di Alessandro Iacuelli

La notte tra il 23 e il 24 febbraio 2010, nel fiume Lambro, in provincia di Monza, diverse tonnellate d’idrocarburi fuoriuscirono dalla Lombarda Petroli di Villasanta, finendo direttamente nel fiume. Quasi un anno dopo, arriva la svolta nelle indagini: i due titolari dell'azienda sono stati iscritti nel registro degli indagati. Si trattò di un grave allarme ambientale. Intorno alle 4 del mattino, alcuni ignoti aprirono i collettori di collegamento di tre cisterne del deposito dell’ex raffineria Lombarda Petroli, causando la fuoriuscita di circa 10 milioni di litri di gasolio per autotrazione e riscaldamento e di olio combustibile, che in parte finirono nel vicino fiume Lambro.

Gli idrocarburi si riversarono prima in un vascone, poi nel condotto fognario, causando il blocco del depuratore dell'alto Lambro di Monza e quindi lo sversamento nel fiume. La fuoriuscita di petrolio e gasolio dai serbatoi della raffineria fu fermata solo a fine mattinata del 24 febbraio.

L'onda nera finita nel fiume iniziò a scivolare, trascinata dalla corrente, verso valle, giungendo fino a Peschiera Borromeo; venne fermata dalla protezione civile giusto poco prima di finire nel Po. Ci volle uno sbarramento a San Zenone, in provincia di Lodi. Da subito si presentò come un disastro doloso. Gli stessi vigili del fuoco intervenuti sul posto fecero notare come aprire quei collettori non fosse impresa facile e di come doveva essere stato necessario l'intervento di qualcuno "esperto", di qualcuno cioè che conoscesse l'impianto.

Il disastro ambientale, come avviene sempre quando interessa i fiumi, non finì certo lì. Il deposito si trova al fianco di un'area sottoposta ad un'operazione di recupero ed edificazione, che in seguito dovrebbe interessare anche l'area dell'ex raffineria con il progetto "Ecocity Villasanta Monza".

In queste ore si é appreso da fonti politiche che lo sversamento di olio e petrolio nel fiume Lambro dalle cisterne della Lombarda Petroli sarebbe avvenuto per nascondere precedenti reati fiscali da parte della proprietà. Questa sarebbe, secondo quanto riferito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite nel ciclo dei rifiuti che ha svolto audizioni a Monza, l'ipotesi su cui stanno lavorando gli inquirenti della procura di Monza.

I magistrati della procura brianzola hanno iscritto nel registro degli indagati i titolari della Lombarda Petroli, Giuseppe e Rinaldo Tagliabue, ipotizzando il reato di sottrazione all'accertamento o al pagamento delle accise sugli oli minerali. Ma potrebbe essere contestato anche il reato di disastro ambientale. "L'indagine è alle fasi finali, tra poco sapremo con più precisione", ha spiegato Gaetano Pecorella, presidente della Commissione: "Possiamo dire con sicurezza che non è un episodio collegato alla criminalità organizzata, ma si è trattato di uno sversamento di petrolio per coprire evasioni fiscali e illeciti fiscali precedenti".

La Lombarda Petroli non ha più una raffineria a Villasanta, pertanto era stata privata delle necessarie autorizzazioni per tenere stoccati in loco tutti quegli idrocarburi. Un illecito di tipo amministrativo e fiscale. Secondo indiscrezioni raccolte in procura a Monza, probabilmente i due titolari avevano ricevuto alcune "voci" secondo le quali stavano per subìre un controllo.

L'assurdo è che per non far trovare i diecimila litri di oli minerali li avrebbero fatti fuoriuscire dall'impianto, pensando magari che non si riuscisse a risalire alla loro responsabilità. Se così fosse, ci troveremmo ancora una volta di fronte ad un caso di miopia industriale che sfocia nell'attitudine criminale, come definire altrimenti l'immissione in ambiente di una simile quantità di gasolio, bene tra l'altro anche prezioso sul mercato?

Intanto, non c’è pace per il Lambro, ai vertici delle classifiche dei fiumi più inquinati d'Italia. Dopo il disastro doloso di Villasanta, altri otto disastri ambientali hanno visto protagonista il suo bacino. L'ultimo allarme, in ordine di tempo, è scattato il 28 gennaio, quando su segnalazione di cittadini di Biassono e Villasanta, gli agenti della Polizia Provinciale, insieme ai tecnici del Settore Ambiente, dell'Arpa e anche del Nucleo sommozzatori della Protezione Civile, hanno scoperto l'immissione di un nuovo inquinante nelle acque.

Secondo le prime indagini, il tutto è avvenuto nel tratto di fiume che scorre nel parco di Monza, dove è stato individuato uno scolmatore del collettore fognario proveniente dalla zona industriale di Villasanta. Ulteriori ricerche sono in corso per localizzare con maggiore precisione il punto esatto dello sversamento. Si tratta ancora una volta d’idrocarburi e sostanze oleose.

In un paio di ore la macchia fortemente inquinante si è diretta verso Milano, dove sono stati allertati i tecnici e la polizia provinciale. Nel frattempo la Protezione civile ha valutando la possibilità di posizionare pannelli assorbenti nei tratti del fiume più idonei a raccogliere eventuali residui ed iniziare così l’opera di bonifica. I tecnici stanno poi ultimando i campionamenti per procedere con le analisi di laboratorio.

Ogni volta che qualche nuova onda nera compare sulla superficie del Lambro, la mente corre indietro nel tempo, fino a quella notte del disastro doloso della Lombarda Petroli. Se le indagini, come sembra, approderanno ad un processo, seguiremo con interesse la vicenda: quella di una ordinaria follia industriale e fiscale, dove lo spettro di una multa ha condotto ad un grave attentato all'ambiente e alla salute umana.

di Alessandro Iacuelli

Non deve essere piaciuto a nessuno, ai cancelli della Portovesme srl, nel Sulcis, scoprire che tre containers in entrata erano palesemente carichi di materiale radioattivo. Non deve essere piaciuto non solo perchè le bolle riportano valori nulli di radioattività, ma soprattutto perchè il contenuto di quei containers era destinato ad alimentare dei forni, con la conseguenza da brivido che quel materiale radioattivo sarebbe finito per essere emesso nei fumi che escono dai camini della Portovesme. Ad una prima analisi è stata riscontrata una contaminazione da Cesio 137. Quindi sono intervenuti i carabinieri del NOE ed i tecnici dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente. Si è messa in moto la Procura della Repubblica di Cagliari.

Cosa c'è in quei container? C'era il necessario per alimentare l'impianto Waelz di Portovesme, un impianto che tratta le polveri da abbattimento fumi delle acciaierie e s’inserisce nella filiera di produzione dello zinco e dell'acido solforico. Senza scendere nei dettagli (per motivi di spazio) del processo industriale, l'impianto Waelz è formato da due forni rotativi che operano una riduzione dello zinco, facendo uso di carbon coke e di una successiva ossidazione. Per funzionare ha bisogno di polveri di abbattimento dei fumi di acciaieria, ed erano proprio queste polveri a essere contenute in quei containers. Provenienza: Alfa Acciai, grande stabilimento di produzione di acciaio da rottami metallici, situato a San Polo, nella zona orientale di Brescia.

Containers partiti da Brescia, da quella San Polo già assediata dal punto di vista ambientale da oramai troppi anni, dove fioriscono discariche nelle vecchie cave, dove insiste da decenni proprio l'Alfa Acciai, con le sue emissioni di acciaieria, dove non serve l'aver messo un cartello, rivolto verso l'autostrada, che recita "vapore acqueo" per tranquillizzare gli animi di chi vive in quel quartiere.

L'acciaieria bresciana, in una nota, ha spiegato: "In merito all’allarme radioattività scattato a Cagliari presso il nostro fornitore Portovesme s.r.l., l’azienda precisa che, già giovedì scorso e poi di nuovo sabato, sono stati fatti approfonditi accertamenti sia dai tecnici interni di Alfa Acciai che dal personale degli organi di controllo del NOE e dell’Arpa di Brescia. Questi non hanno evidenziato né la presenza di tracce di radioattività, né il mancato funzionamento di tutti i dispositivi di controllo e allarme che l’azienda ha in essere per rilevare presenze di tracce di radioattività. Pertanto rimane da capire l’allarme rilevato a Cagliari che peso abbia, che tracce, quali sostanze rilevi e come l’evento si sia generato. In questo senso sia i tecnici di Alfa Acciai, sia quelli di Portovesme, ma anche gli organi di controllo stanno lavorando già da giovedì, appena scattato l’allarme; i primi responsi sono attesi per metà di questa settimana".

Anche se ad aprire subito un'inchiesta è stata la Procura di Cagliari, a chiedere urgentemente risposte sono invece gli abitanti di San Polo: "Se i primi riscontri troveranno conferma", ha dichiarato Valerio Beccalossi, del Comitato per la Salute di San Polo, "è la goccia che fa traboccare il vaso. Martedì 8 Febbraio terremo un incontro pubblico e abbiamo invitato sindaco, vicesindaco e assessore all’Ambiente".

E' chiaro che se le polveri sono radioattive, lo sono stati anche i fumi emessi dalle ciminiere dell'Alfa Acciai. L'azienda si difende dichiarando che presso l’impianto di Brescia vengono trasportati i fumi delle acciaierie provenienti da tutte le regioni italiane. Ma ci sono altre cose da spiegare, e che l'Alfa Acciai non spiega.

Tanto per cominciare, non si capisce come mai i tre container siano riusciti a uscire da Brescia senza che il portale radiometrico abbia segnalato qualcosa di anomalo. Risulta alquanto strano che la radioattività sia stata rilevata invece dal portale radiometrico di Portovesme: gli allarmi dei portali radiometrici sono tarati per scattare anche per tassi di radioattività molto bassi. Funziona davvero il portale radiometrico dell'Alfa Acciai? Poi c'è da fare una riflessione sulla qualità dell'aria. Sono anni che si scrive un "tutto nella norma" che rassicura solo le istituzioni. Solo in tempi recenti, il "tutto nella norma" ha iniziato a traballare, a San Polo.

L’Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente ha eseguito un attento monitoraggio in quella zona di Brescia fra il 2008 ed il 2010. Dopo due anni di monitoraggio delle deposizioni atmosferiche ha diffuso una relazione in cui sostiene che l'Alfa Acciai sia la "sorgente principale dei contaminanti della zona" a est di Brescia.

Quali contaminanti? Tre, e non certo piacevoli: PCB, policlorodibenzodiossine e furani. Tutte sostanze non degradabili, particolarmente nocive per la salute umana e spesso associate ad attività industriali come le acciaierie. E a San Polo di acciaieria ce n'è una: l'Alfa Acciai. Che fa l'acciaio a partire da rottami metallici. Se però nell'impianto entrano dei rottami, per essere fusi, già radioattivi, ed il portale radiometrico non segnala l'allarme, il gioco è fatto.

L'Alfa Acciai sostiene di essere attentissima ad ogni aspetto ambientale, anche perché vanta già una lunga storia di inchieste giudiziarie e di multe. Tuttavia, i conti non tornano, almeno quelli della radioattività.

Ovviamente non sappiamo se le cose stanno così, e solo un'accurata indagine giudiziaria potrà stabilirlo, però le domande che spontaneamente sorgono sono: che rottami metallici arrivano in Alfa Acciai? Da dove provengono? Poiché arrivano anche dall'Estero, da Paesi in cui le attività nucleari sono addirittura in dismissione, chi garantisce che non entrino nell'acciaieria materiali contaminati? L'Alfa Acciai continua ad acquistare rottami ferrosi dall'Est Europa.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Cresce ulteriormente lo scandalo diossina in Germania e, nel frattempo, Berlino cerca colpevoli da decapitare: un’azione politica, tuttavia, che non basta a ridare fiducia ai consumatori tedeschi. Perché, secondo un’indagine presentata dal settimanale Der Spiegel, il controllo della qualità dei prodotti alimentari in Germania è sistematicamente inaffidabile e ora, più che il sacrificio politico di qualsiasi capro espiatorio, dal Governo ci si aspetterebbe una riforma concreta delle procedure di garanzia.

Tutto è cominciato la settimana scorsa, quando l’azienda produttrice di mangimi per animali Harles und Jentzsch (che si trova in Schleswig-Holstein, Germania del Nord, ma che risulta registrata nella Bassa Sassonia, a Nord-Ovest) è stata indagata per la produzione di foraggi inquinati dalla diossina. Secondo le ultime indagini, Harles und Jentzsch non avrebbe fornito alle autorità una lista completa dei propri clienti: la scoperta di un nuovo rivenditore ha condotto alla chiusura di altri 934 allevamenti. L’informazione, tuttavia, è giunta a Berlino con estremo ritardo.

Non si sono fatte attendere le reazioni da parte del Governo. Il ministro per la Tutela dei consumatori, Ilse Aigner (CSU), da parte sua ha chiesto che i responsabili paghino in prima persona. In particolare, Aigner ha sollecitato le dimissioni del ministro dell’Ambiente della Bassa Sassonia, Hans-Heinrich Sander (FDP) e del suo sottosegretario, responsabili di non averla informata tempestivamente. Aigner ha inoltre invitato il presidente del Land in questione, David McAllister (CDU), a prendere provvedimenti. Tante parole, tuttavia, che potrebbero non bastare a risolvere il problema.

In Germania la sicurezza alimentare viene garantita ai cittadini attraverso il sistema del Qualitaetssiegel (QS), un marchio di qualità rilasciato da alcuni istituti privati dopo regolari analisi di laboratorio di campioni di produzione. Il contrassegno QS è sinonimo di qualità sia per i consumatori che per lo Stato: supermercati e negozi accettano soltanto merce con il suddetto bollino e le autorità tedesche tralasciano volentieri di controllare ufficialmente le aziende già certificate QS.

In realtà, il sistema QS non è all’altezza della fiducia che gli si accorda quotidianamente, poiché le analisi dei campioni alimentari avvengono secondo una procedura a dir poco bislacca: basti pensare che, dal 2003, anche Harles und Jentzsch era regolarmente certificata QS. Gli istituti di controllo (privati) autorizzati concedono piena autonomia alle aziende: sono i produttori stessi - contadini e macellai, così come industrie di mangime - a scegliere quando e come sottoporsi agli accertamenti; sono le aziende stesse a prelevare i campioni dalla propria produzione e a inviarli ai laboratori che più li aggradano tra quelli approvati dallo Stato. In pratica, non esistono controlli a sorpresa. Un po’ troppa emancipazione, a quanto pare, anche per l’irreprensibile Germania.

Il sistema QS è stato introdotto nel 2001 in seguito allo scandalo dell’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), di cui si sono trovati alcuni casi anche in Germania. Oltre alle dimissioni del ministro dell’Agricoltura e di quello della Salute, la crisi della mucca pazza ha palesato la necessità di un controllo più attento della catena alimentare. Con il polverone mediatico, tuttavia, è scomparsa anche l’urgenza e la politica si è accontentata dei buoni propositi dei protagonisti dell’industria alimentare, che hanno appunto  promosso il sistema QS. Un metodo, tuttavia, che lascia la sicurezza dei consumatori tedeschi nelle mani dei produttori stessi.

In sostanza, più che una certificazione effettiva di qualità, il bollino QS sembra essere un doping da commercio, un fattore indispensabile ai produttori per mantenere un certo tenore di prezzi. Perché, senza QS, i prodotti sono pagati meno. In occasione dello scandalo diossina, il ministro per la Tutela del consumatore Aigner ha presentato un mini-programma di riforma in dieci punti, che non va comunque a migliorare il sistema là dove ce n’è bisogno. Aigner, inoltre, ha sollecitato l’intervento dell’Unione Europea, accordando nel frattempo ancora piena fiducia all’economia.

Negli ultimi anni, tra l’altro, si è diffusa un’insana concorrenza tra i produttori, determinata dall’aumento sproporzionato della produzione di carne e dal conseguente calo dei prezzi (si parla della nostra società, chiaramente, una società che consuma più del necessario e si arroga il diritto di buttare il surplus). Se si considerano questi fattori, forse, lo scandalo della diossina può anche non sorprendere più di tanto.

Quanto più cresce la competizione, tanto più aumenta il rischio di azioni criminali nell’ambito dell’industria alimentare che assicurino un tenore di vendite altrimenti impensabile. A farne le spese, chiaramente, la qualità: così si arriva all’alto tasso di diossina nelle uova, che indica la presenza di combustibile vecchio e rifiuti industriali nel foraggio dei polli, o alla presenza di ormoni e antibiotici nella carne di maiale, dovuta allo smaltimento di medicinali nel rispettivo mangime.

Tanto rumore per nulla, quindi: fino a che punto ci si aspettare qualità in condizioni di sopravvivenza economica e con un sistema di controllo della qualità tanto tollerante? Come si può lasciare tanta autonomia a produttori che devono fare i conti, a fine mese, con un bilancio aziendale e non con la nostra salute?

di Alessandro Iacuelli

E' ormai chiaro, alla vigilia del capodanno, quanto avviene a Napoli, con l'ennesima esposizione, quasi si trattasse di una fiera, di tonnellate di rifiuti solidi urbani nelle strade. Non un'emergenza rifiuti, come negli anni scorsi, ma un puro gioco politico sulla pelle dei cittadini. Lo si è chiaramente intuito dall'intervista rilasciata dal governatore campano Caldoro al quotidiano La Repubblica il 27 dicembre scorso.

Nell'intervista, Caldoro non si risparmia nel lanciare accuse pesanti nei confronti del Comune di Napoli e dell'Asia, la società pubblica che si occupa della raccolta dei rifiuti in città. Che il Comune di Napoli abbia pesanti responsabilità (soprattutto nel corso degli ultimi dieci anni) nella gestione di quella che una volta si chiamava semplicemente "nettezza urbana", è cosa nota e non serve certo che sia Caldoro a ricordarlo. Peccato che in questa particolare occasione le cose stiano in modo ben diverso rispetto a due o più anni fa.

Fino al 2008, quando c'è stata l'ultima grande emergenza rifiuti, i dati di fatto erano la mancanza di un piano rifiuti regionale sensato, che non fosse profondamente segnato da gravi errori a monte e dalla mancanza di discariche da usare nel breve termine, per rimuovere e smaltire i rifiuti urbani. Pertanto, anche comuni dotati di un buon sistema di raccolta, non avevano dove conferire quanto avevano svuotato dai cassonetti. E il problema aveva travolto l'intero territorio della Campania.

Stavolta, il primo dato di fatto è che il piano rifiuti è ancora quello sbagliato. Rimaneggiato qua e là, rattoppato nei punti troppo deboli, è comunque un piano di smaltimento che non può reggere non solo la lunga distanza, ma neanche quella di pochi mesi. Per quanto riguarda invece le discariche da usare per evitare l'emergenza, lo spazio c'è. Nessuno, infatti, avrà dimenticato la grande frattura aperta nella democrazia campana, con l'apertura forzata da parte di Bertolaso, nel 2008, di siti a Chiaiano, nel cuore della zona ospedaliera napoletana, a Terzigno, nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio, a Serre, nel salernitano, nel cuore di un'oasi del WWF. Impianti che non dovevano esserci, impianti da dislocare altrove, impianti non voluti e osteggiati dalla popolazione, impianti aperti con la forza, ma anche impianti che, pur ormai quasi pieni, di spazio ne hanno ancora.

Negli anni poi sono cambiate le regole, le leggi. Si è finto di convertire certi decreti, chiamandoli pomposamente "conversione in legge del decreto X", anche se poi sono delle complete riscrizioni ex novo, che del decreto originario hanno poco o nulla. E' arrivata la gestione a livello provinciale del sistema dei rifiuti e poi le ovvie deroghe, che riportano in mano regionale molte parti della gestione della filiera di smaltimento dei rifiuti urbani.

La vera grande differenza tra quell'emergenza (vera) e quella di questi giorni (finta), la si vede tutta nella domanda - a prima vista ingenua - che fanno i normali cittadini, spesso anche non campani: se quell'emergenza colpì tutta la regione e furono aperte con la forza discariche per i rifiuti di tutta la Campania, perché stavolta l'emergenza riguarda principalmente solo la città di Napoli, e non tutta la Campania?

La risposta della Regione è semplice: il Comune di Napoli è negligente e l'Asia non è in grado di svolgere il servizio. Risposta sensata, per carità: sarebbe ancora più ingenuo credere che al Comune di Napoli tutto venga fatto alla perfezione, ma ci sono dei particolari talmente macroscopici da non poter non saltare all'occhio.

Tanto per cominciare, le deroghe alle leggi nazionali, studiate apposta dal governo nazionale, prevedono che in un mondo gestito in tutto il Paese a livello provinciale, solo in Campania a decidere dove consegnare, per lo smaltimento, i rifiuti raccolti sia il cosiddetto "Ufficio Flussi" della Regione. E' questo ufficio che praticamente "ordina" ai comuni dove portare i rifiuti raccolti dai cassonetti. E puntualmente per il comune di Napoli, e per un'altra manciata di comuni tutti uniti dall'essere retti da giunte di colore politico diverso da quello della Regione Campania, sorgono problemi.

Un esempio che vale per tutti: la mattina del 27 dicembre per le strade di Napoli c'erano ancora 1500 tonnellate di rifiuti da raccogliere. L'Asia era pronta con i propri mezzi, ma fino alle ore 14.00 dall'Ufficio Flussi non era arrivata alcuna indicazione, pertanto non si sapeva dove portare la "monnezza" raccolta. Così, mentre i comuni di centro-destra della provincia portavano i rifiuti in discarica, o presso gli STIR, gli impianti di tritovagliatura, il comune di Napoli è rimasto al palo. Poi lo stesso Ufficio Flussi ha garantito lo smaltimento di 400 tonnellate, poco più di un quarto delle 1500 totali, a Santa Maria Capua Vetere, che è fuori provincia.

I mezzi dell'Asia, sobbarcandosi anche il costo della trasferta in terra casertana, sono andati a Santa Maria Capua Vetere, dove sono stati rimandati indietro perché la Provincia di Caserta, retta dal centro destra, non ha autorizzato l'immissione in discarica di rifiuti provenienti da un'altra provincia. Solo a quel punto, i mezzi sono stati dirottati a Caivano, dove oramai si era accumulata una fila per scaricare presso lo STIR durata sette ore, e turno da 15 ore per gli autisti dei mezzi. I risultati sono due: la mattina del 28, i rifiuti rimasti a terra in città sono passati da 1500 a 2000 tonnellate, e intanto il Governatore Caldoro ha rilasciato l'intervista a La Repubblica in cui racconta che la colpa è sia del Comune che dell'Asia.

Eppure, a Chiaiano c'è abbastanza spazio per un milione di tonnellate di RSU. E Chiaiano è all'interno del comune di Napoli. Nonostante questo, l'Ufficio Flussi della Regione, dopo aver deviato l'Asia da Chiaiano a Terzigno negli scorsi mesi, causando gli scontri di cui tutti sanno, si guarda bene dal far riprendere lo smaltimento in loco dei rifiuti napoletani. Solo ora, che l'attenzione dei media è focalizzata su Napoli e sulla false promesse del premier, la Regione ha autorizzato l'Asia allo sversamento a Chiaiano, ma di una quantità limitata di rifiuti, adducendo la scusa di una "capacità massima giornaliera" che non può essere superata. Neanche in emergenza. Strano, perchè Chiaiano è stata aperta, forzando le leggi ed anche la popolazione, proprio per risolvere l'emergenza.

Anche quelle tonnellate destinate a Chiaiano e contenute in appena nove automezzi compattatori, non sono però arrivate a destinazione, anche se per un motivo diverso: nella notte, circa 150 persone incappucciate e armate di spranghe, a bordo di moto e scooter, hanno assaltato e bloccato quei nove mezzi, mettendo in fuga gli autisti e distruggendo 5 compattatori. D'ora in avanti ci sarà bisogno della scorta della polizia. Anche questa è una scena già vista, assomiglia molto a quella della mattina del 23 ottobre 2002, quando i mezzi dell'Asia furono assaltati in diversi punti della città, quasi in contamporanea. All'epoca, si disse che non si trattava di una manovra organizzata. Vedremo stavolta.

Proprio come nel 2002, il sindaco di Napoli Iervolino ha subito parlato di "assenza di un piano organizzato". Francamente sembra strano, proprio come sembrò strano nel 2002. A sbilanciarsi è l'amministratore delegato di Asia, Daniele Fortini, che dichiara come a differenza dei fatti di Terzigno stavolta "non si tratta di cittadini, è un raid organizzato", e aggiunge che ci sono "poteri forti, presenze che fanno avvertire la loro capacità di condizionamento".

No, non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di un problema solo criminale. Si tratta di un problema politico e lo conferma lo stesso Fortini: "E’ in atto uno scontro tra poteri forti. Tra chi controlla il territorio e chi, da Roma, vorrebbe rimettere tutto a posto con la bacchetta magica”.

Quindi, il braccio di ferro c'è, ma lo scopo è influenzare la campagna elettorale di marzo, quando occorrerà rinnovare la giunta comunale napoletana. Un piatto succulento, talmente succulento da scomodare personaggi come il ministro Carfagna e come il tessitore di reti di relazioni, Nicola Cosentino. Più succulento delle volte precedenti, perché ora in palio c'è il controllo dei cantieri per l'inceneritore di Napoli est, cioè investimenti per un miliardo di euro e l'assegnazione di 2000 posti di lavoro. Questa è la politica, quella vera, non quella raccontata nei talk show televisivi. Questo è il gioco in corso sui rifiuti di Napoli, sulla pelle dei napoletani.

In questo quadro, occorre mettere i bastoni tra le ruote al comune del capoluogo, rimasto l'unico ente locale in mano al centro sinistra, accerchiato da provincia e regione di colore opposto. Fa nulla se nel frattempo i napoletani fanno Natale e Capodanno letteralmente "nella merda", se la posta in gioco è quella della spartizione di soldi e poltrone. Si tratta chiaramente di sciacallaggio su una giunta comunale che di figuracce, in due mandati, ne ha accumulate tante da sapersi suicidare da sola. Starà semmai ai napoletani trovare l'orgoglio di non votare a marzo gli sciacalli che volteggiano sulla città.

E se davvero gli sciacalli, miracolosamente, non dovessero passare, allora è possibile lasciare Napoli ancora sotto i rifiuti. Infatti proprio a marzo, e lo ricorda Fortini, "la discarica di Chiaiano sarà esaurita e siccome Terzigno non potrà accogliere i rifiuti di Napoli e il governo ha approvato un decreto legge che cancella le nuove discariche in Campania, non so che fine faranno i rifiuti della città".

Magicamente, se il centro destra vincesse le elezioni comunali napoletane, certamente il governo e la regione farebbero nascere tante convenzioni con Paesi esteri e regioni italiane che all'improvviso diverrebbero "solidali" con la Campania. C'è da scommetterci. E per concludere con lo sciacallaggio, basta ricordare che è sufficiente dirlo che non si tratta di emergenza rifiuti ma di campagna elettorale per le prossime comunali. Ma non lo si può dire, perché il centro destra stesso è spaccato al suo interno. Però questa è tutta un'altra storia.

di Alessandro Iacuelli

Era il 22 gennaio del 2010, quando Mauro Paroloni, all'epoca assessore ai Lavori pubblici della Provincia di Brescia, annunciava trionfalmente l'inizio dei lavori di un nuovo lotto per la realizzazione della nuova strada provinciale "Orceana", l'asse viario Brescia-Orzinuovi, in pratica una nuova tangenziale. Un progetto abbastanza "in grande" (si tratta di un lotto di costruzione attorno all'abitato di Orzivecchi) per un costo complessivo di 9 milioni di euro, di cui 800.000 euro a carico del comune di Orzivecchi; è frutto dell’accordo di programma sottoscritto nel dicembre del 2006 tra la Provincia e il Comune. I lavori, iniziati alla fine dell’estate 2009, sono affidati all'unione temporanea d’imprese "Origini Asfalti Locatelli".

Probabilmente un boccone deve essere andato per traverso all'assessore, quando gli uomini del Corpo Forestale dello Stato hanno messo i sigilli al cantiere, su ordine della Procura della Repubblica. Modalità di assegnazione dell'appalto e materiale utilizzato per il fondo stradale, questi erano i due filoni dell'indagine in corso e che ha portato al sequestro del cantiere a Orzivecchi.

Il Pm Carla Canaia, che conduce l'indagine, ha anche disposto un sopralluogo per acquisire documentazione utile proprio in Provincia, negli uffici dell'assessorato ai Lavori Pubblici. Tutto è partito con l'esposto alla Procura da parte dei sindaci di Orzinuovi e Orzivecchi, preoccupati perché le ditte appaltatrici utilizzavano materiali inerti non provenienti da cave autorizzate per la realizzazione del fondo stradale del tratto di tangenziale di 2,3 km.

I sindaci hanno fatto notare come i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti con materiali provenienti da cave autorizzate, con esclusione di scorie di acciaierie e di macerie da demolizione. Con variante in corso d'opera, la Provincia ha modificato la composizione del sottofondo, autorizzando l'impiego di materiale composto per metà da miscela di inerti e per l'altra metà da scorie di acciaieria. Ma secondo i sindaci il sottofondo era composto quasi interamente da scorie grigie, ricoperte da un sottile strato di sabbia, scorie che in certe giornate, a contatto con l'aria, hanno anche generato fumarole alquanto sospette.

E proprio su quei materiali, si è capito che qualcosa non andava. Quel che emerso è da brivido. Al posto della ghiaia, così come previsto dal capitolato, per realizzare il manto stradale sarebbero stati utilizzati rifiuti industriali non trattati. Tra i materiali utilizzati, e naturalmente si tratta di materiali non consentiti, anche scorie di acciaierie e resti di demolizioni non autorizzati.

Scorie che contengono metalli pesanti che poi finiscono nella falda. L'attuale assessore Mariateresa Vivaldini ha dichiarato che invece le analisi in suo possesso indicavano che tutto fosse regolare. Ci sono anche tre indagati, sulle loro generalità vige il massimo riserbo ma fonti giudiziarie e amministrative confermano che fra le persone coinvolte figura l'ingegner Bortolo Perugini, fino a fine 2009 dirigente dell'assessorato provinciale ai Lavori Pubblici. Gli altri due sarebbero due personaggi di rilievo delle imprese edili che hanno vinto l'appalto per la realizzazione della tangenziale.

Fiumi di rifiuti occultati abusivamente senza seguire le complesse e costose procedure di smaltimento. Il giorno dopo il sequestro dei cantieri della tangenziale di Orzivecchi, è così cambiato anche il quadro stesso dell'inchiesta. Non più soltanto le modalità di assegnazione dell'appalto e il materiale utilizzato per il fondo stradale. Le accuse sono diventate più gravi: traffico illecito di rifiuti, frode in pubbliche forniture e truffa aggravata. L’ha dichiarato in una conferenza stampa il procuratore capo Nicola Pace, che segue con attenzione l'evoluzione delle indagini condotte dal pm Claudia Canaia.

"L'inchiesta aperta è una sola", ha precisato Pace, "Gli accertamenti concernono sia gli aspetti protezionistici che quelli tecnico-amministrativi, con particolare riferimento agli atti della pubblica amministrazione". Stando a vedere quel che succede nella Bassa Bresciana, Orzivecchi potrebbe essere solo un terminale di una rete ben più ampia di traffico illecito di rifiuti. Un traffico molto redditizio qualora le scorie di acciaieria risultassero davvero non inertizzate, evitando un procedimento costoso ma indispensabile per poter trasformare il rifiuto in materiale a prova di contaminazione e quindi utilizzabile nei cantieri.

Resta aperto anche un nodo molto grave: quello delle analisi sui carotaggi effettuati nei mesi scorsi. Quelle analisi che secondo l'assessorato provinciale dimostravano che i materiali utilizzati erano in regola. La procura vuole vederci chiaro, e per questo starebbe ordinando una serie di controanalisi.

D'altronde quello di Orzivecchi non è e non potrebbe mai essere un caso isolato. Si tratta della provincia che ha in Italia il record di produzione di rifiuti speciali: 4,5 milioni di tonnellate l'anno di cui 1,5 milioni dal comparto siderurgico. In una situazione del genere, lo smaltimento illecito delle scorie ha dei precedenti, anche troppi. Da quel lontano 1993, anno in cui la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere dimostrò, con l'Operazione Adelphi, che 18.000 TIR da Brescia avevano trasportato nella zona di Caserta circa 300.000 tonnellate di scorie di fonderia dalla Val Trompia, fino al 1995, quando fra Chiari e Pontevico sono stati scoperti 12 chilometri di asfalto costruito su scorie non inertizzate.

In tempi più recenti, per tornare all'attualità, c'è uno stillicidio continuo di casi del genere. Pochi mesi fa, l'Econeproma, azienda di Dello, aveva scaricato su terreni permeabili della trielina, poi nel novembre scorso ci sono stati altri scarichi di sostanze tossiche a Offlaga e a Pontevico, mentre nello scorso settembre c'era stato il sequestro di inerti e altri rifiuti nella cava di Pompiano e nella cava Esseemme di Manerbio.

Così come ci sono state emissioni inquinanti oltre il consentito da parte di una acciaieria a Maclodio e, prima ancora, tonnellate di rifiuti scoperte lungo le sponde del Mella tra Azzano e Dello. Se si torna indietro nel tempo, si arriva fino a quattro anni fa, con le scorie di acciaieria ritrovate a Roncadelle, sotto e a fianco della nuova Ikea, ma anche vicino alla Fiera di Brescia.

Se all'inizio degli anni '90 queste scorie finivano sistematicamente, e scientificamente, in Campania, ora certa industria bresciana ha deciso di risparmiare anche il costo del trasporto. D'altronde, con la produzione bresciana di rifiuti speciali, oggi non basterebbero 100 tir al giorno, per spedire le scorie di fonderia al sud, e l'attenzione si è fatta molto alta, negli ultimi tempi.

Così, con buona pace di concetti come la responsabilità d'impresa e di fiumi di codici etici, il risparmio sullo smaltimento delle sostanze pericolose, e quindi l'incremento dei profitti, viene fatto avvelenando il proprio stesso territorio. Sempre con un occhio all'importanza del made in Italy, un'altro all'economia che deve ripartire, e possibilmente cogliendo ogni occasione per remare contro il Sistri, il sistema di tracciamento dei rifiuti industriali che entrerà in vigore il prossimo gennaio, e per lanciare accuse di "disinformazione", spesso pesanti e infondate, a chiunque critichi la "brava e onesta" industria del nord, o a chiunque attacchi le aziende e le loro organizzazioni di categoria.

Aziende e organizzazioni che, visto il comportamento poco etico e irresponsabile, un sistema pesante e stringente come il Sistri se lo meritano tutto, in pieno.


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