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di Mario Braconi
Quando parliamo di inquinamento e di emissioni pericolose per l'atmosfera, pensiamo ai "soliti sospetti": gli effetti della combustione dei combustibili fossili che alimentano le nostre automobili, i camion che portano le merci nei negozi dove ci serviamo, gli impianti di riscaldamento di case ed uffici, le turbine degli aerei che ci scarrozzano da una parte all'altra del globo in una manciata di ore. E' molto raro sentir parlare del trasporto per via marittima, in parte per l'obiettiva scarsa "visibilità" mediatica di questa importantissima industria, ed in parte grazie alla "riservatezza" della sua lobby.
Non è certo un caso se l'industria del trasporto aereo e navale sono esplicitamente esonerate dalle misure previste dal protocollo di Kyoto. Mentre però le compagnie aeree, prima della Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite per l’Accordo sul Cambiamento Climatico che si terrà a Copenhagen a partire dal prossimo 7 dicembre, hanno deciso spontaneamente di tagliare le loro emissioni del 50% entro il 2050 (non esattamente da domani mattina, insomma), i rappresentanti del trasporto marittimo, per bocca di una loro portavoce, hanno confermato che si guarderanno bene dal mettere in atto iniziative di buona volontà dello stesso tipo.
Le posizioni della IMO (International Maritime Organization), una agenzia specializzata delle Nazioni Unite con il mandato di costruire e mantenere un sistema di regole per il business navale sono una vera minaccia per l'ambienete. Secondo l'ambientalista britannico Jonathon Porritt, infatti, sui temi ambientali "l'IMO sta puntando i piedi e i progressi sono stati eccessivamente lenti". In effetti, anche a causa delle resistenze di Arabia Saudita, Cina e India, nel corso del meeting dello IMO dello scorso luglio, i suoi delegati nazionali sono riusciti ad approvare solamente un accordo tecnico non vincolante per ridurre le emissioni delle navi che provocano effetto serra.
Chiacchiere, qualche volta verniciate di un "verde" pallido, come quelle contenute nelle dichiarazioni del Segretario Generale dell'IMO Efthimios Mitropoulos: "Come organizzazione ci stiamo fortemente e coerentemente impegnando per proteggere l'ambiente che ci circonda". Peccato che, secondo i calcoli di Fred Pearce, consulente di The New Scientist su tematiche ambientali, in mancanza di una qualche regolamentazione più stringente, le emissioni di CO2 prodotte dall'industria del trasporto navale (già oggi il 3% del totale) sono destinate a triplicare di qui al 2050.
Fin qui per l'effetto serra. Ma le grandi navi non si limitano ad immettere ogni anno nell'atmosfera un miliardo di tonnellate di ossido di carbonio: riempiono anche l'aria di fumi pericolosi e di anidride solforosa. Con un danno ambientale incalcolabile, viste le dimensioni delle cosiddette super-navi che solcano i nostri mari e il tipo di combustibile che esse impiegano. I prodotti di massa diffusi in Europa e negli USA vengono prodotti nelle cosiddette power-house cinesi. Lo scarto, l'Europa e gli Stati Uniti lo rispediscono (anche) in Cina. Se gli USA e l'Europa fossero un corpo umano, la Cina sarebbe l'orto che produce il suo cibo e che accoglie i suoi liquami come concime.
Una dinamica perfettamente esemplificata dalle rotte seguite, ad esempio, dalla Emma Maersk, una delle sette super-navi sorelle della danese Maersk, un colosso da 61 miliardi di dollari di fatturato, primo operatore mondiale nel trasporto dei container. La Emma Maersk (che in Gran Bretagna viene anche chiamata scherzosamente SS Santa, da Santa Claus) è la nave che ad ottobre porta dalla Cina in Occidente i prodotti destinati a diventare i nostri regali di Natale; al momento, dopo aver lasciato il porto di Algeciras in Spagna, carica di carta, plastica e materiale elettronico da riciclare, si sta dirigendo verso il porto di Yantan nella Cina meridionale.
La Emma Maersk è una nave ciclopica, talmente immensa che sembra appartenere più alla fantascienza che al mondo reale: lunga 397 metri, può trasportare fino a 14.000 container alla velocità massima di 25,5 nodi (poco meno di 50 chilometri l'ora). E' dotata di sei motori, un turbodiesel a due tempi Wärtsilä-Sulzer, alto 13,5 metri da 109.000 cavalli e cinque propulsori Caterpillar, che assieme sviluppano 40.000 cavalli. Il solo Wärtsilä-Sulzer è in grado di divorare poco meno di quattro litri di olio combustibile denso al secondo. Già, perché le super-navi utilizzano lo scarto della produzione di petrolio, "praticamente quello che resta dopo che tutti i combustibili più leggeri sono stati estratti dal greggio.
E' catrame, lo stesso dell'asfalto. Il combustibile più economico e più sporco al mondo", spiega Christian Eyde Moller della DK, società di trasporti di Rotterdam. E' sempre la IMO a consentire alle navi di impiegare olio combustibile con percentuali di zolfo che possono arrivare al 4,5%, cosa che, nota Fred Pearce, corrisponde a 4.500 volte il livello ammesso dall'Unione Europea per qualsiasi automobile. Così ognuna di queste super-navi emette oltre 5.000 tonnellate di anidride solforosa l'anno, come 50 milioni di auto medie messe assieme. Se è vero che in giro per il mondo circolano circa 800 milioni di autoveicoli, bastano 16 Emma Maersk a produrre tanto veleno quanto fa l'intero parco auto mondiale.
La licenza ad inquinare allegramente il pianeta concessa dalla IMO ha un suo costo in termini di vite umane: secondo il professor James Corbett, dell'Università del Delaware, il numero dei morti per malattie connesse all'esposizione allo zolfo e al fumo delle super-navi si aggira attorno alle 67.000 unità all'anno. Cifra destinata ad aumentare fino a toccare gli 87.000 nel 2012. Per dire quanto siano credibili le parole di Efthimios Mitropoulos, solo l'anno scorso la IMO ha determinato che, dal 2012 in poi, l'olio pesante per navi non dovrà contenere più del 3,5% di zolfo, anche se l'obiettivo finale è arrivare allo 0,5%. Se si arrivasse a questo livello, secondo Corbett, il numero dei morti verrebbe dimezzato.
Non esistono ragioni che impediscano il passaggio a combustibili più puliti per le navi, a parte ovviamente considerazioni economiche. Eppure l'IMO ha concesso alle compagnie di trasporto ben dodici anni per adeguarsi, sempre che la "verifica di fattibilità" fissata per il 2018 dia esito positivo. Peccato che nel frattempo, secondo i dati di Corbett, a causa dell'inquinamento prodotto dalle navi sarà morto un altro milione di persone.
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di Rosa Ana De Santis
Quando si parla di ambiente, di solito siamo abituati a sentirne parlare fuori dalle dinamiche della politica e dell’economia, come una sorta di decalogo delle buone intenzioni, ma Padre Alex Zanotelli racconta, dalle prima battute, la crisi del pianeta intimamente legata agli errori e agli orrori di una certa finanza e di una specifica avidità occidentale. Lo fa a pochi giorni dal vertice sul clima che si terrà a Copenhagen, in un piccolo comune alle porte di Roma, Lanuvio, dove il missionario comboniano ha incontrato i cittadini dell’Associazione "Pane e Rose" e parlato dello scenario drammatico della crisi ecologica.
Le parole e gli argomenti presentati, Padre Alex ce li ha negli occhi. Un patrimonio di esperienza che solo un piccolo missionario sceso nell’inferno degli uomini sa raccontare senza rinunciare alla speranza del riscatto e al paradiso in terra di quella che lui chiama la “civiltà della tenerezza”.
Copenhagen non è una conferenza come altre. Bisognerà raggiungere una soluzione e trovare un accordo. Gaia è bollente e la sua febbre va abbassata. Bisogna rimanere entro e non oltre i 2 gradi centigradi di aumento della temperatura e bisogna fissare almeno al 40% la riduzione del gas serra per evitare catastrofi. Il tempo a disposizione non è molto: nove anni fa, a Kyoto, si propose un tetto di riduzione del 5%, ma gli Usa di Bush non firmarono. Oggi, siamo ormai alla necessità di portare al 40% la riduzione dei gas serra.
Sarà difficile trovare un accordo proprio con i nuovi motori che iniziano ad affacciarsi nel mercato dell’economia che conta. Brasile, India e Cina non staranno a guardare la manovra di rallentamento forzato ora che è il loro turno di produrre e consumare. Sulla partecipazione di Obama al summit e quindi sul ruolo degli Stati Uniti, si gioca l’unica possibilità di trovare soluzioni fattibili e non vaghi annunci programmatici. Ma Obama, pare, non andrà.
A pagare la crisi del pianeta saranno i nostri figli e il patto generazionale che sta saltando sotto i nostri occhi è anch’esso un problema di giustizia. Da un lato le responsabilità comportamentali dei singoli, dall’altro le colpe senza appello di quello che la gente del Rione Sanità, dove ora Alex vive, chiama “o sistema”. Governi intrappolati in un potere finanziario occulto che stritola le ragioni della politica. Soldi che circolano nelle mani di 300-400 famiglie al massimo che detengono la ricchezza di tutti. Soldi che sono circa 4 volte più del PIL mondiale, che viaggiano senza controllo e che nessuno sa dove vadano a finire. La derisa TOBIN TAX a questo doveva servire. A stanare le mafie.
I paesi del Sud Mondo, prima dominati da un esplicito colonialismo territoriale, ora diventano serbatoi dove il Nord va a comprarsi le bioenergie, il futuro insomma, mentre impone loro limiti per la crescita economica e i suoi effetti ambientali. Un corto circuito da cui i paesi in via di sviluppo non hanno via d’uscita. L’Occidente prosegue indisturbato in questa reconquista, ben protetto dal potere delle armi. E se sono numerose le inchieste giornalistiche sul giro degli affari nella produzione e nel commercio delle armi, tacciono troppo spesso le penne sull’impatto enorme che esse hanno sull’ecosistema.
La crisi planetaria non sta solo nei 5 km di aria che circondano la Terra e che stanno schiacciando la crosta terrestre causando il surriscaldamento. A rischio è l’acqua, diritto di tutti, è diventata merce e bene economico e il dominio del business sulla politica attraverso la mercificazione dell’acqua è davvero lo scacco al re. Le multinazionali dell’acqua sanno di avere per le mani qualcosa che vale più del petrolio e hanno già iniziato la corsa per una competizione che gronderà di sangue. Gli assetati del pianeta.
E’accaduto in Italia nel silenzio generale. In poche mosse che non hanno scatenato proteste nemmeno nella Chiesa che, con l’ultima Enciclica papale, Caritas in veritate pure non ha mancato di coraggio nel riconoscere le immoralità dell’economia globale. Come sui rifiuti anche in questo caso il nostro Paese arranca in un ritardo di consapevolezza generale che è la nostra prima condanna.
La privatizzazione dell’acqua in Italia comincia formalmente il 6 agosto 2008 con l’articolo 23 bis del decreto 133 di Tremonti che invitava tutti i Comuni entro il 31 dicembre 2010 a mettere a gara la propria acqua. Poi il 9 settembre di quest’anno con il decreto Fitto- Calderoli, che ha fissato al 40% la presenza dei privati nei consorzi di gestione e produzione, vengono azzerate le vecchie municipalizzate. Dietro le multinazionali dell’acqua - Veolia in testa, Perrier, Vittel, Danone e Nestlè - ci sono le banche e l’alta finanza. Prima di architettare il business dell’oro blu, le aziende sono entrate nelle case di tutti gli italiani con la pubblicità dell’acqua minerale.
E’ stato questo il cavallo di Troia. Convincerci che essa fosse una merce da supermercato e che quella acquistata fosse migliore di quella libera garantita per legge a tutti. E a quanti dicono di non avere un’acqua di buona qualità in casa - ipotesi peraltro tutta da dimostrare - é stato insegnato che la soluzione fosse comprarla in bottiglia - rigorosamente di plastica - piuttosto che esigere di averla in casa come deve essere.
Ci sono 400 mila firme per bloccare questo iter e nei Comuni dove l’acqua è privata le bollette sono già da capogiro. A quei cittadini che non ce la faranno a sostenere il costo di questo servizio necessario verrà data l’elemosina di un’altra social card? Ma l’acqua non è un bene come altri. La filosofia greca e la scienza ci insegnano che essa è l’origine della vita. Elemento fondamentale dei nostri corpi. E quando la politica vende la vita di tutti agli affari, essa ha rinunciato ai suoi compiti fondamentali e ha svuotato la democrazia di anima. L’acqua, dice Padre Alex, deve essere pubblica, al minor costo possibile (perché essa non è merce da vendere e su cui fare guadagno), e non deve essere gestita da Spa.
La partecipazione attiva dei Comuni e dei cittadini è l’unico antidoto per non cadere vittima dell’Impero o dell’ingenua Utopia. Il caso ce l’abbiamo avuto tutti sotto gli occhi. Napoli sommersa dai rifiuti e la Campania ridotta nel tempo a deposito di rifiuti tossici con omertà di tutti i colori politici. Alleanza dei Casalesi e degli imprenditori a caccia di competitività. Silenzio dei governi in carica. La soluzione del Decreto 90 del governo Berlusconi con la proposta dei 4 inceneritori metterà la Campania nelle condizioni di dover importare rifiuti da altre regioni per utilizzare la piattaforma della combustione e soprattutto di perpetuare una cattiva politica sui rifiuti che deresponsabilizza i cittadini e occulta i misfatti delle grandi discariche. Nessuna questione è all’ordine del giorno sulle diossine liberate che continueremo a respirare. Le prossime vittime saranno il Lazio e la Calabria.
Nessuno parla della via dei “rifiuti zero”. L’obiettivo del 70% di raccolta differenziata sarebbe così articolato: 40% di umido che torna all’agricoltura, 30% di secco che va all’industria, raccolta porta a porta con cooperative e qualche posto di lavoro in più, sobrietà dello stile di vita e quindi nuova attitudine al consumo. Portare questo dentro il Parlamento non significa tenere l’ennesima lezione di qualche accademico dell’ambiente, ma urlare l’emergenza della giustizia e toccare la vita di tutti. I morti di tumore in Campania, l’amianto galleggiante da cui vengono sulle nostre tavole tanti prodotti (acqua compresa), le finte ecoballe di san Giuliano (14 km di lunghezza per 4 di larghezza) e la deturpazione della nostra terra, hanno portato tanti cittadini in piazza e non c’è altro modo di parlare di ambiente che non sia denunciare, protestare, organizzarsi per azioni politiche continue e massiccie dal basso.
Alex Zanotelli dice di essere tutte le persone che ha incontrato nella sua vita. Dalle baracche del Kenya ai ragazzi di Napoli disperata. E tutte quelle storie sono lì. Nell’anima e nello sguardo di un cristiano che ha capito che la conversione di un’anima senza la missione politica non porta ad alcuna rivoluzione. Dalla conversione di San Paolo alla politica il filo conduttore è uno ed è la giustizia. E la vita di Padre Alex ci racconta quanto sia scomodo testimoniarla davanti al potere.
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di Liliana Adamo
Il Sahara si apre agli occhi attraverso le montagne dell’Acacus e dei wadi Mathendush, ma valicando le dune, di sorpresa ecco i laghi Mandara, Gabra’Un, Umm El ma e le maestose dune rosse dell’Erg di Marzuk. Un territorio policromo, differente nelle sue forme e strutture: si levano archi, torrioni, pinnacoli, come in una grande architettura naturale, vere cattedrali di roccia. In Fezzan, regione sahariana della Libia, la natura si è divertita a creare scenari unici e irripetibili. I laghi azzurri sono incastonati fra dune color zafferano; le oasi, come quella di Giarabub, conservano conchiglie fossili intarsiate in rocce bianche come alabastro; i crateri, come la spettacolare bocca del Wan En Namus, nei pressi della grande oasi di Cufra, hanno perfetti coni vulcanici circondati da sabbie corvine, laghi e palmeti, luoghi assolutamente magici che sembrano partoriti da un asteroide alieno.
Ai bordi di Guellemin e Ouarzazate, in Marocco, o come altri sostengono, più a sud, da Tan-Tan e Zagora, il Sahara segna a nord la sua linea estrema. Anche qui l’effetto serra è causa di un esito antagonista: aumentano le piogge, ma in egual misura, anche la vaporizzazione che diventa più forte dell’acqua fruibile dal suolo. Scompare molta fauna sahariana: le grandi antilopi, come l’Oryx e l’Addax, la gazzella Dama e lo struzzo, ghepardi e iene sono minacciati d’estinzione. La gazzella Dorca, tanto diffusa negli anni ’50 é diventata rara: troppo facile cacciare in 4x4! Soltanto la piccola fauna riesce a sopravvivere nei grandi Ergs, come il Fennec, che spunta dal suo covo durante le ore notturne per cercare cibo.
E poi ci sono le popolazioni nomadi; vivono nel Sahara occidentale, parte integrante di svariate etnie. Sono autoctoni della regione di Zagora, insieme agli “Aarib” (arabi sahraoui della regione di Mhamid). Altri gruppi etnici originari sono i Tekna (da Guelmim a Laayoune), i Reguibate (regione di Laayoune, Smara) e quelli degli Oulad Delim (presenti a sud di Dakla), parlano un dialetto arabo, lo “Hassanya“, l’equivalente dei popoli mauritani. Storicamente sono indicati come uomini blu per gli abiti color indaco, come quelli dei Tuareg, ma non confondeteli con il mitico popolo nomade del Sahara, perché, di sicuro, nessun Tuareg affermerebbe d’essere originario del Marocco e difatti, non lo sono.
L’Erg Chebbi è percorso da dune e altipiani rocciosi scolpiti dal vento, oasi dimenticate tra rocce e fossili che riportano in vita gli oceani rimossi dalla sabbia di quattrocento milioni d’anni fa. Luogo sacro per i nomadi che lo attraversano, grandioso e impenetrabile, l’Erg Chebbi, non è soltanto un dedalo arenoso, un “grande vuoto sahariano”, ma uno scrigno mnemonico e antropologico ricco di pitture rupestri del Neolitico, gallerie di sale che un tempo attrassero i colonizzatori francesi, resti di dinosauri preistorici, pinnacoli di un insolito color grigio-azzurro, superstiti finali d’antiche barriere coralline, laghi salmastri dove, in condizioni favorevoli, trovano riparo i fenicotteri rosa, dal lungo viaggio migratorio.
Questo è il Deserto Occidentale, il Sahara del Marocco, prossimo all’Atlantico: un universo minerale che ha fecondato un intero continente, serbando ricchezze insperate, straordinarie. Ed è questo Sahara (più di nove milioni di chilometri quadrati “di terra poco costosa” come riporta - tout court - l’esplicitazione), oggetto d’attenzione per alcune grandi multinazionali.
Libia, Marocco, forse Algeria confluiranno nel polo attuativo per fucinare il più grande cartello energetico europeo. Venti aziende tedesche, tra cui Muenchner Rueck, colosso assicurativo, Siemens, Deutsche Bank e Rwe, secondo produttore tedesco per l’energia elettrica, stanzieranno 400 miliardi di euro per la costruzione di centrali elettriche solari in pieno Sahara, dove l’irradiamento per metro quadrato è 2,7 volte più elevato rispetto a quello europeo. Buone probabilità che alla mega iniziativa si aggreghino anche Italia e Spagna, mentre la Francia ne sarebbe esclusa perché fermamente favorevole alle sue centrali nucleari.
L’irradiamento sarà diretto a grandi superfici riflettenti che surriscalderanno un particolare lubrificante, il cui calore si trasformerà in vapore per attivare le turbine delle centrali; riproducendo a grandi linee, la medesima tecnologia solare installata vent’anni fa nel deserto californiano del Mojave (dove, secondo Sven Moormann, della Solar Millenium, gli specchi funzionano ancora come nel giorno della loro istallazione). Qualora il progetto teutonico, chiamato “Desertec”, andasse in porto, un’enorme distesa di pannelli insedierà gran parte del Sahara per fornire all’Europa energia elettrica in percentuale del 15% del suo fabbisogno complessivo. Per contribuire efficacemente alla lotta contro i cambiamenti climatici e per le nostre economie che hanno bisogno di nuovi impulsi, secondo Thorsten Jeworrek, presidente della Muenchner Rueck, auspicando la prima fornitura in Germania, entro dieci anni.
L’Europa necessita d’energia e ha impellenza d’averne, approntando alle nuove fonti energetiche in un continente dove gran parte della popolazione non sa neanche cosa sia l’elettricità. Andree Bohling di Greenpeace e Regine Gunther, esperta di cambiamenti climatici, esponente di spicco del WWF in Germania, approvano la mozione “Desertec”: “Si va nella giusta direzione”, importante che l’Africa ne tragga il suo tornaconto.
Riflettiamo: per la realizzazione e la manutenzione di un progetto di tali dimensioni quale sarà il prezzo pagato dall’impatto ambientale? Secondo Hermann Scheer, socialdemocratico, sostenitore dell’energia verde, questa mega operazione a cavallo tra business schietto e green economy, è totalmente superflua. Perché occupare (letteralmente), milioni di chilometri quadrati, circa nove, mentre sono sufficienti trecentomila chilometri quadrati per soddisfare l’intero fabbisogno energetico mondiale? Basterà dotare di pannelli fotovoltaici l’intero sistema edilizio tedesco e di altri paesi d’Europa.
Il vecchio Occidente per trainare il suo obsoleto e zoppo apparato sociale ha spremuto comunità e distrutto interi ecosistemi terrestri e marini. Le trivellazioni petrolifere hanno dato l’assalto alle ultime aree incontaminate del pianeta, come in Alaska, per esempio o per l’intera Penisola Arabica, o, ancora, per lo sfruttamento intensivo alle risorse (petrolio e gas) in Siberia. Possibile che non si riesca a intravedere l’approssimarsi dei medesimi, grossolani errori anche per sostenere nuovi investimenti e acquisire energie pulite?
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di Alessandro Iacuelli
Novecentotrentunomila metri quadri. Potrebbe essere la superficie di un centro abitato, o di una grande area boschiva. Invece è la grandezza dell'area, di cui una parte in concessione demaniale, sequestrata dalla Guardia di Finanza di Taranto all'interno del porto mercantile della città pugliese, su disposizione dell'Autorità Giudiziaria. Il provvedimento reca la firma del procuratore della Repubblica, Franco Sebastio, e dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino. Il motivo? In quest'area così ampia erano stati stoccati rifiuti speciali sia solidi sia liquidi, senza le dovute autorizzazioni, soprattutto senza le dovute precauzioni per la salute. Tre persone sono state denunciate.
Il provvedimento è stato emesso al termine d’indagini che hanno accertato lo stoccaggio di rifiuti speciali, anche di natura tossica, il carico e lo scarico di materie prime e prodotti finiti dell'industria metallurgica in violazione delle norme poste a tutela dell'ecosistema marino e terrestre. Anche i rifiuti sono stati sequestrati dalle Fiamme Gialle, assieme ai sistemi di canalizzazione presenti nell'area del porto. Questo perché si sta procedendo alla necessaria verifica, condotta attraverso l'esecuzione di prelievi di campioni, in collaborazione con i tecnici dell'Arpa Puglia, dell'impatto ambientale sui fondali marini adiacenti. Inoltre, sono in corso anche accertamenti di carattere fiscale. I militari della Finanza stanno operando insieme a unità aeree e navali.
All’esame dei magistrati ci sono i pontili del porto di Taranto. Con il rischio che fin troppe quantità di sostanze nocive siano finite in mare, nel porto mercantile. Non si tratta di pontili qualunque. Sono il secondo, terzo, quarto e quinto sporgente del porto, il che fa diventare il sequestro un fatto assolutamente clamoroso: sono i pontili utilizzati dall'ILVA di Taranto per lo sbarco delle materie prime e l'imbarco dei prodotti finiti. Il provvedimento giudiziario, si legge in comunicato reso noto dalla direzione dell'ILVA, contesta "l'assenza di un sistema per la raccolta ed il trattamento delle acque meteoriche oltre alla gestione non autorizzata di materiali di risulta presenti sui pontili. In questa fase di esclusivo accertamento dei fatti ipotizzati l'ILVA sta fornendo ampia collaborazione al personale della Guardia di Finanza per l'espletamento delle indagini di rito e per l'esecuzione del mandato di sequestro probatorio". Infine, “l'Ilva confida, al fine di accertare l'assenza di responsabilità, in una rapida conclusione delle indagini".
All'arrivo dei militari, la mattina del 3 novembre scorso, l'area era piena di rifiuti speciali che, a causa delle precipitazioni autunnali di questi giorni, finivano nei sistemi di canalizzazione delle acque reflue, che vanno in mare. Nonostante questo, l'unica autorizzazione mostrata dall'ILVA è stata quella per lo "scarico di acque reflue domestiche". Come dire: acque di scolo della pasta dalle pentole ed acqua con detersivo dopo aver lavato i piatti, due tipici esempi di acque reflue domestiche. Peccato che invece si tratti di un'acciaieria, i cui scarti polverosi sono costituiti da metalli pesanti, pericolosi per inalazione e per ingestione.
Sono contestati anche altri reati, come si legge nella disposizione di sequestro probatorio con facoltà d'uso: danneggiamento e realizzazione di opere abusive, oltre ad una lunghissima serie di violazioni in materia ambientale. Secondo le accuse, l'ILVA avrebbe agito nel porto senza le necessarie autorizzazioni. Le tre persone denunciate sono il direttore dello stabilimento siderurgico, Luigi Capogrosso, il responsabile area "sbarco merci", Giuseppe Manzulli, ed il responsabile dell'area logistica "prodotti finiti", Antonio Colucci. A dare il via alle indagini è stato il sequestro di alcune bricche, proprio nell'area portuale, a febbraio del 2009. Da quell'operazione si sarebbe poi risaliti alla mancanza delle autorizzazioni da parte dell'ILVA.
Tutto questo va a colpire una città già disastrata dal punto di vista ambientale, in buona parte già vittima proprio dell'ILVA. Lo stesso porto di Taranto non è nuovo ad illeciti ambientali: appena poche settimane fa, cinque container carichi di rifiuti speciali (complessivamente 124 tonnellate tra pneumatici fuori uso, scarti in gomma e pezzi di plastica) diretti in Vietnam, sono stati sequestrati nel corso di controlli doganali. Esaminando la documentazione di viaggio, si è scoperta una falsa indicazione del codice identificativo della tipologia dei rifiuti e del trattamento di recupero previsto dalla legge: il carico risultava diretto in Corea, mentre l'effettiva destinazione era il Vietnam, in violazione agli accordi tra l'Unione Europea ed il Paese Asiatico.
Il tutto in una città che non detiene solo il primato nazionale per la diossina, ma anche per il mercurio. Infatti, come si rileva dall'Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti, Taranto vede una dispersione in atmosfera per la grande industria italiana del 49% del mercurio emesso in tutta l'Italia, ma il dato più grave è l'aumento continuo di mercurio, soprattutto quello che finisce nelle acque antistanti la città. Infatti il mercurio in acqua è passato dai 118 chili del 2002 ai 665 chili stimati nel il 2005. Ed anche il mercurio proviene dal grande impianto siderurgico: l'ILVA, a livello nazionale, emette il 62,5% di tutto il mercurio stimato per la grande industria.
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di mazzetta
La giunta Alemanno ha sperimentato un sistema chiamato Luft (“aria” in tedesco) che montato sugli autobus serve a ripulire l'aria dalle polveri sottili. Detta così, la notizia suona positiva e più d'uno, in giro per la rete, ha vantato la sensibilità ecologica di Alemanno. Fatti un po' di conti, però, il sistema sembra del tutto inutile e c'è, forse, da discutere sull'uso delle risorse pubbliche per operazioni che sembrano più tentativi di greenwashing, che operazioni adatte a ridurre le emissioni in atmosfera. Il “lavaggio verde” è la modalità preferita dalla politica e dal commercio per darsi una patina di sensibilità ecologica. Una benzina appena meno inquinante diventa subito “verde”, un carburante può addirittura diventare “ecologico” se è raffinato dal grano invece che dal petrolio.
Anche se si presta a colpire l'immaginazione (“Il sindaco che pulisce l'aria), il principale problema del sistema “Luft" è concettuale. Il dispositivo è in pratica un aspirapolvere che dovrebbe trattenere in particolare le famigerate polveri sottili e anche le meno conosciute nano-polveri. Dove però la logica fa a pugni con la realtà è nell'idea che abbia senso spendere denaro ed energie per pulire l'aria invece che per cercare di non sporcarla. In questo senso, dotare gli autobus romani di enormi scatoloni con il sistema “Luft” sul tetto, ha lo stesso senso che avrebbe mettersi a raccogliere l'acqua con uno straccio mentre il rubinetto che allaga la casa continua a buttare acqua. Non dovrebbero esserci dubbi su quale sia la sequenza corretta, ma la politica trova sempre nuove strade per aggirare l'ovvio.
L'idea di filtrare l'aria sporca piace e trova finanziamenti. Li trova nelle pieghe dei provvedimenti contro l'inquinamento e trova anche accoglienza presso le amministrazioni, che possono dimostrare a poco prezzo e senza disturbare le abitudini dei motorizzati, il mercato dei carburanti, dando l'apparenza di curare la salute dei propri cittadini ed elettori. Così in alcune città sono spuntate delle edicole che in realtà sono “stazioni aspiranti” che filtrano l'aria e catturano le polveri. L'italico genio non conosce confini né ostacoli. Ma le emissioni inquinanti non si esauriscono con le polveri sottili, i filtri non catturano la CO2 e nemmeno la gran parte del minestrone di veleni che spediamo in atmosfera con la combustione e l'evaporazione di sostanze. Di sicuro non ripuliscono la vasta gamma di emissioni provocate dal traffico.
A stare ai dati forniti dal sito del comune di Roma, un “Luft” recupera “per ogni 100 autobus muniti di questo dospositivo (sic)... 824 grammi di polveri sottili al giorno, pari a tre quintali l'anno.” Che sono tre chili all'anno per ogni “Luft”. D'accordo che le polveri sottili sono pericolose e sospettate dei peggiori delitti, ma se per raccoglierne otto etti in un giorno si attrezzano cento autobus con un sistema che avrà bisogno di manutenzione, che pesa un centinaio di chili (e ne peggiora quindi i consumi) e che costa qualche migliaio di euro al pezzo (ventimila per la precisione), non sembra esattamente un'idea intelligente: il prezzo non sembra giusto nemmeno se le nano-polveri fossero pericolose quanto alcuni sostengono.
Sostituire un autobus a gasolio con uno a metano, tanto per stare nei dintorni, permette di risparmiare qualche tonnellata d’inquinanti in un anno. Restando al CO2, un'auto moderna e in regola con le ultime normative ne emette centoquaranta grammi a kilometro, che se quella stessa macchina fa 10.000 kilometri all'anno diventano millequattrocento kg. Quasi una tonnellata e mezzo. E questo solo per il CO2. Quanti milioni di tonnellate di inquinanti rilasciano in atmosfera i veicoli a Roma? Quanto pesano le nanoparticelle rilasciate in un anno nell'aria romana?
Un dettaglio non trascurabile sull'impatto che può avere un sistema del genere sull'insieme dell'aria romana, perché l'aria è un fluido e non è che il “Luft” si lasci dietro scie di aria pulita. Se un “Luft” tratta diecimila metri cubi di aria all'ora, c'è da dire che il volume dell'aria nel comune di Roma è di qualche miliardo di metri cubi solo a moltiplicare la superficie del comune per un'altezza di tre metri. Aria che continuerà ad essere sporcata dagli scarichi di milioni di veicoli quando mentre (nell'ipotesi più ottimistica) qualche centinaio di “Luft” girerà per Roma a caccia di farfalle.
A rendere il tutto più ridicolo c'è anche la questione del destino delle polveri raccolte dal sistema. Il Comune di Roma dice che ”Il funzionamento del dispositivo si basa sull'azione congiunta di elettrofiltri che isolano le microparticelle delle polveri dell'aria e degli altri inquinanti - segnatamente gli ossidi di azoto, di zolfo, gli Ipa e i pollini - e, successivamente, le abbattono tramite un sistema di ugelli, che spruzzano a pressione una soluzione salina a base acquosa, totalmente ecocompatibile.” C'è confusione, perché il signor Stefano Montanari, chiamato in qualità di esperto a consigliare la giunta capitolina dice invece sul suo sito: “...di acqua non ne va una goccia, essendo la pulizia eseguita con un sistema ad ultrasuoni. E le polveri? Dove finiscono le polveri catturate? Forse non ho gridato abbastanza forte: le polveri vengono compattate ad alta pressione e ci si fanno dei graziosi cubetti belli sodi da cui non esce nulla. E i filtri intasati? ... Inoltre, questi durano un anno, mentre gli elettrofiltri tengono le polveri appiccicate, e questo per non meno di sei mesi (ma probabilmente anche un anno), dopodiché il sistema viene lavato (niente acqua!). Nasce quindi il mistero della soluzione salina a base acquosa: era meglio se si spiegavano prima tra loro.
Stefano Montanari è un esperto delle polveri più fini che ci sono, è un “nanopatologo” e si occupa delle patologie provocate dalle “nanoparticelle”, sulle quali non è che ci sia una gran letteratura scientifica. La sua consorte è una scienziata che ha concluso una ricerca sul tema e Montanari ne era così entusiasta che ha convinto Beppe Grillo a indire una colletta e i suoi fan a sponsorizzare l'acquisto di un microscopio speciale da trecentomila euro per permetterle di andare avanti nelle ricerche. Poi il microscopio è finito ad un'università e sulla vicenda è calato il silenzio. Nel suo curriculum c'è anche la sua candidatura a premier alle ultime elezioni; se non ve ne siete accorti non è una colpa, era il candidato della lista “Per il Bene Comune”, creata proprio fidando sulla popolarità ottenuta attraverso il sito di Grillo. Ma non è riuscito a impensierire Berlusconi e Veltroni, lo 0.3% raccolto dalla sua formazione non ha portato in parlamento nemmeno un deputato. Ora Montanari riappare e forse il suo destino diventerà quello dell'ecologista-foglia-di-fico intruppato in un partito di destra.
Alemanno farebbe bene a cambiare consulenti e a chiedersi che senso abbiano gli orridi scatoloni sul tetto degli autobus, ma anche e se valga la pena di rischiare di passare alla storia dell'Urbe come il sindaco del “Luft”; forse non vale la pena di rischiare il ridicolo eterno ed universale per guadagnare qualche punto presso i romani sensibili all'inquinamento. Sicuramente non vale la pena di impegnare centinaia di migliaia di Euro per questo genere di esperimenti: il bilancio capitolino è già abbastanza sgangherato per infliggergli anche questa umiliazione.