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di Redazione
Luca Tornatore, astrofisico dell'Osservatorio di Trieste e attivista, è stato ingiustamente arrestato dalla polizia danese lunedì 14 dicembre 2009 con l'accusa di lancio di oggetti e resistenza aggravata a pubblico ufficiale. I reati contestatigli sono stati operati da una persona a volto coperto ma due poliziotti danesi hanno riconosciuto in lui l'autore dei reati. Nell'ora in cui i reati sono stati commessi, Luca si trovava a Christiania al dibattito con Naomi Klein e Michael Hardt, organizzato dalla rete “Climate Justice Action.” I testimoni sono ovviamente le centinaia di persone che hanno partecipato al dibattito, ma la polizia danese non ha intenzione di ascoltarli prima dell'inizio del processo, che si terrà il 12 gennaio 2010. Luca rischia quindi di passare un mese in prigione per un reato che non può aver commesso.
Non può averlo commesso perché si trovava altrove, ma anche perché sono altre le armi che Luca ha sempre usato nelle sue battaglie. La prima è la divulgazione scientifica. Da anni Luca è un instancabile demolitore delle bugie ambientali del potere: dalla favola dello sviluppo sostenibile guidato dal mercato, a quella del nucleare pulito, a quella della crescita infinita, a quella dell'estraneità dell'uomo nel riscaldamento globale. Usando la sua intelligenza, l'abilità con i numeri datagli dagli studi scientifici e la predisposizione al dialogo, datagli da anni di pratica politica, ha tenuto lezioni pubbliche su argomenti che spaziano dal consumo esponenziale delle risorse derivato dalla crescita costante del PIL, alla divulgazione dei risultati dell'International Panel on Climate Change.
Data la politica di arresti preventivi di massa tenuta fino adesso dalla polizia danese in occasione del summit (almeno 1500 persone sono state fermate prima delle manifestazioni) si può pensare che Luca sia semplicemente finito preso in una rete insieme a molte altre persone. O si può pensare che i numerosi interventi che ha tenuto dall'inizio del summit - tanto sull'emergenza climatica quanto sul diritto a manifestare - abbiano attratto l'attenzione della polizia e che questa abbia deciso di usare la custodia cautelare come mezzo per far tacere una voce scomoda.
La mobilitazione è scattata immediatamente tanto sul versante degli attivisti ambientali quanto su quello dei colleghi scientifici (a partire da Margherita Hack, con la quale Luca collabora all'Osservatorio di Trieste) che sono partiti con due appelli complementari che poi si sono fusi in un'unica iniziativa. Si può aderire cliccando su
http://www.petizionionline.it/petizione/per-la-liberazione-di-luca-tornatore/437
Numerosi presidi si stanno tenendo in tutta Italia presso i consolati danesi per chiedere l'immediata scarcerazione di Luca; l'ambasciatore italiano si è recato a visitarlo in carcere; il rettore dell'Università di Trieste ha scritto all'ambasciatore danese sulla vicenda. Nel pomeriggio di giovedì 17 dicembre, le prime centinaia di firme raccolte sono state consegnate al console danese a Trieste e si terrà una conferenza stampa sulla vicenda. Gli avvocati hanno presentato una richiesta di scarcerazione di cui si dovrebbe sapere l'esito entro la settimana.
Questa storia è così emblematica da sembrare un racconto ispirato al Galileo di Brecht, con la falsità usata come metodo per far tacere le scoperte scientifiche, ma nel racconto è rimasta prigioniera tra quattro pareti una persona in carne ed ossa, uno scienziato convinto che si possa usare la ricerca non solo per capire il mondo ma anche per migliorarlo.
Possiamo inondare la posta del carcere di Copenhagen, spedendo una lettera all'indirizzo
Luca Tornatore 211275 ABBM - Vestre Faengsel - Vigerslev allè 1D - 2450 Kbh Svolta - Copenhagen – Danmarkt
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di Alessandro Iacuelli
Due persone sono state denunciate dai Carabinieri del Noe di Brescia a Castel Mella per deposito incontrollato di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, in un'area destinata a opere di urbanizzazione. Sono il presidente del consiglio di amministrazione e il procuratore delegato per la sicurezza e l'ambiente di una società di costruzioni. L'area interessata, di 68mila metri quadri, è stata sequestrata dai militari, così come un cumulo di rifiuti di circa 800 metri cubi.
Sembra la solita notizia riguardante un reato ambientale circa lo smaltimento dei rifiuti speciali, una fattispecie di cui l'Italia detiene il record in Unione Europea. E non è più vera la solita diceria che c'entrano le mafie, visto che il fenomeno dello smaltimento illecito di rifiuti di provenienza industriale riguarda oramai tutto il Paese, con punte elevatissime nel ricchissimo Nord Est e il Lombardia, e non nella solita Campania.
Dietro la semplice e solita notizia dell'ennesimo sequestro di un'area inquinata abusivamente, c'è però nascosto un fenomeno molto più ampio, che proprio nel bresciano sta raggiungendo proporzioni allarmanti: la diffusione di smaltimenti irregolari di rifiuti speciali. Non solo irregolari, ma spesso pericolosi per la salute umana. Nella sola provincia di Brescia, il costo annuo dello smaltimento dei rifiuti pericolosi raggiunge i 5 miliardi di euro. Una cifra spaventosa, se la si raffronta ai 20 miliardi spesi dall'intera Lombardia. Si tratta di una cifra che va oltre l'immaginazione del comune cittadino. Per dare un valore di confronto utile, si pensi che il bilancio della Regione Lombardia é di 24 miliardi di euro l'anno.
E' chiaro che essendoci in ballo cifre così importanti, che sono a carico di chi deve smaltire i propri rifiuti speciali (quindi le industrie stesse) diventa troppo spesso appetibile il disfarsi degli scarti produttivi attraverso metodi illegali, ma molto meno costosi. D'altronde, non dimentichiamo che secondo i dati dell'Osservatorio Nazionale sui Rifiuti, solo il 22% dei rifiuti prodotti annualmente in Italia sono rifiuti solidi urbani. Il resto sono rifiuti delle attività produttive, non assimilabili agli urbani, che superano ormai da tempo i 100 milioni di tonnellate l'anno.
Nonostante questo, si assiste allo sviluppo di politiche di raccolta, di recupero e di smaltimento per i soli rifiuti urbani, cioè per la parte più piccola. La fetta più grande è quella dei rifiuti speciali, tra i quali c'è una discreta percentuale di materiali che rientrano nella categoria di quelli tossico-nocivi, categoria che ogni anno si espande in quantità. Rifiuti che per la maggior parte sono destinati all'estero, principalmente verso la Germania, ma senza trascurare la cara vecchia Africa, i Balcani ed il Sud Est Asiatico.
Proprio a proposito dei rifiuti pericolosi, il 30% di tutti quelli prodotti in Lombardia, oltre due milioni di tonnellate l'anno, vengono smaltiti nel bresciano, ovviamente non in tutta la provincia, poichè è scomodo smaltire nelle valli alpine, mentre la zona bassa, oltre ad una presenza record di discariche per rifiuti industriali ha anche un altro record: quella della pioggia di richieste di autorizzazione per nuove discariche e impianti di trattamento.
Così, quella che in Italia, dove si pone sempre l'accento sui rifiuti urbani, appare come una provincia virtuosa in materia di rifiuti, si rivela essere il più grosso ripostiglio di rifiuti speciali, pericolosi, tossici, del nostro Paese. A lanciare l'allarme è stato, per ora, solo Osvaldo Squassina, consigliere regionale, che dati alla mano sostiene che: "è chiaro il rischio di creare sul nostro territorio un business legato al ciclo dei rifiuti".
Brescia detiene il record pro capite non solo della produzione di rifiuti speciali - ben 1,9 milioni di tonnellate - e pericolosi - 500.000 tonnellate all'anno - ma anche della maggiore produzione pro capite di rifiuti urbani: 735mila nel 2007, ovvero 608 chili per ogni abitante della provincia, con un picco di 722kg per ogni residente in città, a fronte di una media regionale di 512 chili e di una nazionale inferiore ai 500 chili a testa. "La Regione sta redigendo una bozza di piano per lo smaltimento di rifiuti speciali e pericolosi, ha dichiarato Squassina, indicando una serie di progetti all'avanguardia; ma, nello stesso tempo, continua ad autorizzare discariche nella nostra provincia. Serve un'inversione di tendenza e una drastica riduzione nella produzione dei rifiuti sia urbani che industriali - aggiunge Squassina - il rischio è quello di far pagare in futuro alla collettività dei costi inimmaginabili in termini di ambiente e salute”.
Il caso più lampante è quello della vicenda riguardante l'amianto. In Lombardia sono da bonificare 2,7 milioni di metri cubi, ma in realtà almeno il doppio secondo i tecnici che considerano anche infissi e coperture interne delle case, di questi, in provincia di Brescia ce ne sono circa 500.000 metri cubi. Ma la Regione Lombardia sta contemporaneamente autorizzando ben 3 discariche per amianto, tutte a Brescia, in particolare a San Polo, Travagliato e Montichiari, per una cubatura totale di stoccaggio di oltre 1,5 milioni di metri cubi.
Ovviamente non c'è solo amianto. Il bresciano è anche in vetta alle classifiche per le lavorazioni dell'acciaio, e l'effetto collaterale è la produzione di rifiuti speciali costituite da scarti di fonderia, scorie di seconda fusione, polveri di abbattimento fumi, tutte sostanze ricche di metalli pesanti, spesso polverizzati, pericolosi sia per inalazione sia per ingestione. Ma c'è anche la chimica, con l'azienda Caffaro che torna spesso agli onori delle cronache.
"Tenendo conto che smaltire un metro cubo di amianto costa 110 euro - dichiara Squassina - se ne deduce quali sono i ricavi per un gestore di discarica. Siamo consci dei rischi inerenti l'amianto ma questo non è assolutamente il modo di procedere. Chiediamo per questo una moratoria su tutte le aperture di nuove discariche e nel frattempo la messa in sicurezza e il controllo della dispersione delle fibre".
Al di là delle richieste del consigliere, la considerazione importante, che travalica i confini del bresciano, è che l'Italia non ha ancora un proprio piano per la riduzione e lo smaltimento dei rifiuti speciali, cioè di quei rifiuti che sono a monte del consumo, sono generati durante la produzione delle merci, frutto di processi industriali che spesso sono vecchi, e basati sul massimo profitto, senza guardare ai costi ambientali e - è bene ricordarlo - sanitari degli scarti produttivi.
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di Daniele Rovai
Nonostante il referendum, nonostante in tutto il mondo ogni tipo di governo decide di abbandonarlo progressivamente, qui da noi ormai è deciso: l’Italia sarà nucleare. Le informazioni sono come minimo carenti e i timori, invece, concreti. Per cercare di capire come sarà questa "rinascita" abbiamo posto diverse domande alla dottoressa Romano, Direttore Generale per l’energia nucleare, le energie rinnovabili e l’efficienza energetica del Ministero.
Perché il nucleare è così importante per l’Italia quando gli altri paesi europei vanno verso il massiccio sviluppo delle energie alternative?
La strategia energetica nazionale si pone innanzitutto l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica del Paese dagli approvvigionamenti delle fonti fossili dall’estero, col duplice fine di dare maggiore sicurezza del sistema energetico e rendere più stabili i prezzi per i clienti finali, oggi troppo dipendenti dalle fluttuazioni dei prezzi internazionali del greggio. Per farlo il mix ottimale, tenendo conto degli impegni assunti in sede europea in materia di riduzione delle emissioni di CO2, dovrebbe essere costituito per il 25% da rinnovabili, per il 25% da nucleare e per il restante 50% da altre fonti. Il ritorno al nucleare e lo sviluppo delle rinnovabili sono due progetti paralleli, con un diverso piano temporale di realizzazione, e non due progetti alternativi o in antitesi. Le rinnovabili sono infatti sin d’ora implementabili, mentre per il nucleare sono previsti tempi attuativi più estesi.
Nella legge 99/09 si parla di impianti nucleari, cioè di un industria in piena regola con officine e laboratori. Il governo ha già delineato una strategia operativa?
Lo ha fatto con la legge 99/09 delineando le linee guida per il ritorno al nucleare, e prevede tempi stretti. L’Italia aveva conoscenze all’avanguardia prima dell’interruzione del programma nucleare, conoscenze che si sono continuate a coltivare e che potrebbero riallinearsi in breve tempo. Non è però necessario che l’Italia ricostruisca al proprio interno l’intera filiera del ciclo del nucleare. Meglio delle eccellenze su alcuni aspetti. Gli accordi internazionali vanno in questa direzione perché consentono di scambiare competenze e tecnologie, oltre che consentire di acquisire delle tecnologie “chiavi in mano”, peraltro già certificate dalle Agenzie di sicurezza e dagli standards internazionali in materia.
La legge 99/09 dice che il governo potrà decidere al posto degli enti locali sulla costruzione delle istallazioni nucleari, usando l’articolo 120 della costituzione. In sostanza se esiste un “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”. Non volere un impianto nucleare nel proprio comune mette in pericolo l’unità economica?
La possibilità di superare un blocco istituzionale per installazioni di tipo strategico è contemplata dalla Costituzione e dalle leggi e non rappresenta una novità introdotta ad hoc solo per il nucleare anche se finora è stata utilizzata poco. I casi di altre infrastrutture energetiche, bloccate per anni da inerzie o mancate intese, sono ben noti a tutti, così come i costi conseguenti per il sistema e per i cittadini. Si deve promuovere una pronuncia consapevole da parte di chi partecipa alle scelte, rendere disponibili le informazioni necessarie e agire in trasparenza, ma anche prefigurare un modo per arrivare a prendere una decisione. In ogni caso, il modo in cui sarà esercitato il potere sostitutivo è ancora da definire in quanto fa parte del contenuto del decreto legislativo. Ma sarà aderente a quanto prevede oggi la nostra Costituzione.
Nella legge 99/09 si prevede che l’energia elettrica prodotta da fonte nucleare in Italia debba essere comunque immessa in rete per un quantitativo determinato (art.25, comma 4). Non è un incentivo?
No, per il nucleare non sono previsti incentivi. Così come non ci sono rischi che le risorse destinate all’incentivazione delle fonti rinnovabili possano essere distorte a favore del nucleare. La disponibilità di energia a costi inferiori, come può essere quella prodotta dal nucleare, al contrario, rende possibile la raccolta di incentivi per le rinnovabili attraverso specifici oneri incrementali ai prezzi finali dell’energia, contrastando gli impatti sui consumatori finali. La priorità in dispacciamento risponde a esigenze tecniche connesse alle caratteristiche degli impianti nucleari, adatti a coprire il carico di base, e ad aumentare il grado di sicurezza del sistema.
Secondo la legge 99/09 si potranno costruire “impianti energetici” nei demani militari e l’esercito potrà partecipare ai consorzi che costruiranno e gestiranno questi impianti “allo scopo di soddisfare le proprie esigenze energetiche” e per conseguire significative misure di contenimento delle spese per la gestione delle aree interessate (art. 39). Potremo avere delle centrali nucleari costruite su siti militari e in parte di proprietà dell’esercito?
Innanzitutto è bene precisare che già oggi è possibile che si costruiscano impianti energetici nei demani militari, in considerazione di possibili realizzazioni rivolte al soddisfacimento delle esigenze energetiche presso gli stessi siti, secondo la finalità richiamata esplicitamente nella legge. Per tale finalità, si pensa evidentemente ad impianti ben più ridotti di una centrale nucleare. Per quanto riguarda la costruzione di impianti correlati all'energia nucleare, eventuali demani militari non solo, come gli altri siti, dovrebbero soddisfare i requisiti di idoneità tecnica delle aree che il Governo dovrà individuare entro febbraio 2010, ma dovrebbero evidentemente rispettare la normativa di sicurezza propria dell'ambito militare, quali ad esempio vincoli di segretezza, senza pregiudicare gli obblighi di trasparenza e pubblicità che sono posti alla base dello sviluppo nucleare nel nostro Paese e che sono imposti dalla normativa europea in tema di Valutazione d’impatto ambientale.
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di mazzetta
Dieci anni dopo Seattle tocca a Copenhagen offrire il confronto simbolico tra il potere rappresentato dai governi e la coscienza globale incarnata da movimenti e associazioni di base. Allora si cercava di definire le regole del commercio globale, oggi i capi di stato e i rappresentanti dei grandi interessi economici s'incontrano per contrastare il riscaldamento globale. Ora, come allora, nelle sacre stanze del vertice saranno rappresentati interessi molto particolari, mentre fuori dal perimetro riservato agli invitati s'incontreranno gli interessi e le idee di popoli e persone che non hanno voce in capitolo dove si decide.
Gli schieramenti iniziali sono abbastanza delineati. Si parte da una base che riconosce l'aumento troppo veloce della temperatura e che ne riconduce la causa alle attività antropiche, in particolare alle emissioni di Co2. A respingere la base di discussione comune restano frange di fanatismo, a destra come a sinistra, impersonate da lunatici che giurano che il riscaldamento globale sia solo un grande complotto, cambiano solo i beneficiari del complotto a seconda dei proponenti, ma lo schema è comune: qualcuno si è inventato tutto per guadagnarci.
Anche i rappresentanti dei grandi interessi economici hanno ormai abbandonato il negazionismo spicciolo e intrapreso strade alternative. I più creativi sono i petrolieri e con loro chi guadagna dall'impiego di combustibili fossili, che da anni ormai producono benzina “verde”, gasolio “bianco” e altre diavolerie che sono solo travestimenti dei prodotti accusati d'inquinare. La nuova frontiera comprende il carbone “pulito” (che non esiste) e la promozione di qualsiasi strategia che non comporti la riduzione dell'impiego di fonti energetiche fossili.
In questo senso si propongono soluzioni fantascientifiche, che vanno dai grandi progetti di geo-ingegneria (“ombrelli” in orbita a schermare i raggi solari, “concimazione” degli oceani per aumentare la fotosintesi delle alghe e altro ancora sempre su scala planetaria) fino a soluzioni più modeste che dovrebbero servire ad azzerare le emissioni o quasi, come l'ormai mitico “sequestro” sotterraneo dell'anidride carbonica prodotta dalla combustione. Mitico perché ancora deve essere realizzato un solo impianto e anche perché costi e rischi dell'ideona sono ancora da indagare.
Un altro escamotage è quello architettato dall'ex enfant prodige del negazionismo climatico, quel Lomborg che ha commissionato, insieme all'italiana ENI, una ricerca che afferma che i soldi resi nell'aggiustare i danni prodotti dai cambiamenti climatici, renderanno sicuramente di più di quelli spesi per limitare le emissioni.
Un dato interessante, soprattutto per la grande finanza internazionale che vorrebbe risolvere il tutto affidando il problema al mercato, attraverso l'istituzione di una borsa per il commercio dei diritti ad inquinare. Un sistema assurdo: prima di tutto perché non garantisce alcuna riduzione delle emissioni e, secondariamente, perché assicura vantaggi e guadagni solo alle istituzioni finanziarie chiamate a gestire il commercio. I fan del carbon trade a Copenaghen non sembrano sensibili all'ideona di Lomborg, che comporterebbe lo stanziamento di fondi per spostare e proteggere le città rivierasche e altre attività di mitigazione.
Poi ci sono i governi, che nonostante la posta in gioco, procedono in ordine sparso e senza troppe idee; c'è da credere che la maggior parte firmerebbe subito qualunque accordo permetta di lasciare le cose come stanno. Su posizioni diverse solo i leader ininfluenti di un paio di micro-paesi che stanno per finire sommersi. Obama non suggerirà rivouzioni, l'Europa non aggregherà consenso e il BRIC andrà in ordine sparso, con la Cina che forse è il paese più incline e pronto a tagli drastici, l'India in cerca d'autore e il Brasile che è paralizzato dalla sua dipendenza dall'etanolo e da uno sviluppo ruggente, ma fondato sullo sfruttamento delle ricchezze naturali del paese.
Attorno a questo circo, che ha costretto la Danimarca ad importare limousine per servire i delegati, ci saranno migliaia di persone che fino al 18 (hanno iniziato l’11) daranno vita al vertice alternativo sotto l'ombrello della CJA (Climate Justice Action) la sigla che fin dal titolo chiarisce come le soluzioni siano necessariamente da ricercare nell'implementazione della giustizia sociale, dello scambio equo tra mondo sviluppato e paesi in via di sviluppo, da regole stringenti per il commercio e lo sfruttamento del territorio. Una settimana che servirà soprattutto ad incontrarsi e a mettere a confronto micro e macro-soluzioni da coagulare in un documento d'analisi e d'indirizzo per il futuro.A salutare l'arrivo dei manifestanti la democratica Danimarca ha passato una simpatica legge che permette l'arresto preventivo dei sospettabili di voler provocare disordini.
Dieci anni dopo Seattle le previsioni di chi sedeva fuori dal vertice si sono rivelate puntuali. I sostenitori della deregulation e i fanatici del libero mercato hanno fallito, la crisi sistemica è scoppiata e ancora oggi il mondo della finanza e del commercio trattiene il fiato perché sa che i “salvataggi” sono stati pura cosmesi e il baratro dei debiti nascosti nei bilanci è ancora lì sulla strada dell'economia mondiale. Il turbo-capitalismo è fallito al punto che l'economia mondiale è stata salvata dalla Cina comunista, che oggi è allo stesso tempo fabbrica-mondo e forziere del debito pubblico americano basterebbe questo a destituire di ogni autorevolezza quelli che ora come allora, sono chiamati ad affrontare problemi sui quali hanno costruito le loro fortune.
Al vertice di Copenaghen non saranno presentate soluzioni innovative e il massimo che è lecito attendersi è qualche impegno su base nazionale alla riduzione delle emissioni e qualche elemosina ai paesi più colpiti dal clima imbizzarrito. Il risultato più probabile e atteso è quello di un documento che impegni i firmatari ad accordi futuri, non esattamente quello che sarebbe lecito attendersi dai capi di Stato riuniti al capezzale del pianeta. Si procede in ordine sparso e se Germania e Cina si segnalano per gli investimenti nelle energie rinnovabili, ci sono paesi come l'Italia nei quali la classe politica non è riuscita a pensare niente di più “pulito” della costruzione di centrali nucleari (già vecchie) e centrali termiche.
Come al solito tutti cercheranno di privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, che in questo caso sono i danni all'ambiente e alle popolazioni colpite dalle bizze del clima o quantomeno di pervenire ad accordi che non mettano a rischio lo status quo dell'economia globale, unico vero totem intoccabile anche ora che la crisi ne ha dimostrato i limiti l'elevata pericolosità. Il mito della “crescita” si è rivelato effimero, ma ancora il requisito fondamentale di qualsiasi accordo è che si favorisca proprio quella “crescita” che nel decennio passato ha visto sacrificato sul suo altare ogni ipotesi di sviluppo diverso.
La soluzione empiricamente più soddisfacente, quella di ridurre drasticamente tutte le emissioni, non solo quelle di Co2 e non solo quelle in atmosfera, non è in agenda e l'aver limitato la questione alla Co2 è sicuramente il maggior successo registrato dalle grandi concentrazioni economiche. Le soluzioni praticabili esistono, ma come sempre non esiste il consenso necessario ad adottarle e ogni trattativa è destinata ad infrangersi contro robusti interessi particolari.
Perché la cultura di quelli riuniti a Copenaghen è la stessa di quelli che progettavano disastri a Seattle e perché la definizione del senso, i media e le carriere politiche sono ancora e forse più d'allora, condizionati dalla forza delle grandi corporation e delle grandi concentrazioni finanziarie. Non aspettatevi nulla dal vertice di Copenaghen.
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di Alessandro Iacuelli
Morirono in tanti, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, 25 anni fa, a Bhopal. Così tanti che ci sono anche versioni discordanti sul numero di decessi. Quaranta tonnellate di isocianato di metile, prodotto dal locale stabilimento della Union Carbide, azienda multinazionale americana produttrice di pesticidi, situata nel cuore della città di Bhopal, nello stato indiano del Madhya Pradesh, furono rilasciate all'esterno, dopo l'esplosione di un serbatoio.
Il rilascio di isocianato di metile, iniziato poco dopo la mezzanotte del 2 dicembre 1984, uccise 754 persone, ma fonti non ufficiali ne stimano più di 10.000, avvelenandone da 150.000 a 600.000; nel novembre 2004 gli investigatori della BBC confermarono che la contaminazione era ancora attiva. Ed è attiva ancora oggi, quando le proteste in India e in tutto il mondo per il 25° anniversario della strage fanno notare che il sito non è stato ancora decontaminato e fa nuove vittime.
La produzione dell'impianto aveva subito fortemente la crisi della chimica del 1982. Fino al punto in cui, nell’estate '83, la Union Carbide sospese la produzione in previsione della definitiva chiusura dell'impianto per poi trasferirlo in altri paesi. Sessantatre tonnellate di isocianato di metile restarono stivate come scorta nei tre serbatoi sottoterra. Nell’autunno del 1983 gli impianti di sicurezza vennero disattivati: sospesa la produzione, la direzione della multinazionale non aveva alcuna intenzione di spendere denaro per mantenere in esercizio i sistemi di sicurezza. Anche la manutenzione ordinaria fu sospesa e la fiamma pilota della torre di combustione, ultimo sistema di sicurezza per bloccare eventuali fughe di gas contaminante, fu spenta. La fabbrica chiuse definitivamente il 26 ottobre 1984.
Una fabbrica ormai in disuso, nella quale mancava perfino un tecnico specializzato in grado di lavorare all'eliminazione delle impurità dalle tubature delle tre vasche contenenti isocianato di metile. Violando le norme di sicurezza, la sostanza pericolosa era conservata a temperatura ambiente invece che a 0 °C, con tutti gli allarmi disattivati. La sera del 2 dicembre il personale non specializzato di turno stava eseguendo il lavaggio dei tubi che collegavano le vasche, ma una delle saracinesche era talmente incrostata da non permettere il deflusso dell'acqua, e la sua pressione iniziò ad aumentare vertiginosamente.
Proprio a causa del degrado dell'impianto, le tubature non bene isolate causarono la fuoriuscita dell'acqua che scorreva verso la cisterna piena di sostanza tossica. Verso la mezzanotte alcuni operai di guardia avvertirono uno strano odore nell'aria che ricordava vagamente quello di cavolo lesso: è l'odore dell’isocianato di metile allo stato gassoso. L'acqua era arrivata nella vasca reagendo con il suo contenuto, e le 42 tonnellate di isocianato si disintegrarono in un'esplosione fortemente esotermica che trasformò rapidamente il liquido in un vortice gassoso.
La pressione salì di colpo a 4 bar, sufficienti per sfondare le valvole della torre di decontaminazione e trasformarsi in un vero e proprio geyser velenoso. Il resto lo fece il vento: la nube assassina fu spinta direttamente verso i quartieri della città e si abbatté silenziosamente sui suoi abitanti. L'isocianato di metile, a dire il vero, non è una sostanza velenosa, ma a contatto con l'acqua reagisce e la reazione produce acido isocianico. Il destino di Bhopal era segnato: quella notte sulla città venne a piovere. Nelle strade le persone morirono colte da spasmi, con polmoni e occhi in fiamme. Gli ospedali non ressero l'urto di migliaia di persone in agonia, accecate, che morivano soffocate una dopo l'altra.
Oltre 100.000 persone vennero contaminate. Un abitante su tre inalò acido isocianico. I lavoratori abitavano in molti negli slum adiacenti alla fabbrica, vere e proprie bidonville che non offrivano certo alcuna protezione. Ancora oggi, 25 anni dopo, 30.000 persone vivono attorno al luogo dell'esplosione, mentre 5.000 tonnellate di rifiuti sono sepolti dentro la struttura, inquinando ancora l'acqua e i terreni. Intorno al sito pascolano le capre e non è infrequente che vadano a giocare i bambini. Circa 100.000 persone soffrono di cancro, tubercolosi e altre malattie, ma a onor di verità oggi è la "seconda generazione" dei sopravvissuti ad essere la più colpita. Molti bambini nati dopo la tragedia hanno deformità molto gravi e danni al cervello.
Ora la ex fabbrica è stata venduta e la nuova gestione, la Dow Chemical, che dichiara di non essere responsabile della tragedia: all'epoca era gestita dalla Union Carbide, che nel 1989, ha risarcito le vittime con la somma di 470 milioni di euro, una somma di quasi 6 volte inferiore a quella stimata necessaria per la compensazione. È stato molto difficile per la gente, povera e analfabeta, il ricorso agli avvocati, ai medici, ai mediatori, per far valere le sue ragioni. Alcune persone non hanno ottenuto niente, a causa della corruzione o perché la loro richiesta è stata negata dai funzionari, con il pretesto che sui loro nomi c'erano errori di ortografia.
Le cause contro il disastro sono ancora in corso in diverse città dell'India e degli Stati Uniti, ma il governo di Nuova Dehli parteggia per la Dow Chemical, perché ha paura di scoraggiare le imprese straniere ad entrare con nuovi investimenti nel Paese. Così, il governo non ha ritenuto opportuno chiedere l'estradizione dell'ex amministratore delegato della Union Carbide, Warren Anderson, né tanto meno di bonificare il sito, perché lo ritiene ufficialmente non inquinato. A sua volta, la Dow Chemical sta ancora cercando di rafforzare la sua presenza nel subcontinente moltiplicando i progetti di ricerca.
Per celebrare il 25° anniversario del disastro, diverse ONG e associazioni delle vittime hanno deciso di intensificare le loro azioni di protesta. Il 19 novembre, centinaia di persone si sono riunite fuori della sede della Dow Chemical di Nuova Delhi e altre manifestazioni sono previste in 80 città indiane e 800 sedi in tutto il mondo, per la settimana del 3 dicembre. Per non dimenticare Bhopal.