler concertare le linee guida sul land grabbing in tempi brevi coinvolgendo anche le associazioni che rappresentano la “piccola” agricoltura.

L’obiettivo è fornire un quadro di riferimenti normativi a tutela della sovranità alimentare dei paesi poveri e colmare un vuoto legislativo in materia, esistente in molti paesi africani, per permettere alle comunità rurali di difendersi dagli interessi dell’agrobusiness. Infatti, spesso nel continente africano la terra è di proprietà comune, o più propriamente comunitaria, e non ha quindi proprietari, se non in ultima istanza, lo Stato.

Queste linee guida potrebbero aiutare le popolazioni locali a trovare degli appigli a cui agganciare le loro proteste quando un pezzo di terra comunitario viene privatizzato senza garanzie per le comunità rurali. Bisogna vedere se saranno più chiare delle raccomandazioni della Banca Mondiale che hanno a lungo favorito, e continuano a farlo, l’accaparramento di terre da parte di privati e di altri stati seguendo l’idea che l’agricoltura ha prima di tutto bisogno di capitali e di efficienza per svilupparsi e produrre profitti.

Questo approccio “gigantista” e privatista sulla base del quale i grandi gruppi dell’agrobusiness sono stati aiutati nel processo di concentrazione della produzione agricola un po’ ovunque nel mondo, a scapito dell’agricoltura su piccola scala, è una delle principali colpe di un modello di sviluppo che ha prodotto gravi danni e che ha mostrato tutti i suoi limiti, umani, ambientali e economici.

Continuamente, infatti, si verificano carestie e fenomeni migratori forzati di piccoli contadini cacciati dalle terre sottratte alle comunità con espropri forzati o con opere di induzione finalizzate al cedimento dei diritti di usufrutto delle terre comuni. Il prezzo dei beni alimentari è in costante aumento e ha raggiunto un picco a metà dell’anno scorso, per poi ridimensionarsi leggermente, come conseguenza dell’aumento del prezzo del petrolio, della speculazione sui mercati e della corsa all’acquisto di terre per utilizzi diversi dalla produzione di alimenti per i mercati interni.

Negli ultimi anni sono intervenute grosse novità tra i fattori che determinano i prezzi alimentari dei beni coltivati primari, e mai come ora sono distanti dall’andamento del raccolto e dalle condizioni climatiche.

Da Silvia, già noto per il programma Fome Zero in Brasile, che ha aiutato durante il governo Lula a fare uscire dalla povertà estrema 24 milioni di persone, sostiene che serva prima di tutto la volontà politica per affrontare la questione alimentare, oltre a strumenti di ordine tecnico e finanziario.

Queste linee guida difficilmente avranno valore vincolante, ma saranno estremamente importanti per dare sostanza, per l’appunto, a quella volontà politica espressa dalla FAO sull’accaparramento di terre.

Un accordo il più ampio possibile su questo tema aiuterebbe a invertire il trend a livello globale e dare dei punti di riferimento per contrastare quegli Stati e quelle aziende che, fino ad ora, hanno persino potuto giustificare queste operazioni mascherandole da incentivi allo sviluppo di un’agricoltura volta al benessere di tutti.

Da Silva immagina una FAO più decentralizzata, perché nessuno “mangia a livello globale”, per riuscire a dimezzare il numero di persone che soffre la fame nel mondo, ormai una persona su 7. Il nuovo direttore generale ha inoltre ribadito che la priorità rimane l’Africa, e che i biocarburanti non sono per forza e tutti “cattivi” ma bisogna imparare a distinguerli.

Da Silvia è espressione di quei paesi emergenti che hanno deciso di conquistarsi posizioni di potere dentro alle Nazioni Unite promuovendo posizioni meno ideologiche e più pragmatiche, per lo meno stando a queste prime dichiarazioni. E per vincere la sfida, sembra voler tentare un’altra ricetta: cooperazione sud-sud, concertazione dal “basso” con le organizzazioni della società civile mondiale, micro-credito. Si riparte dal locale e dal piccolo, e dalle regole, e almeno su questo siamo sulla buona strada, per il resto conviene restare vigili.

di Sara Seganti

La Nigeria non trova pace. Il giorno di Natale sono morte più di 30 persone durante le esplosioni che hanno coinvolto tre chiese cattoliche in diverse città nigeriane. Il paese, già lacerato da anni di conflitti interreligiosi e etnici, vede milizie armate da fazioni opposte affrontarsi in un contesto di povertà generalizzata, benché ricco di risorse come gas naturale e petrolio. Non costituisce di certo una notizia che, negli ultimi 50 anni, i proventi di questa ricchezza siano stati rigorosamente spartiti tra i pochi potenti locali e le numerose multinazionali attive nel paese, lasciando la gente in un sostanziale abbandono.

Ogni zona della Nigeria convive con problemi che sembrano non avere possibilità di soluzione. Il 20 dicembre, a pochi giorni di distanza da queste nuove esplosioni di violenze interreligiose nel nord del paese, per gli abitanti delle coste del sud, nel Delta del Niger, è scattato, invece, l’ennesimo allarme rosso ambientale.

Quel giorno la Snepco - Shell Nigeria Exploration and Production Company - filiale della Shell che opera in Nigeria, ha ammesso uno sversamento di 40.000 barili di petrolio greggio, probabilmente la maggiore perdita di greggio nel paese degli ultimi dieci anni, come conseguenza di un incidente nelle acque del Golfo di Guinea, di fronte alle coste della Nigeria. La macchia si aggirava in mare a 120 chilometri dalla costa era lunga 70 chilometri e copriva una superficie di 900 chilometri quadrati.

Secondo la Shell, che ha bloccato la produzione nell’impianto offshore in questione, l’incidente è avvenuto durante un’operazione di routine per il trasferimento del greggio dalla piattaforma ad una petroliera. La Shell sostiene anche che le operazioni di dispersione in mare del petrolio sono andate a buon fine, ma gli attivisti di “Environmental Rights Action”, con base a Lagos, non si fidano delle dichiarazioni del colosso petrolifero e mantengono vigile il monitoraggio sulle coste nigeriane.

Non si riesce a capire se la macchia avvistata vicino alle coste sia risultato dell’incidente del 20 dicembre o di un altro incidente provocato da un altro impianto, come sostiene la Shell. In qualsiasi altro paese sarebbe strano non riuscire a ricostruire con certezza da dove abbia origine una dispersione di petrolio, ma nel Delta del Niger non lo è affatto. Basta pensare che negli 50 ultimi in questa zona, dove vivono 20 milioni di persone, è stato stimato che una quantità pari a circa 13 milioni di barili di petrolio siano stati complessivamente dispersi nei terreni, nelle paludi e nelle falde acquifere.

La Nigeria è il primo produttore africano di petrolio, l’ottavo esportatore a livello mondiale;  questo petrolio negli anni passati proveniva quasi esclusivamente dai giacimenti del Delta. La sola Nigeria fornisce all’Unione Europea il 20% del petrolio utilizzato, anche attraverso le attività dell’italiana Eni.

La storia che lega la Nigeria all’oro nero è costellata di incidenti, di crimini ambientali e di violazione dei diritti umani ad opera delle multinazionali del petrolio, in stretta alleanza con le dittature militari che si sono succedute al governo. La Shell inizia a estrarre petrolio grezzo nell’Ogoniland, una zona del Delta del Niger, nel 1958 e da allora accumula ingenti responsabilità rispetto alla distruzione ambientale dell’ecosistema e alla repressione armata delle proteste.

Una delle pratiche forse più significative della commistione tra affaristi internazionali e corruzione politica locale è stata quella del finanziamento diretto delle milizie statali per garantirsi braccia armate, particolarmente solerti a schiacciare nel sangue le rivolte di cittadini nigeriani.

In questo clima, nel recente 1995, l’attivista e poeta Ken Saro Wiwa viene condannato all’impiccagione, insieme ad altri 8 attivisti, da un tribunale nigeriano connivente con le grandi compagnie petrolifere. In un paese in cui la violenza sembra essere l’unico mezzo per difendersi, nasce anche un’opposizione guerrigliera, il Mend (Movimento di emancipazione del Delta del Niger) che porta avanti per anni attacchi agli oleodotti e alle infrastrutture per l’estrazione e la raffinazione del greggio. Insomma, quella del petrolio nel sud della Nigeria è una vera e propria guerra che la Shell ha sempre cercato di vincere.

Perché allora questo incidente appare particolarmente grave, nonostante lo strapotere delle compagnie petrolifere nell’area? Innanzitutto, perché arriva poco tempo dopo l’uscita di un rapporto dell’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) sulla situazione del Delta del Niger, dove si riconosce l’esistenza di una emergenza per la salute umana e di un generalizzato disastro ambientale.

Anche se la Shell stessa ha deciso di finanziare il lavoro di ricerca dell’Unep, destando leggitimi sospetti di ingerenza, il rapporto pubblicato non manca di evidenziare gli alti livelli di inquinamento provocati dall’estrazione di greggio nell’area e dalle pratiche di bruciare il gas che fuoriesce durante il processo.

Il rapporto Unep riporta che in una zona dell’Ogoniland, le famiglie stanno bevendo acqua contaminata da un elemento altamente cancerogeno come il benzene, presente a un livello 900 volte superiore rispetto alle linee guida dell’OMS. E questa zona è ovviamente confinante con un oleodotto.

Forse sono cambiati i tempi se la Shell finanzia uno studio che denuncia i pericoli per la salute umana, oltre che per l’ambiente, delle sue pratiche estrattive, e che prevede 5 anni per la prima bonifica di emergenza e altri 30 per restaurare l’habitat naturale che è stato danneggiato, per un costo totale di 1 miliardo di dollari. O forse, sono solo cambiate le strategie di immagine.

Non più di qualche mese fa, infatti, la Shell anglo-olandese ha anche accettato di dibattere in un tribunale inglese il processo che la oppone alla comunità Bodo del Delta, per gli incidenti avvenuti del 2008-2009. La Shell sostiene di aver risarcito le comunità, mentre secondo lo studio legale inglese che difende la comunità Bodo ciò non è mai avvenuto. Il risultato del processo sarà importante per valutare se fuori dalla Nigeria sia possibile ottenere una giustizia più trasparente. La linea di difesa generale della Shell è sostenere che il 98% delle fughe di petrolio sono conseguenza di boicottaggi, furti, vandalismi e attacchi da parte dei militanti e non dell’usura delle infrastrutture o di falle nei sistemi di sicurezza.

Dal 2010, in Nigeria è in carica un nuovo Presidente, Goodluck Jonathan, nato nella regione del Delta e che si è prefissato la risoluzione dei conflitti ambientali nella zona. Questo Presidente, come gli altri prima di lui, ha subito forti critiche per l’indiscriminato utilizzo della violenza di Stato.
In Nigeria, finché la vita delle persone continuerà a valere così poco e sarà in balìa dei conflitti interni, la dignità ambientale del paese rimarrà in secondo piano, falsamente identificata con un lusso quando invece è un passo necessario nella direzione dello sviluppo umano.

 

di Sara Seganti

Durban ha diviso stampa e addetti ai lavori tra chi ha preso una posizione pacatamente soddisfatta, viste le più nere previsioni sulla possibilità di concentrare gli sforzi internazionali sulla riduzione dell’emissione di gas serra in questo momento storico, e tra chi ha apertamente confessato la propria delusione. Su un unico punto sembra emergere un generale accordo: l’ultima conferenza delle parti sul cambiamento climatico ha prodotto un risultato al ribasso, un risultato poco ambizioso e macchinoso, specchio fedele dell’assenza di volontà politica che caratterizza le azioni sul clima. Ma chi avrebbe dovuto dare prova di volontà politica, di senso di responsabilità, di fronte all’attuale riscaldamento globale?

Sicuramente i paesi ricchi - la definizione “sviluppati” sopratutto dopo Durban è definitivamente obsoleta - i paesi di prima industrializzazione con le maggiori responsabilità storiche rispetto al riscaldamento globale, non sono stati solerti, né uniti, nella volontà di coprire i costi necessari a tentare di mantenere l’aumento della temperatura globale inferiore ai 2° nei prossimi anni. Ma quali sono le volontà politiche del “sud del mondo”, se per astrazione si potesse definire un “sud” con sua una volontà politica riconoscibile? Perché a Durban è sembrato che questo “sud” non si sia lasciato convincere all’abnegazione in nome di un pianeta da salvare?

Una prima risposta è nei metodi. Questi round di negoziazioni internazionali sul clima sono stati tradizionalmente teatro di sottoscrizione di accordi in cambio di aiuti economici, spesso portati avanti a suon di minacce e pratiche di corruzione. A Durban è apparso chiaro che i paesi emergenti, soprattutto Cina e India, rivendicano un ruolo politico di primo piano e non sono disponibili alla collaborazione sulla base di imposizioni venute dall’alto. Per di più, rispetto a quando il mondo ricco si sentiva in dovere di riparare ai danni che aveva creato, sono cambiate molte cose, se mai un’epoca simile sia esistita davvero.

Ai paesi come India e Cina è richiesto un impegno, senza il quale effettivamente ogni sforzo di contenere il riscaldamento globale sarebbe vano visto il loro attuale potere inquinante; ma è una richiesta che non va di pari passo con un reale coinvolgimento nel processo decisionale che porta agli impegni presi. Questo per lo meno è quello che i paesi emergenti hanno evitato di fare a Durban, di firmare cioè accordi vincolanti che non rispettino le loro esigenze di sviluppo.

La ratifica della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, entrata in vigore nel 1994, stabiliva una distinzione tra i paesi sviluppati e i paesi non sviluppati, dividendo in pratica il mondo in due gruppi con responsabilità diverse sul riscaldamento climatico. Secondo questa distinzione, fedelmente riportata nel protocollo di Kyoto, i paesi sviluppati dovevano farsi carico degli oneri di una riduzione delle emissioni dei gas serra come una sorta di compensazione storica, mentre i paesi non sviluppati avevano il diritto a deroghe di modo da permettere quello sviluppo che all’epoca sembrava più lontano.

Questi parametri, in effetti, sono ormai vetusti e non corrispondono più ai reali livelli di sviluppo e capacità di inquinamento dei paesi. La Romania figura tra i paesi sviluppati mentre Singapore, oggi un paese con un reddito pro-capite ben più alto, è ancora classificato come in “via di sviluppo”. Cina e India devono, effettivamente, partecipare a un processo di riduzione dell’inquinamento, e sembrano disposti a farlo ma hanno intenzione di dire la loro sui modi, i tempi e le eventuali sanzioni per l’inadempienza.

Una seconda risposta è nel debito ma si tratta di un paradosso. I paesi in via di sviluppo, infatti, sono due volte creditori quando si parla di clima, ma continuano a vedersi proporre accordi che li penalizzano ulteriormente, amplificando il debito nei confronti del mondo occidentale e delle istituzioni finanziarie internazionali. Sono due volte creditori perché sono chiamati a salvare il mondo nonostante non abbiano partecipato al primo banchetto dello sviluppo industriale e perché sono i principali danneggiati dagli effetti del cambiamento climatico.

L’aumento delle temperature sta, tra le altre cose, ponendo a rischio l’agricoltura e sta mettendo in luce il dissesto di un territorio poco tutelato, dove da alcuni anni a questa parte, causa siccità o inondazioni in zone che non erano storicamente abituate a far fronte a questi eventi naturali, si verificano ingenti danni e innumerevoli morti. Ma solo nel sud del mondo il doppio credito produce debito: la direzione proposta nelle sedi internazionali è quella della finanziarizzazione degli impegni ambientali, dato che i poveri non sono in grado di far fronte alle spese necessarie per la riduzione dell’inquinamento. I paesi poveri sono stati invitati, in sostanza, a contrarre ulteriori debiti, travestiti da aiuti, che andrebbero ad ingrossare ancora il debito del terzo mondo.

Una terza risposta è nello sviluppo. Come conciliare il diritto allo sviluppo, tema di cui l’India si è fatta portatrice durante la conferenza in nome di tutti quei paesi che hanno ancora tanto da conquistare per i propri cittadini, con la necessità di partecipare al richiamo globale del rispetto per la madre terra tenendo a bada le emissioni di gas serra?

Con quasi un miliardo di persone che vivono sotto la soglia di povertà, è comprensibile che i paesi poveri, ma anche quelli emergenti, non siano disposti a cedere su una differenziazione degli oneri e delle sanzioni rispetto ai paesi più ricchi. Rispetto al passato, il sud del mondo sembra disponibile a discutere di possibili interventi che vadano nella direzione della tutela ambientale, ma non a danno dello sviluppo umano delle loro genti. E a esclusivo vantaggio degli organismi monetari internazionale e del Nord che accumula ricchezze dal debito che impone al Sud.

La consapevolezza della necessità della tutela ambientale per il bene del territorio e delle persone, dopo decenni di veri e propri scempi, si sta lentamente facendo avanti nei paesi del “sud”, o per lo meno in una sua parte. Resta da vedere se si arriverà in tempo per salvare il salvabile, ma a Durban è parso chiaro che non sarà una conferenza Onu a dettare l’agenda dello sviluppo dei paesi emergenti.

 

di Alessandro Iacuelli

Terminata la conferenza di Durban sul clima, la COP17, restano aperti i solidi dubbi, con la sola certezza che di soluzioni non ne sono state trovate. Non perchè non sia possibile affrontare il tema del riscaldamento globale da un punto di vista tecnico o scientifico, ma per motivi politici. Politica negoziata, tra tutti i Paesi del mondo, in vista della scadenza del Protocollo di Kyoto fissata per il 2012.

A Durban hanno negoziato 194 Stati e dopo notti insonni hanno partorito un accordo sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di gas serra. O meglio: non precisamente un accordo, infatti gli accordi sono due. Uno, denominato "Kyoto 2", altro non è che un prolungamento del Protocollo precedente fino al 2015. Il secondo verrà negoziato nel 2015, ed entrerà in vigore nel 2020. Pertanto, si tratta di un rinvio.

Resta quindi in piedi l'impianto pensato a Kyoto. Che non basta. Non basta perchè il Giappone ha fatto notare che non sarà in grado di ridurre le emissioni, il Canada neanche, la Russia non ha firmato. L'Italia ha firmato, pur sapendo che non riuscirà, proprio come per il protocollo di Kyoto, a diminuire le proprie emissioni serra come previsto dall'accordo.

E dopo? Il futuro è ancora più fumoso. Occorre aspettare tre anni per discutere e negoziare un nuovo trattato, che solo tra otto anni andrà in vigore. Decisamente un risultato risibile. Per tutto il mondo. Nonostante questo, il ministro dell'Ambiente Corrado Clini non ha esitato a dichiarare, dopo la chiusura dei lavori di Durban: "Credo che l'Italia sia nella condizione di giocare una partita da protagonista in questo nuovo partenariato tra l'Europa e le economie emergenti", riferendosi alla possibilità di investire nel settore delle riduzioni di emissioni in Paesi come Brasile, India, Messico e soprattutto la Cina.

Dal 2013 partirà quindi la seconda fase degli impegni di Kyoto a cui aderiranno l'Europa e una parte dei paesi industrializzati e poi si renderà operativo un Fondo Verde da 100 miliardi di dollari l'anno per aiutare i paesi piu' poveri. Un accordo che, almeno nelle intenzioni, offre all'Europa la possibilita' di costituire una piattaforma per lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie che rendano possibile la crescita economica e la riduzione delle emissioni. Forse è proprio qui uno dei problemi: il pensare alla riduzione delle emissioni e ad ostacolare il riscaldamento globale senza mai perdere di vista la crescita economica. Nel bel mezzo di una crisi economica mondiale senza precedenti.

"Mentre il tema critico nel 1992 al Summit della Terra di Rio de Janeiro, e poi nel 1997 la Cop 3 a Kyoto nella quale venne siglato l'omonimo Protocollo, era l'accordo tra l'Europa e gli Stati Uniti ed il Giappone, oggi il tema critico, che però diventa una forza trainante e positiva è l'accordo, la convergenza in qualche modo, tra l'Europa, Cina, Brasile, Sudafrica, Messico, India", spiega ancora Corrado Clini, "L'accordo di Durban ha fotografato una situazione completamente nuova da questo punto di vista". Infatti, "gli Stati Uniti, il Giappone e il Canada che si sono ritirati dal Protocollo di Kyoto insieme con la Russia devono scegliere se rimanere fuori o invece partecipare al gioco che adesso è nelle mani dell'Europa, della Cina, del Brasile, del Messico, del Sudafrica", sottolinea Clini.

Le economie emergenti e l'Europa svilupperanno le tecnologie della Green economy a basso tasso di carbonio, conferma il ministro dell'Ambiente, "basta guardare la dimensione e i contenuti degli investimenti negli ultimi anni" di questi paesi verso il settore, con "la Cina che investe quasi il triplo degli Stati Uniti, il Brasile sta giocando un ruolo molto importante, l'India che sta lavorando su alcune nicchie con grande forza", senza tralasciare "altre economie, come l'interessante ruolo della Corea del Sud e quel che sta accadendo in Sudafrica" con
un piano "che associa la sicurezza energetica ed il ruolo delle rinnovabili e delle nuove tecnologie".

Verrebbe da chiedere al ministro se si sta parlando di clima, se si sta parlando di dimensioni del riscaldamento globale, e di quanto questo sia davvero legato alle emissioni di CO2, o se si sta parlando di possibilità di investimenti di miliardi di euro, con profitti enormi, in Paesi extraeuropei, cosa che con i cambiamenti climatici non c'entra molto. Sembra quasi che a parlare di economia, una delle più grandi astrazioni della storia dell'umanità, si perda completamente ogni punto di contatto con il concreto.

A parlare di dati concreti è Gianni Silvestrini, direttore scientifico di Kyoto club, che in un intervento a Radio 3 Scienza spiega: "Penso più probabile che a fine secolo ci sia un aumento della temperatura di 3 gradi". Secondo Silvestrini per "mantenere la temperatura al di sotto dei 2 gradi di aumento" non dovremo superare "le 450 parti per milione (ppm)" di concentrazione di gas serra in atmosfera. Il che significa che "al 2020 dovremo avere le stesse emissioni che ci sono oggi".

In pratica, proprio come a Rio e come a Kyoto, anche Durban si rivela un'occasione persa. Per politica. E la scienza cosa dice? Inabissamento di Stati insulari e di migliaia di km di coste, desertificazione, eventi climatici estremi e un numero sempre crescente di vittime. Queste le fosche previsioni degli scienziati, visto che la 17° Conferenza Onu sul clima in Sudafrica si e' chiusa senza il raggiungimento di un accordo vincolante in vista della scadenza di Kyoto.

La società civile, gli ambientalisti e il mondo della scienza rinnovano l'appello ad agire rapidamente per transitare verso un modello basato sulla sostenibilità sociale e ambientale attraverso la riconversione industriale, la democrazia energetica, l'agricoltura organica.

La realtà, è anche tempo di dirlo francamente, è che le conferenze mondiali sul clima sono solo chiacchiere slegate dal problema, e slegate dal trovare una soluzione. Come tutti gli accordi internazionali, servono a riequilibrare rapporti di potere tra Stati e a far girare soldi a livello internazionale, e a niente altro. A Durban non sono stati confrontati dati scientifici se non quelli "misteriosamente" elaborati in sede politica.

Sui dati a sostegno del riscaldamento globale di origine antropica (cioè causato dall’uomo) c’è un dibattito aperto che vede contrapposto il fronte degli scienziati che sostengono che la CO2 introdotta nell’atmosfera dall’uomo sia la causa principale del riscaldamento globale e altri scienziati che ritengono che questa tesi non sia supportata da evidenze scientifiche.

La verità è che fin da Kyoto si parla unicamente di legame tra riscaldamento globale e CO2, come se soltanto la CO2 possa essere responsabile dell'Effetto serra. E se ci fossero altre cause? Queste non vengono ricercate, non vengono portate ai summit mondiali. Questo nonostante ci si è accorti che la teoria del riscaldamento globale da CO2 è stata in parte sconfessata dalle misurazioni: non è solo la CO2 la causa.

Il risultato è che a Kyoto siamo riusciti a livello globale a far entrare anche questo nel mondo della finanza, con le famose "quote di emissione", che danno il permesso di emettere CO2 in atmosfera, che vengono comprate e vendute dagli Stati, tramite le solite banche. La finanza ha catturato anche questo.

La conseguenza è che sono nati forti interessi economici e politici intorno alle teorie del riscaldamento globale, interessi che hanno creato meccanismi per rafforzare le teorie che li alimentavano, ed oggi la possibilità di emettere CO2 è in vendita, quotata sul mercato.

La gestione dell’energia è diventato un problema pressante per tutti gli stati, il passaggio dai combustibili fossili ad altre fonti ha costi elevati che dovranno ricadere sulla collettività, pagati con denaro pubblico dei cittadini di tutto il mondo. Che potrebbero anche, in questo periodo di crisi, non voler pagare. Certamente può essere più agevole far digerire questi costi se vengono fatti in nome dell’ambiente, del riscaldamento globale, della CO2. Durban è servita a questo. Solo a questo.

Quel che sta avvenendo è una strisciante privatizzazione a scopo di profitto dell'aria, dell'atmosfera. Cosa altro sono, se non l'inizio strisciante di questa politica privatistica dell'atmosfera, le quote di emissione? Tutto il discorso sulle emissioni fino ad ora è servito proprio a questo: a fare entrare nell'economia globale anche l'atmosfera terrestre.

di Sara Seganti

C’é qualcosa d’insolito. La Chevron, seconda compagnia petrolifera del mondo, nota per i suoi metodi autoritari, offre pubbliche scuse e si addossa tutta la responsabilità (e i costi) del recente sversamento di greggio al largo della costa brasiliana. Il gigante petrolifero aveva tentato per qualche giorno di minimizzare l’accaduto e di ridimensionare le sue responsabilità, ma ha dovuto battere in ritirata di fronte all’evidenza delle prove portate all’attenzione dell’opinione pubblica, in questo caso da un blog come SkYTruth che ha pubblicato le immagini satellitari del mare inquinato. E per tradizione, la Chevron non batte mai in ritirata.

Il danno ecologico ha origine in un probabile errore commesso in una piattaforma offshore nella concessione di Frade, a poco più di 300 chilometri dalla costa di Rio de Janeiro. Probabilmente, la Chevron ha sbagliato i calcoli nella pressione delle trivellazioni che hanno aperto una fuoriuscita di greggio dal fondale. Dall’8 novembre, giorno dell’incidente, si calcola che la quantità di greggio riversato in mare sia compresa tra i 5 e gli 8.000 barili, ma per adesso sembra che le correnti stiano risparmiando le spiagge di Rio.

C’è qualcosa di strano anche nella decisione presa da un Brasile candidato a diventare presto uno dei maggiori esportatori di petrolio del mondo: la Chevron ha subito il divieto di operare sul suolo brasiliano fino a che non siano state provate le sue capacità di fare fronte a emergenze e falle nella sicurezza dei suoi impianti, adesso all’esame dell’Agenzia nazionale del petrolio brasiliana. Come a dire, non si esclude che la Chevron abbia dato prova di vera e propria incompetenza. L’Agenzia ha espresso anche apprensione per i metodi utilizzati per fermare la fuoriuscita, come i procedimenti a pressione con l’utilizzo del cemento che potrebbero non essere sufficienti a ripristinare la stabilità dei fondali.

Il Brasile non sta concedendo sconti alla Chevron: l’azienda è già stata condannata a pagare 20 milioni di euro, che avrebbero potuto essere di più se non fosse questa la più alta ammenda prevista dalla legislazione brasiliana per danni ambientali. La cifra sembra, in ogni caso, destinata a salire per via degli elevati costi di bonifica e della volontà politica del Presidente Dilma Roussef di trasformare questo caso in un monito per le multinazionali che operano nel paese. La Chevron rischia, infine, di essere esclusa dallo sfruttamento dei giacimenti pertoliferi a 6.000 metri di profondità nell’oceano Atlantico per cui aveva già stanziato miliardi di dollari di investimento e che inizieranno a breve.

Cosa può aver portato la Chevron a porre le sue scuse? Già sotto i riflettori di tutto il mondo, la Chevron ha un conto in sospeso in America del Sud sopratutto per i processi che la oppongono all’Ecuador per i gravi danni ambientali provocati negli scorsi decenni dalle pratiche estrattive del petrolio. Se a questa pubblicità negativa, si aggiunge l’attenzione dei media e la forte emotività dell’opinione pubblica dopo il memorabile sversamento avvenuto l’anno scorso nel golfo del Messico, negli Stati Uniti, perfino il management Chevron si è probabilmente trovato costretto a rivedere le sue politiche difensive in genere più reticenti nell’ammissione delle proprie responsabilità.

Dopo l’8 novembre, le sue quotazioni in borsa sono, infatti, scese facendo perdere in poco tempo alla Chevron 10 miliardi di dollari in valore di mercato, nonostante la gravità di questa perdita sia, sino ad oggi, relativa se paragonata all’esplosione della Deepwater Horizon. In Brasile si è riversato in mare soltanto lo 0,1% del greggio che all’epoca inquinò il Golfo del Messico, pari a quasi 5 milioni di barili. L’ipotesi è che i mercati abbiano “stra”- reagito di fronte all’ipotesi di salate multe e all’aumento della frequenza di incidenti ad alto impatto ambientale nelle piattaforme in alto mare.

La causa è da ricercare nel fatto che i paesi e le compagnie petrolifere si spingono sempre più in profondità alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare. Queste trivellazioni sono, quindi, sempre più difficili da mettere in sicurezza e le tecnologie usate nelle pratiche estrattive offshore non sono sempre all’altezza degli obiettivi complessi da raggiungere. Per di più, mai come oggi, attivisti e organizzazioni a tutela dell’ambiente vigilano attentamente sui danni provocati dall’estrazione dei combustibili fossili, tant’è che se non fosse stato per l’eco mediatica scoppiata in seguito all’incidente la Chevron avrebbe avuto terreno più fertile nel minimizzare l’accaduto.

La situazione è particolarmente problematica per la Chevron, perché la compagnia sta facendo dell’estrazione da piattaforme offshore uno dei suoi nuovi business per cercare di invertire la rotta rispetto all’andamento delle estrazioni sulla terra ferma che non garantiscono più crescita e profitti illimitati. La Chevron ha già all’attivo decine di progetti di trivellazione e costruzione di piattaforme offshore e questo disastro rischia di minare la sua credibilità tecnica nel compiere operazioni ad elevato rischio. E’ probabile che la disponibilità offerta al Brasile di accollarsi tutte le spese di bonifica sia un tentativo di dimostrare il suo senso di responsabilità per non essere esclusa dalle concessioni per l’estrazione nell’Oceano Altantico.

La scarsità di giacimenti facilmente accessibili e la riconversione ancora lontana alle energie di origine non fossile, hanno creato una vera e propria joint-venture tra grandi compagnie petrolifere che hanno bisogno di materia prima e paesi che non hanno le tecnologie per sfruttare gli ultimi giacimenti di greggio rimasti, che si trovano quasi sempre in luoghi difficili da raggiungere come il fondale marino.

Se è vero che Dilma Roussef ha tutto l’interesse a chiarire qual’è il tipo di (nuovo) atteggiamento che ci si aspetta da chi opera nel paese, tutta la vicenda che oppone il Brasile alla Chevron ha il sapore di un gioco delle parti, ad uso e consumo di un’opinione pubblica che entrambi i contendenti hanno interesse a rassicurare, per consentire lunga vita a questo tipo di operazioni ad alto rischio ambientale, con i lauti profitti che ne conseguono.


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