L'elezione di Javier Milei in Argentina mi fa pensare all'effetto boomerang: qualsiasi cosa tu lanci ti torna indietro - o contro - con la stessa forza. La domanda è se gli argentini sono pronti a ricevere ciò che questa decisione porterà indietro. Un paio di anni fa, quando ho iniziato a guardare Milei in televisione, trovavo divertente la sua presenza, la sua gestualità esagerata, le frasi sopra le righe che osava pronunciare, la veemenza che emanava nelle interviste. Era colorato perché era così sfrenato. Impossibile non notarlo. Era prevedibile che sarebbe cresciuto come personaggio pubblico, ma non come futuro presidente.

All'inizio ho percepito Milei come un personaggio da stand-up comedy. Sembrava un comico che ha deciso di vestire i panni dell'ultradestra per inveire contro chi detiene il potere nel suo Paese da diversi anni. Ho visto qualcuno che si faceva beffe di ciò che molti considerano sacro, che si lasciava andare a ogni sorta di imprecazione in onda e che, sotto lo scudo dell'umorismo e del sarcasmo, gridava con occhi sguaiati le cose più politicamente scorrette per far scoppiare a ridere un pubblico che era immerso fino al collo nei problemi causati dalla classe dirigente corrotta.

I comici raccontano verità scomode per alcuni e per altri, mettono sul tavolo questioni rilevanti e attirano l'attenzione perché entrano in contatto con le persone attraverso quell'aspetto essenziale della vita che è la riflessione consentita dall'umorismo. Il punto è che Javier Milei, anche se potrebbe sembrare così, non stava acquisendo importanza nei media per essere il protagonista di una commedia. Era stato costruito come progetto presidenziale. E cominciò a guadagnare seguaci più velocemente di quanto molti sospettassero. 

I giornali riportavano notizie sul passato di Milei, sull'importanza nella sua vita del suo amato cane Conan e di sua sorella Karina (in quest'ordine, a quanto pare), pettegolezzi sulle decisioni che entrambi prendevano in base alle conversazioni che lei, come medium, aveva con animali vivi e morti. La cosa, per quanto delirante, stava diventando sempre più rumorosa.

Nell'ottobre dell'anno scorso, quando ho partecipato a un vertice mondiale sulla comunicazione politica a Buenos Aires, ho sentito diversi esperti parlare del legame di Milei con i giovani, di quanto fosse forte l'idea di una libertà che avanza con rabbia e slancio di fronte ai freni e alle ingiustizie installati da un kirchnerismo che li ha delusi e derubati del loro presente e del loro futuro.

Come molti, e di fronte al trionfo dell'ultradestra in vari Paesi del mondo, ho cominciato a guardare con più attenzione a quel Milei, quello che in un'intervista ha detto quasi a squarciagola che "la sinistra è una merda, non puoi darle un millimetro perché se gli dai un millimetro, lo prendono e ti distruggono. Non si può negoziare con la sinistra, non si può negoziare con quella merda".

Hanno iniziato a dargli molta copertura e non c'è da stupirsi. Uno che si scatena come fa lui in ogni occasione, diventa virale, è oggetto di meme, diventa una figurina che passa rapidamente sull'WhatsApp di milioni di persone.

Era impossibile non accorgersi di lui, le sue urla si riverberavano in chiunque lo sentisse, e ben presto ha fatto festa tra coloro che, come lui, pensano che quelli di destra "sono migliori in tutto", come ha letteralmente detto, "siamo moralmente superiori, siamo esteticamente superiori". Un bell'ossimoro per un uomo che sembra sul punto di esplodere quando parla, con il volto arrossato, la bocca che ringhia, i denti stretti, il suo istrionismo sfrenato, terrificante.

Ben presto ho smesso di trovarlo divertente. I suoi discorsi radicali e incendiari hanno cominciato a terrorizzarmi. Ancora di più quando ho messo le mani sul libro El Loco, di Juan Luis González, in cui rivela cose piuttosto preoccupanti sulla stabilità mentale ed emotiva di Javier Milei. Quando l'ho letto, mi sembrava impossibile che una persona con le caratteristiche di questo squilibrato potesse conquistare la presidenza di un Paese come l'Argentina, storicamente così legato alla psicoanalisi. Ma capire il business che ha portato a costruirlo come politico, a venderlo come candidato e a trasformarlo in un fenomeno rende più facile comprendere perché oggi sia il presidente votato da una maggioranza cieca che, ancora ubriaca di quello che considera un trionfo, non riesce a vedere il destino nero che li attende.

In El Loco González metteva in guardia dal "thriller tragicomico", come lo chiama nel prologo, che il Paese del Sud avrebbe affrontato in caso di vittoria di Milei, cosa che, quando il libro fu pubblicato, si poneva ancora come un interrogativo oscuro e inquietante: "Cosa succede se un Paese instabile ha un leader instabile?".

Oggi sembra una bugia, o uno scherzo di cattivo gusto, ma ha vinto la presidenza di uno dei Paesi più grandi dell'America Latina l'uomo che, secondo l'autore del libro, sostiene di aver lanciato la sua candidatura dopo che "il numero 1", cioè Dio, gli ha inviato un messaggio attraverso il suo cane morto con la sorella, la medium. Chi metterà Milei come ministri? Forse i quattro cani clonati del suo amato Conan.

Sembra incredibile, o uno scherzo di cattivo gusto, che in un Paese dove il voto è obbligatorio, la maggioranza elegga un essere che ha allucinazioni visive e uditive, e che saluta - nel bel mezzo di una riunione - un economista scomparso da anni. Questo mi è stato raccontato prima delle elezioni, a Buenos Aires, da un noto stratega politico che si è incontrato con Milei, il quale, di tanto in tanto, salutava il vuoto, affermando che Milton Friedman era lì. Ci credete? Un candidato alla presidenza può essere squilibrato, ma come potrebbe chiamarsi il 55% degli elettori che lo hanno eletto?

Sembra una bugia, o uno scherzo di pessimo gusto, che mentre continuano a comparire figli e figlie strappati dalle braccia dei padri o dal grembo delle madri per essere consegnati a persone senza cuore e senza scrupoli, l'Argentina elegga un uomo come Milei e il suo vicepresidente; proprio le due persone che parlano delle Madri di Plaza de Mayo come di un gruppo di donne isteriche, che hanno fatto troppo rumore per troppo poco. Sembra incredibile. Fa male che milioni di argentini dimentichino così in fretta, che neghino l'evidenza, che non abbiano il terrore di rivivere l'inferno che tante famiglie hanno vissuto.

Sembra incredibile, o un terribile scherzo, che la vicepresidente del Milei chieda la liberazione di persone che hanno commesso crimini contro l'umanità durante la dittatura militare. Lo fa proprio mentre il film "Argentina, 1985", che ritrae il processo alle giunte militari, vince importanti premi e viene applaudito da tutto il mondo. Non stavamo solo applaudendo un film: stavamo difendendo un Paese con persone etiche e responsabili, capaci di portare alla luce la verità e di rendere giustizia a chi ha messo in carcere i morti, i sequestrati, i torturati, gli scomparsi.

Ma anche il numero di persone scomparse durante la dittatura è messo in discussione da Milei e dal suo team. Negano che siano state 30.000, deridono, scherniscono, cercano di far sembrare 22.000 volte meno gravi le 8.000 che hanno nei loro conti.

Sembra una bugia. O uno scherzo di cattivo gusto. Ma è quello che ha vinto. E anche se Massa non era un candidato credibile o forte, perché è difficile dare credito a un uomo che ricopre il ruolo di Ministro dell'Economia di un Paese con un'inflazione alle stelle, in un governo disastroso, come quello di Alberto Fernández, almeno non parla con Dio attraverso il suo cane morto, il che è già molto, date le circostanze.

Il popolo rifiuta Alberto Fernández perché, tra i tanti errori, ha accettato senza fiatare il debito del FMI, denaro che si è perso come mercurio tra le dita di Macri e dei suoi compari. Eppure questo popolo rabbioso ha votato per Milei, che ha ricevuto l'appoggio dello stesso Macri. Questo non lo rende parte di quella "casta" infettiva che ha tanto criticato nella sua campagna elettorale? Come spiega Milei questo grossolano sodalizio con uno degli ex presidenti più corrotti che siano passati per la Casa Rosada? Ha intenzione di combattere la corruzione mano nella mano con i corrotti?

Già eletto, Milei parla di privatizzare tutto ciò che può essere privatizzato. Presto gli argentini impareranno cosa significa questo per la loro vita quotidiana: pagare l'istruzione, che oggi è gratuita, per esempio, il che renderà sempre più difficile la mobilitazione sociale, che è già un'utopia. Capiranno che la dollarizzazione non è così facile, né così positiva per le tasche di chi ha meno, come innocentemente pensano. E vedranno cosa significa quando Cina e Brasile usciranno dalla scena commerciale.

E quando il circo di Milei sembrerà loro una follia, quando si sveglieranno dal sogno surreale venduto loro dai media, quando si renderanno conto che l'esplosione della canzone di Bersuit Vergarabat, il cui copyright è stato usurpato da Milei nella sua campagna elettorale, è una realtà che nessuno vorrebbe, cercheranno di ribellarsi e allora, spero di sbagliarmi, arriverà la repressione.

Domenica scorsa Milei non ha vinto. Lo squilibrio ha vinto sulla ragione. L'ignoranza ha vinto sull'intelligenza. La rabbia ha vinto sul sangue freddo. L'intolleranza ha vinto sull'unità. Gli insulti hanno vinto sul dialogo.

Domenica scorsa, in Argentina, hanno vinto i media, presentando come opzione un uomo squilibrato. Ha vinto la casta, la casta di Macri, la casta del Fondo Monetario Internazionale, la casta che fa comodo a Wall Street e a Washington.

Domenica scorsa hanno vinto i social network, capaci ora di manipolare con stupidi video e meme le decisioni più importanti per la vita delle persone e i destini dei Paesi.

Domenica scorsa non ha vinto Milei: hanno perso gli argentini. E siamo in molti a piangere per loro. Piangiamo anche prima che il boomerang che hanno lanciato torni indietro con la stessa forza con cui l'hanno lanciato e rompa i denti a tutti.

Killers of the Flower Moon è il nuovo attesissimo film del premio Oscar, Martin Scorsese, presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes. All’inizio del XX secolo la scoperta del petrolio trasformò l’esistenza degli Osage che diventarono da un giorno all’altro immensamente ricchi. L’improvviso benessere di questi nativi americani attirò l’interesse dei bianchi che iniziarono a manipolare, estorcere e sottrarre con l’inganno i beni degli Osage fino a ricorrere all’omicidio. Tratto dall’acclamato, omonimo, best seller di David Grann, Killers of the Flower Moon è una storia d’amore e tradimento in un intrigo avvincente per la scoperta della verità.

Un film intenso e ben costruito, grazie anche ad un cast stellare con i premi Oscar Robert De Niro e Leonardo Di Caprio, i quali danno vita ad un crime epico basato su una storia vera: una sequenza di omicidi brutali, e misteriosi, nota con il nome di “regno del terrore”, che insanguinarono la nazione Osage negli anni ’20. Fra i protagonisti anche il candidato all'Oscar Jesse Plemons, Lily Gladstone e Brendan Fraser, vincitore agli Academy Award 2023 per The Whale.

Un film che mette chiaramente in risalto il lato più oscuro della conquista bianca sui nativi americani, il senso di disprezzo e di superiorità che vuole giustificare comportamenti criminali e corrotti, macchiando l'animo umano di un'onta che sarà impossibile eliminare.

Scorsese, oltre alla regia, firma anche la sceneggiatura insieme a Eric Roth.

Il film uscirà nelle sale italiane il 19 ottobre con 01 Distribution, in contemporanea con l’uscita mondiale.

 

Killers of the Flower Moon (Usa 2023) 

Regia: Martin Scorsese

Cast: Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons

Distribuzione: 01 Distribution

Mentre in Ucraina i russi aggiustano il tiro sulle difese contraeree di Kiev e fanno fuori il sistema Patriot fornito dagli americani (che però la propaganda segnala soltanto “danneggiato”) e mentre il presidente Zelensky torna a casa con il carniere pieno di colombe abbattute e promesse di guerra, il New York Times (16 maggio) pubblica un appello al negoziato e alla pace in Ucraina lanciato da 15 esperti militari, politici e accademici statunitensi. La cosa passa ovviamente quasi inosservata in Italia e non è gradita nemmeno negli Stati Uniti.

Non meraviglierebbe se la pubblicazione sul prestigioso quotidiano fosse stata possibile dietro un qualche “compenso”.

Da tempo la libertà di espressione è proporzionale a quanto e quale sistema di pagamento si preferisce. Anche in Europa. Non meraviglia che tra i firmatari ci siano anche militari di alto livello. Sanno valutare la situazione e soprattutto capiscono i limiti e i rischi della propaganda, specialmente se si finisce per credere alla propria. E non meraviglia che a commentare il “manifesto” siano stati proprio Medea Benjamin e Nicolas Davies sul sito di Codepink.

Il nome della famosa associazione richiama come sfida e codice il rosa (pink) del femminismo e del dispregiativo affibbiato ai liberal e progressisti americani (pink commies, “comunisti rosa”, appunto). I due plaudono all’iniziativa e fanno notare come la politica occidentale abbia “intrappolato Zelensky” tra la necessità di vantare successi per avere altre armi e lo “scioccante” costo delle perdite umane che sta sostenendo. “La difficile situazione di Zelensky è certamente colpa dell’invasione della Russia, ma anche del suo accordo dell’aprile 2022 con il diavolo nelle sembianze dell’allora primo ministro britannico Boris Johnson, che promise a Zelensky che il Regno Unito e il “collettivo Occidente” lo avrebbero sostenuto a lungo termine per recuperare tutto l’ex territorio ucraino, purché l’ucraina avesse smesso di negoziare con la Russia”. Da allora Zelensky ha cercato disperatamente di convincere i suoi sostenitori occidentali a mantenere la promessa esagerata di Johnson, “mentre lo stesso Johnson”, costretto a dimettersi da primo ministro, ha approvato un ritiro russo solo dai territori invasi il 2022.

Eppure quel compromesso era esattamente ciò che lui aveva fatto rifiutare a Zelensky nel 2022, quando la maggior parte dei morti in guerra erano ancora vivi. Da parte sua, il presidente Biden e altri funzionari statunitensi hanno riconosciuto che la guerra deve concludersi con un accordo diplomatico, ma alle condizioni di Kiev e hanno insistito sul fatto che stanno armando l’ucraina per metterla “nella posizione più forte possibile al tavolo dei negoziati”. Una frase fatta ormai ripetuta fino alla noia da tutti o quasi i leader e i burocrati europei.

Ma, si chiede Codepink, “come può una nuova offensiva con risultati contrastanti e maggiori perdite mettere l’Ucraina in una posizione più forte a un tavolo di negoziato attualmente inesistente?”. È quello che tutti si chiedono, tranne i governanti europei che stanno gettando benzina sul fuoco della guerra pompando la retorica “l’ucraina combatte per noi”.

Nessun europeo ha mai avuto bisogno che qualcun altro difendesse i suoi valori. Abbiamo sempre difeso da soli i nostri regimi, anche iniqui e oppressivi; abbiamo versato sangue per le mire dinastiche e di casta per 2000 anni. I cosiddetti Valori occidentali sono diventati i nostri valori quando siamo stati sconfitti e debellati, quando una parte minima delle nostre forze ha combattuto per la Libertà e la Democrazia. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo riscoperto i Valori europei non tanto per contrapporci a un’ideologia (nata e sviluppata in Europa) contraria a quella dei vincitori, quanto per assecondare la loro idea di democrazia e libertà. E anche nella contrapposizione nessuno ha mai minacciato la nostra “riscoperta”. Anzi, proprio con la divisione dei blocchi, nessuno è mai intervenuto militarmente quando venivano calpestati i diritti e le aspirazioni degli altri Paesi.

Furono le assicurazioni di sostegno occidentali a illudere i polacchi, i cecoslovacchi, gli ungheresi, i georgiani quando azzardarono le loro rivolte puntualmente soffocate con altrettante “operazioni speciali”. Sono state le politiche dell’unipolarismo occidentale a destabilizzare le regioni del mondo con le rivoluzioni colorate e profumate che non si curavano affatto della libertà e della democrazia di intere popolazioni costrette a godere del colore rosso-sangue e del tanfo di morte.

Gli esperti che hanno firmato l’appello pubblicato dal New York Times hanno ricordato che, “nel 1997, 50 alti esperti di politica estera Usa avvertirono il presidente Clinton che l’espansione della Nato era un errore politico di proporzioni storiche” e che, sfortunatamente, Clinton scelse di ignorare l’avvertimento. “Il presidente Biden, che ora sta commettendo il proprio errore politico di proporzioni storiche prolungando questa guerra, farebbe bene a seguire il consiglio degli esperti di politica di oggi contribuendo a forgiare un accordo diplomatico e facendo degli Stati Uniti una forza per la pace nel mondo”. E, questa sì, sarebbe una novità.

Vedere un Paese europeo disastrato, una popolazione europea decimata e offrire la prospettiva di ulteriori distruzioni e massacri non è solidarietà, così come non è patriottismo far annegare la patria in un mare di sangue per compiacere il più forte piuttosto che discutere del proprio destino e dei propri interessi.

Naturalmente i commenti di Codepink sono di parte: sono propagandisti prezzolati, pacifisti, comunisti, antiamericani, antipatriottici, filoputiniani, filorussi e spie, vogliono la resa dell’Ucraina e la conquista dell’Occidente da parte dei demoni rossi e gialli. Sono le cassandre e i menagramo che si oppongono all’America liberatrice del mondo da mezzo secolo e quindi totalmente inattendibili.

Ma i 15 esperti firmatari dell’appello no. Ognuno di essi rappresenta un vasto settore della società che si pone i loro stessi interrogativi e resiste alla frustrazione di non essere ascoltato. I militari, in particolare, sono patrioti che oltre ai rischi della guerra sul campo percepiscono il pericolo di una spaccatura interna del loro Paese, della cui Unità, Indipendenza, Autonomia, Valori, Libertà e Costituzione sono i difensori istituzionali. Una missione che non si esprime solo in tempo di guerra, perché la disgregazione di un Paese è più frequente per questioni interne, faziosità, interessi particolari e disprezzo delle istituzioni piuttosto che per minacce esterne. Come sappiamo bene dal passato e dal presente.

 

fonte: Il Fatto Quotidiano

Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il presidente (“speaker”) della Camera dei Rappresentanti di Washington è stato rimosso dal proprio incarico in seguito a una mozione di sfiducia approvata dall’aula. Il deputato repubblicano della California, Kevin McCarthy, è caduto sotto il fuoco dell’opposizione trumpiana interna al proprio partito, gettando nel caos la politica americana. Le conseguenze della nuova crisi si faranno sentire in primo luogo sulle trattative per il nuovo bilancio federale, ma con ogni probabilità anche sui tempi e le modalità di stanziamento dei prossimi “aiuti” economici e militari da inviare in Ucraina.

La stampa americana e gli stessi politici coinvolti nelle vicende di questi giorni hanno cercato di dare l’impressione di uno scontro tra personalità, motivato in primo luogo dal risentimento del protagonista del siluramento dello “speaker”, il deputato della Florida Matt Gaetz, per un procedimento di indagine ai danni di quest’ultimo e favorito dallo stesso McCarthy. Dietro al conflitto in corso in casa repubblicana ci sono al contrario profonde divisioni tra la classe dirigente d’oltreoceano che hanno a che fare soprattutto con i pericolosi livelli di indebitamento raggiunti dal governo federale e gli obiettivi di politica estera.

La mozione contro McCarthy è stata approvata martedì da una maggioranza di 216 a 210, con otto deputati repubblicani che hanno votato assieme a tutti i 208 colleghi democratici. Poco prima erano stati invece 11 i repubblicani che, sempre assieme al Partito Democratico compatto, avevano permesso all’istanza presentata da Gaetz di passare all’esame dell’aula. Gli otto repubblicani che hanno di fatto assestato la spallata a McCarthy fanno parte del cosiddetto “Freedom Caucus”, il gruppo parlamentare di estrema destra che fa riferimento a Donald Trump.

La mozione contro lo “speaker” della Camera è stata la conseguenza dell’accordo bipartisan siglato anche grazie a McCarthy per approvare, sabato scorso, una misura temporanea destinata a finanziare il bilancio federale fino al 17 novembre prossimo (“Continuing Resolution”), così da evitare il temuto “shutdown” e creare spazio per ulteriori trattative su un budget definitivo. Come voleva la destra repubblicana, il pacchetto provvisorio non includeva i sei miliardi di dollari chiesti dalla Casa Bianca da destinare all’Ucraina. Per contro, secondo Gaetz e i suoi alleati, non vi erano però sufficienti tagli alla spesa pubblica e misure per rafforzare le forze di polizia al confine con il Messico, in modo da rallentare i flussi migratori.

Gli oppositori di McCarthy avevano inoltre denunciato un presunto accordo tra lo “speaker” e l’amministrazione Biden per votare un provvedimento a sé stante sui fondi ucraini, possibilmente da oltre venti miliardi di dollari. Com’è ovvio, il fatto che il bilancio provvisorio sia passato con più voti democratici che repubblicani ha dato anche l’occasione a Gaetz e ai membri del “Freedom Caucus” di accusare McCarthy di agire nell’interesse dell’opposizione e non in quello della maggioranza.

Dal punto di vista procedurale, la caduta di McCarthy è il risultato dell’intesa che egli stesso aveva stipulato con l’estrema destra repubblicana lo scorso gennaio e che gli aveva permesso appunto di assicurarsi la carica di “speaker”. Vista la maggioranza risicata ottenuta dopo le elezioni di “metà mandato” dell’autunno 2022, McCarthy era stato costretto a fare una serie di concessioni ai membri del “Freedom Caucus” per garantirsi il loro voto. In cambio del sostegno alla candidatura a presidente della Camera, questi ultimi avevano chiesto e ottenuto, tra l’altro, che anche un solo deputato avrebbe avuto la facoltà di presentare una mozione di sfiducia contro lo “speaker” e che le misure relative al bilancio federale sarebbero state discusse e votate dall’aula singolarmente e non accorpate in un unico pacchetto.

La prima di queste due condizioni ha così permesso a Gaetz di introdurre la mozione di sfiducia e la seconda, che sarebbe stata violata da McCarthy, è una delle giustificazioni del voto di martedì contro lo “speaker”. McCarthy ha comunque escluso una sua ricandidatura. Il candidato più logico alla successione sarebbe il leader di maggioranza, Steve Scalise, ma da qualche tempo è affetto da una grave malattia che ne limita in parte l’attività. Finora, l’unico a lanciare la propria candidatura è stato il deputato dell’Ohio, Jim Jordan, riconducibile alla destra del Partito Repubblicano ma schieratosi a favore di McCarthy nella battaglia appena conclusa in aula.

Le trattative sul nome del prossimo “speaker” si prospettano complicate. La minoranza trumpiana continuerà a detenere una sorta di veto sul successore di McCarthy, mentre se la leadership repubblicana dovesse decidere di cercare i voti democratici, la destra del partito avrebbe una nuova arma di propaganda per attaccare i rivali interni. La seconda opzione finirebbe per favorire la campagna elettorale di Trump, alimentando la retorica anti-sistema dell’ex presidente, già in vantaggio nei sondaggi su Joe Biden.

Il Partito Democratico ha stabilito martedì di non venire in soccorso di McCarthy, ma la destabilizzazione che ne è derivata in casa repubblicana ha implicazioni profonde anche per la Casa Bianca. È probabile che i democratici abbiano ritenuto lo “speaker” appena deposto non più in grado di garantire determinati equilibri alla Camera visto che era in sostanza ostaggio del “Freedom Caucus”. Con la sua uscita di scena, l’amministrazione Biden e i leader democratici sperano quindi di insediare un nuovo “speaker” che abbia sotto controllo la situazione e presti attenzione alle richieste dell’opposizione, tra cui dovrebbe evidentemente cercare i voti per ottenere la carica ora vacante.

La priorità assoluta in questo momento per i democratici e il presidente è evidentemente la continuità degli aiuti all’Ucraina, messi in serio dubbio dalle vicende relative al nuovo bilancio federale e al conflitto interno al Partito Repubblicano. Negli ultimi giorni si sono infatti moltiplicati i segnali di allarme circa l’esaurimento dei fondi e delle riserve di armi per il regime di Zelensky. Uno stop al flusso di denaro ed equipaggiamenti militari risulterebbe letale per Kiev, mettendo in crisi anche la strategia anti-russa degli Stati Uniti.

L’attitudine al Congresso nei confronti dell’Ucraina è comunque in rapido cambiamento e sono in molti, anche se tuttora in netta minoranza, a mettere in discussione le politiche della Casa Bianca in questo ambito. Il deterioramento del quadro economico, l’aumento dei flussi migratori e il consolidarsi di un movimento globale che si oppone al monopolio occidentale delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali rendono ancora più evidente il fallimento di Biden sul fronte russo-ucraino, così da favorire sempre di più l’opposizione all’esborso di somme esorbitanti per Zelensky e la sua cricca.

Quel che è certo è dunque che le ultime notizie provenienti da Washington aggiungono un altro grattacapo per la Casa Bianca e il regime ucraino. Resta però da vedere quali saranno le eventuali contromisure del governo USA per correre ai ripari ed evitare una nuova umiliazione sul fronte estero. Qualcuno ha sostenuto che in questo scenario gli Stati Uniti potrebbero essere tentati di mettere in atto una qualche provocazione – o “false flag” – in Ucraina attribuendone la responsabilità alla Russia in modo da facilitare un’escalation della guerra attraverso l’intervento diretto della NATO o, quanto meno, per convincere gli scettici a non fare passi indietro sugli “aiuti” a Kiev.

Per il momento, la carica di “speaker” ad interim è stata assunta dal deputato della North Carolina, Patrick McHenry, considerato molto vicino a McCarthy. Sulla carta, McHenry ha la possibilità di esercitare in pieno le funzioni previste dalla carica, ma è improbabile che decida di procedere con votazioni su temi delicati in questa fase. Infatti, la Camera ha sospeso le sedute fino alla prossima settimana, quando i deputati saranno in teoria chiamati a scegliere il nuovo “speaker”. È difficile tuttavia che un accordo sul nome venga raggiunto prima di un assestamento del conflitto politico sui temi dell’immigrazione, dei tagli alla spesa pubblica e dei finanziamenti all’Ucraina.

Come accennato all’inizio, non era mai successo prima che un presidente della Camera dei Rappresentanti americana fosse sollevato dal suo incarico con un voto dell’aula. L’ultimo ad affrontare una mozione di questo genere fu Joseph Cannon nel 1910, ma riuscì a evitare la sfiducia. In realtà, la crisi politica negli USA in tempi più recenti aveva già toccato la posizione di altri “speaker” repubblicani, i quali però decisero o di non ricandidarsi o di dimettersi prima di un voto di sfiducia che appariva ormai certo. Furono queste le scelte che fecero i due predecessori repubblicani di McCarthy, rispettivamente Paul Ryan nel 2019 e John Boehner nel 2015.

Nella storia accade spesso che il successo di alcuni evidenzi il fallimento di altri. È un po' quello che è successo con la visita di due giorni di Xi Jinping a Mosca, con i due giganti che hanno confermato la loro alleanza strategica al di là di ogni aspettativa e i loro avversari - gli Stati Uniti e l'Unione europea - che, dopo aver spiegato al mondo che "Putin e Xi dormono nello stesso letto ma non hanno gli stessi sogni", si sono resi conto che è proprio la messa a terra dei sogni che ha preso nuovo slancio con questa visita. Così ora l'Occidente si affretta a denunciare la dimensione destabilizzante e a definire la democrazia globale come una minaccia assoluta al "mondo libero", proponendo una lotta tra "democrazia" e "autarchia".

Gli accordi commerciali firmati a Mosca vengono illustrati dalla corrente globalista come la certificazione del vassallaggio di Mosca a Pechino. Una tesi ridicola, dal punto di vista economico e politico. Non c'è alcun vassallaggio o signoria feudale, ma piuttosto uno scambio di tecnologia, commercio, finanza e materie prime. Gli accordi commerciali di valore strategico e di interesse reciproco, alcuni di portata globale, danno una forma più precisa ai contorni della collaborazione tra Pechino e Mosca e sono un esempio di come il commercio dovrebbe essere concepito, ossia come reciprocamente vantaggioso e privo di interferenze. Pechino ha bisogno di energia e cibo per il suo sviluppo e per gestire una nazione che ospita il 23% della popolazione mondiale, mentre Mosca ha bisogno del peso finanziario della Cina sui mercati.

Gli Stati Uniti e i loro alleati si trovano nella scomoda posizione di chi da tempo non vede i cambiamenti in arrivo e da almeno un anno prevede tutto ciò che non si avvera: sperano nella catastrofe per le banche russe ma invece arriva quella degli Stati Uniti e delle banche svizzere e tedesche e, quel che è peggio, dopo aver invocato l'iniziativa cinese come freno all'operazione militare speciale, ora che Pechino l'ha presa, si dichiarano pregiudizialmente contrari. Xi ha infatti proposto un percorso che dovrebbe portare a un cessate il fuoco in Ucraina e questo, se dovesse accadere, sancirebbe un ruolo di attore internazionale della Cina che Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno alcuna intenzione di riconoscere.

La minaccia peggiore per gli Stati Uniti è infatti rappresentata proprio dalla diplomazia di Xi. L'accordo raggiunto tra Iran e Arabia Saudita grazie a russi e cinesi, dimostra che non esiste un dialogo impossibile tra nemici se si eliminano i pregiudizi ideologici e si privilegiano gli interessi reciproci. La proposta di Pechino per un "cessate il fuoco" in Ucraina non era - e non è stata presentata come tale - un piano di pace, ma una proposta di posizionamento che avrebbe avvicinato le parti eliminando l'ostacolo più grande, rappresentato dall'opposizione degli Stati Uniti e dalla legge ucraina che vieta qualsiasi contatto con i russi.

 

Il “rischio cinese”

Il piano di pace, come anche un americano può capire, è un'altra cosa e può emergere solo dai colloqui e non essere predeterminato. Ma l'idea che Xi possa aprire un corridoio "sensibile" a Zelensky preoccupa non poco gli Stati Uniti. Innanzitutto perché la Cina è l'unico Paese di cui i russi si fidano e che ha la possibilità di influenzare Mosca (relativamente); poi perché è il principale partner commerciale di Kiev (possiede, tra l'altro, la Borsa di Kiev) ed è l'unico Paese al mondo in grado di fornire la liquidità necessaria all'Ucraina per investire nella sua ricostruzione. Questo sia direttamente attraverso i suoi finanziamenti, sia indirettamente attraverso il progetto della Nuova Via della Seta, di cui l'Ucraina è un'importante propaggine.

Infine, c'è l'aspetto non trascurabile della capacità dell'UE di impegnarsi con l'Ucraina, che ha così tanti legami finanziari con la Cina da non riuscire nemmeno a immaginare una via d'uscita come quella adottata (solo in parte) con la Russia per gli idrocarburi. È qui che risiede il più grande timore di Washington: che una parte significativa dell'Europa (Francia, Germania, Spagna, Italia) si unisca a Ungheria, Serbia, Austria e Croazia, che non vedono futuro nel continuare la guerra contro Mosca, e prenda le distanze da un nuovo rifiuto di negoziare la fine della guerra in Ucraina, che rimane una seria minaccia per il Vecchio Continente.

Le annunciate visite di Macron, Sánchez e Lula indicano che la Cina non ha solo la Russia come interlocutore e sembrano semmai confermare proprio la credibilità di cui gode Xi. È presto per dire se genereranno spaccature sul fronte europeo, ma il continuo aumento delle provocazioni da parte di Regno Unito, Stati Uniti e Polonia sta causando malessere nelle capitali europee e non si può escludere un riallineamento.

Inoltre, Pechino ha le carte in regola per mediare. A differenza di chi ci ha provato senza successo (Istanbul e Tel Aviv), la Cina ha un background indiscutibilmente pacifico, non avendo mai mosso guerra a nessuno (quella con il Vietnam del 1979 fu una scaramuccia di 15 giorni). Non si può dire lo stesso degli Stati Uniti, che dalla Jugoslavia all'Iraq, dall'Afghanistan alla Siria, passando per lo Yemen e la Somalia, hanno causato più di 4 milioni di morti dalla metà degli anni Novanta, attribuibili a sei presidenti (Clinton, Obama e Biden per i "democratici" e i due Bush e Trump per i repubblicani).

Come si diceva, l'emergere della Cina sullo scacchiere politico-diplomatico minaccia gli interessi degli Stati Uniti. L'interruzione del conflitto sarebbe un disastro per Washington: i vantaggi politici, militari, commerciali e geostrategici acquisiti su Europa e Russia in questa guerra sono innumerevoli, e una normalizzazione dei mercati toglierebbe gradualmente la posizione dominante acquisita grazie al blocco totale della Russia e alle gravi ripercussioni sull'economia dell'area UE.

Questo è anche il motivo per cui gli Stati Uniti si sono opposti a ogni possibile contatto tra i belligeranti, delegando a Londra il da farsi. Prima l'assassinio del negoziatore ucraino accusato dai servizi polacchi di essere con Mosca, poi l'assassinio mafioso della figlia di Alexander Dugin da parte dei servizi ucraini, quindi il sabotaggio del gasdotto da parte di attentatori britannici e norvegesi, ora l'ordine perentorio a Zelensky di non accettare alcun ipotetico ed ora i Mig slovacchi consegnati a Kiev e il governo britannico che dice apertamente di inviare proiettili all'uranio impoverito, per alzare la tensione con Mosca oltre ogni limite.

E a cercare di seppellire una volta per tutte la nascita di un eventuale dialogo, arriva il mandato della CPI, emesso per volontà politica di Londra (come hanno ammesso apertamente fonti del Foreign Office) attraverso il suo discutibile procuratore, l'inglese Karim Khan. Si tratta di un ordine privo di decenza legale (ai governanti viene garantita l'immunità e non l'azione penale), ma intriso di conseguenze politiche. Se da un lato mette in discussione tutti i Paesi che non riconoscono questo tribunale, dall'altro ha una funzione precisa: impedire un eventuale avvio di colloqui. Quale dei 123 Stati che hanno firmato lo Statuto della CPI potrebbe ospitare colloqui o rivolgersi alla Russia come mediatore se il firmatario è un ricercato che sarebbero obbligati a perseguire?

Ma il ridicolo è accompagnato da perplessità, poiché Karim Khan ha un fratello, Imran Ahmad Khan, ex parlamentare conservatore, arrestato per pedofilia. Secondo Mosca, Imran è stato rilasciato dalla prigione in Gran Bretagna il 23 febbraio dopo aver scontato solo la metà della condanna a 18 mesi comminaatagli per aver abusato di un minore. Tre settimane dopo il suo rilascio, il fratello ha spiccato un mandato d'arresto per Putin e Maria Llova-Belova, commissario russo per i diritti dell'infanzia, ovvero qualcuno che protegge i bambini da persone come il fratello del procuratore. Davvero non si capisce lo scambio di favori tra il governo britannico e il magistrato britannico? E davvero il fratello di un pedofilo ha l'autorità etica per intervenire in un caso di presunto abuso di minori? È possibile non cogliere l'indecenza (anche) simbolica?

 

I guerrafondai

Pechino si è resa conto che l'Ucraina è solo la prima parte della partita che l'Occidente intende finire sconfiggendo la Cina. Il fervore guerrafondaio anglosassone emerge con Sunak, l'ultramiliardario razzista che siede a Downing Street, che accusa Pechino di voler "rimodellare l'ordine mondiale" e poi prevede un conflitto totale definito "epocale". Le stesse parole sono state usate dal Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, che ha previsto un conflitto globale se la Cina avesse fornito aiuti militari alla Russia.

Quello che Sunak e la Casa Bianca minacciano è, in sostanza, una guerra devastante per salvare l'ordine mondiale "basato sulle regole", cioè un sistema di relazioni dominato dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Per prepararsi a questa nuova fase si va verso un cambiamento della struttura di comando della NATO in Europa nel prossimo futuro, con Londra e Varsavia, insieme a Estonia, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia che costituiranno il nucleo duro dell'Alleanza; cioè quel pezzo di Occidente disposto a essere disintegrato perchè serve agli interessi statunitensi e a garantire che gli anglosassoni possano continuare a dominare il mondo.

Come ha commentato Marcello Carnelos, ex ambasciatore italiano a Baghdad ed ex inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, "questo è lo scenario più plausibile e quello preferito dall'Occidente. Per gli Stati Uniti, una guerra permanente in Europa con uno o più Stati che si offrono di alimentarla all'infinito ha il doppio vantaggio di tenere gli europei impegnati contro la Russia e di distrarli dal loro asse con Pechino. Ma per la guerra infinita le risorse stanno iniziando a scarseggiare, a cominciare da coloro che devono essere inviati in prima linea".

Al momento, oltre a un Paese in ginocchio con il 26% del territorio occupato, le vittime ucraine accertate ammontano a oltre 200.000. Di questo passo, un altro anno di guerra significherebbe l'estinzione de facto dell'esercito di Kiev. Chi prenderà il suo posto? Anche con le migliori lenti occidentali, non si riesce a scrutare la fila dei volenterosi.


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