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- Scritto da Antonio Rei
La manovra che la destra sta per approvare è infarcita di favori agli evasori fiscali e alle attività di riciclaggio. Al di là dei condoni, difendibili solo da chi è in malafede, merita un approfondimento il tema dei contanti. La legge di bilancio dedica a questo argomento due misure: l’innalzamento del tetto entro il quale è consentito pagare in moneta sonante, che nel 2023 sarebbe dovuto scendere a mille euro e invece schizzerà a 5mila; e l’introduzione di un limite entro il quale gli esercenti potranno rifiutarsi di accettare pagamenti elettronici senza il rischio di sanzioni (nella prima versione si parlava di 60 euro, ma su pressione dell’Europa l’asticella dovrebbe scendere a 30 o a 40 euro).
Contro queste misure si sono scagliate tutte le istituzioni e gli organismi intervenuti in audizione parlamentare sulla manovra. Le batoste più pesanti sono arrivate da Fabrizio Balassone, capo del Servizio struttura economica di Bankitalia: “I limiti all'uso del contante rappresentano un ostacolo per diverse forme di criminalità ed evasione - ha detto il dirigente di Via Nazionale davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato - Soglie più alte favoriscono l'economia sommersa, mentre l'uso dei pagamenti elettronici ridurrebbe l'evasione”. Le misure del governo, invece, “rischiano di entrare in contrasto con la spinta alla modernizzazione del Paese” e con il Pnrr, che prevede obiettivi di riduzione dell'evasione legati anche alle transazioni digitali.
Con buona pace della destra, che un maggiore utilizzo del contante favorisca l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro è acclarato. Non ci sarebbe neanche da discuterne: è un fatto intuitivo, basta un minimo di buonsenso. Siccome però i partiti di maggioranza vogliono convincerci che gli asini volino, allora tiriamo fuori le prove per dimostrare che no, gli asini non volano. Perlomeno in Italia.
Uno studio dell’ottobre 2021 a cura della stessa Banca d’Italia - dal significativo titolo “Pecunia olet” - dimostra che “un aumento della quota di transazioni in contanti determinerebbe, a parità di condizioni, un incremento dell'incidenza dell'economia sommersa; quest'ultima sarebbe cresciuta anche a seguito dell'innalzamento della soglia di uso del contante da 1.000 a 3.000 euro, in vigore dal 2016 con l'obiettivo di sostenere la domanda”. Le restrizioni all'uso del contante, invece, “possono essere efficaci nel contrasto all'evasione fiscale”, conclude Via Nazionale.
Sulla stessa linea l’Upb, che nella recente audizione sulla manovra cita “diverse analisi che dimostrano analiticamente l’esistenza in Italia di una relazione tra utilizzo del contante, evasione e/o riciclaggio”. Uno studio del 2022 di Michele Giammatteo e altri autori conferma che l’incremento a 3.000 euro della soglia di utilizzo del contante approvato con la legge di bilancio per il 2016 ha avuto l’effetto collaterale di allargare il perimetro dell’economia sommersa. Da un’analisi di Immordino e Russo (2018) emerge invece che l’evasione dell’Iva aumenta nelle regioni in cui l’utilizzo del contante è maggiore. Infine, un lavoro di Russo (2022) analizza l’efficacia di diverse soglie di utilizzo del contante nel contrastare l’evasione fiscale e conclude che l’abbassamento della soglia da 5mila a mille euro avvenuto alla fine del 2011 ha svolto un ruolo efficace nel ridurre l’evasione fiscale, soprattutto nei settori in cui la propensione a evadere è più elevata.
Spesso la destra, per contraddire evidenze scientifiche, usa l’arma del confronto con l’estero. Limiti all’utilizzo del contante sono presenti nella maggioranza dei Paesi dell’Unione europea (con soglie che variano da un minimo di 500 euro in Grecia a un massimo di 15.000 euro in Slovacchia), ma non in tutti. Alcuni non prevedono soglie: si tratta di Austria, Germania, Lussemburgo, Olanda, Ungheria, Irlanda, Estonia, Finlandia e Cipro. Com’è facile notare, la lista contiene quattro paradisi fiscali, una dittatura di destra e altri quattro Paesi nordici con abitudini ben più rigorose di quelle che abbiamo in Italia. Ma anche questa situazione è destinata a cambiare: il Consiglio Ue ha infatti recepito l’indicazione della Commissione dello scorso luglio, fissando a 10mila euro il limite massimo per i pagamenti in contanti in tutti i paesi dell’Unione.
È vero che il tetto è due volte più alto di quello previsto dalla manovra italiana, ma si tratta di un limite generale: i singoli stati conservano la facoltà di introdurre soglie inferiori, a seconda dei contesti. E, guarda un po’ che sorpresa, il contesto italiano è decisamente il più fosco di tutti. Secondo dati recenti della Commissione europea, nel 2020 il nostro Paese è stato di gran lunga il peggiore per quanto riguarda l’evasione dell’Iva, con un ammanco di 26 miliardi di euro (il valore di una manovra finanziaria intera). Seguono a enorme distanza la Francia (14 miliardi) e la Germania (11 miliardi). Come al solito, quindi, le argomentazioni della destra si possono fondare solo su malafede o ignoranza.
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- Scritto da Sara Michelucci
Il Colibrì, nuovo film di Francesca Archibugi, tratto dal libro di Sandro Veronesi, mette al centro la vita di Marco Carrera, "il Colibrì", una vita di coincidenze fatali, perdite e amori assoluti.
“Anche in questo film, come per gli altri precedenti – dice Archibugi - il mio desiderio è stato annullare la macchina da presa, riuscire a creare la percezione che la storia si stesse raccontando da sé. Non è un esercizio di regia facile. A volte la cosa più difficile da inquadrare è il viso di un uomo, di una donna, di ragazzi e bambini. Far capire i sottotesti. E filmare l’invisibile”.
La storia procede secondo la forza dei ricordi che permettono di saltare da un periodo a un altro, da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo. È al mare che Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. La sua vita coniugale sarà un'altra, a Roma, insieme a Marina e alla figlia Adele. Marco tornerà a Firenze sbalzato via da un destino implacabile, che lo sottopone a prove durissime. A proteggerlo dagli urti più violenti troverà Daniele Carradori, lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati.
“Ho amato moltissimo il libro di Sandro Veronesi – afferma ancora la regista - volevo essergli fedele e al tempo stesso usarlo come materiale personale, perché così lo sentivo. Il libro è avventuroso sul piano stilistico, e con gli sceneggiatori Laura Paolucci e Francesco Piccolo abbiamo voluto non solo assecondare l’avventura, ma rilanciare. Un unico flusso di avvenimenti su piani sfalsati, come quando si racconta una vita, con episodi che vengono a galla apparentemente alla rinfusa, ma invece sono legati da fili interni, a volte inconsapevoli. Ho scommesso su togliere qualsiasi data e qualsiasi riferimento che dipanasse la domanda: in che epoca siamo? Ho desiderato che il flusso del tempo fosse raccontato solo dagli attori. Perfino le case, negli arredamenti, insieme ad Alessandro Vannucci alla scenografia e Cristina Del Zotto all’arredamento, le abbiamo tenute piuttosto immobili, come sono state immobili nei decenni quelle dei miei nonni. Non ho voluto dare un colore diverso alle epoche, insieme a Luca Bigazzi direttore della fotografia, non virare i toni fotografici, ma tenere la stessa unità che abbiamo nei ricordi. Questo racconto unificato nel tempo ha avuto bisogno di una grande cura nell’agganciare un frammento all’altro, attraverso gli attacchi di montaggio di Esmeralda Calabria, e non solo sul piano narrativo, ma forse ancora di più sul piano visivo.
La scelta principale di regia, per una storia così fortemente radicata nei personaggi, è stata la scelta degli attori che dovevano incarnarli. Grandi e piccoli ruoli. Ognuno, primo fra tutti Marco Carrera, ha dovuto portare su di sé l’onere del racconto. I vestiti, più che costumi, di Lina Taviani, dovevano suggerire cosa siamo dentro un’epoca, non è moda, è abitare il proprio tempo. Il mondo intorno, le case, le strade, le immagini, la luce e le stagioni che si susseguivano, dovevano avvolgere i personaggi come un mantello per il viaggio”.
Il Colibrì è la storia della forza ancestrale della vita, della strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile. Anche con le potenti armi
dell’illusione, della felicità e dell’allegria.
Il Colibrì (Italia, Francia 2022)
Regista: Francesca Archibugi
Sceneggiatura: Francesca Archibugi, Laura Paolucci, Francesco Piccolo
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Esmeralda Calabria
Distribuzione: 01 Distribution
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- Scritto da Mario Lombardo
La decisione presa questa settimana dall’OPEC assieme alla Russia (OPEC+) di ridurre di 100 mila barili al giorno a partire da ottobre la produzione di petrolio può sembrare a prima vista trascurabile. Se si osserva però il quadro generale del mercato energetico e le dinamiche geo-strategiche innescate dal conflitto in Ucraina, la delibera del cartello allargato dei produttori di petrolio contiene più di un motivo di interesse. L’elemento più significativo è la difficoltà crescente degli Stati Uniti nel controllare l’andamento del mercato del greggio proprio quando le (auto-)sanzioni, teoricamente dirette contro Mosca, richiederebbero un’azione incisiva per contenere le quotazioni di gas e petrolio.
Il segnale più immediato emerso dal vertice di lunedì nella sede dell’OPEC a Vienna è la preoccupazione, per ora relativamente contenuta, per l’evolversi della situazione globale. Il taglio della produzione di greggio è il primo da oltre un anno a questa parte e, come ha lasciato intendere il ministro dell’Energia saudita Abdulaziz bin Salman, l’attenzione dell’OPEC+ si sta spostando dal problema della carenza di offerta a quello del rallentamento della domanda in conseguenza dei concretissimi allarmi della recessione in arrivo.
Le pessime prospettive in termini di crescita economica sono in altre parole alla base delle decisioni dei principali produttori di petrolio, che hanno evidentemente presso atto della parabola discendente delle quotazioni negli ultimi due mesi. Questi scrupoli prevalgono dunque sulle pressioni americane per un aumento dell’attività estrattiva, con tutte le implicazioni di ordine politico e strategico che ne derivano.
Appena due mesi fa, nel corso della sua visita in Medio Oriente, il presidente americano Biden aveva chiesto personalmente al principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, di adoperarsi per incrementare la quantità di petrolio da immettere sul mercato globale, in modo da contrastare l’impennata dei prezzi energetici e l’inflazione provocate dalla guerra. Nonostante l’ottimismo ostentato allora dalla Casa Bianca, la risposta saudita è risultata chiara al termine della recente riunione OPEC. L’Arabia Saudita intende cioè anteporre i propri interessi a quelli dell’alleato americano. Interessi che, nel formato OPEC+, vengono coordinati nientemeno che con la Russia, oggetto dei tentativi di isolamento da parte degli Stati Uniti.
L’ex diplomatico indiano M. K. Bhadrakumar ha sottolineato in un articolo pubblicato sul suo blog che, “oltre a chiedere ai paesi del Golfo [Persico] di aumentare la produzione di greggio e a mettere sul mercato le proprie riserve”, i governo occidentali “non hanno altri strumenti” per influenzare le scelte dei produttori di petrolio. La questione è altamente sintomatica della costante perdita di influenza degli USA e dei loro lacchè europei anche su paesi tradizionalmente alleati e nominalmente dipendenti dall’ombrella del sistema di sicurezza occidentale.
A ciò va collegato direttamente un altro messaggio uscito dal vertice OPEC. Spiega ancora Bhadrakumar: “La decisione dei G-7 di imporre un tetto al prezzo del petrolio russo tocca anche i paesi OPEC+, sia pure indirettamente”. Se una decisione sul “price cap” dovesse essere presa definitivamente, Mosca ha già fatto sapere che sospenderebbe le forniture di greggio a quei paesi che intendono partecipare all’assurdo schema ideato da Washington e Bruxelles. La conseguenza sarebbe un’ulteriore contrazione dell’offerta che, a sua volta, richiederebbe uno sforzo da parte dei sauditi e degli altri maggiori produttori per compensare le perdite di petrolio russo e limitare l’impennata delle quotazioni.
Riyadh ha optato invece per una replica di segno opposto, ricompattando le proprie posizioni con quelle di Mosca e chiarendo che non intende assecondare la scommessa senza senso del “price cap”. La ragione della contrarietà dei paesi OPEC all’iniziativa dei G-7 è spiegata nuovamente da Bhadrakumar: “La mossa dei G-7 [sul tetto al prezzo del greggio] rappresenta un precedente preoccupante per tutti i membri dell’OPEC. I G-7 non hanno tecnicamente nulla a che fare con il mercato petrolifero” e la questione, sfruttata oggi in relazione alla guerra della Russia in Ucraina, potrebbe essere “usata domani anche contro i regimi del Golfo”, ad esempio imponendo, se le circostanze di carattere strategico lo richiedessero, provvedimenti come il “price cap” con la giustificazione delle carenze democratiche che caratterizzano questi paesi.
In altre parole, conclude l’ex diplomatico indiano, “le potenze occidentali stanno invadendo un campo gelosamente difeso dall’OPEC fin dalla fondazione del cartello [dei produttori] 62 anni fa e lo fanno attraverso la politicizzazione del prezzo del greggio, introducendo considerazioni geopolitiche che con esso non hanno alcun collegamento”.
La questione è stata collocata in un quadro più ampio da un commento pubblicato martedì dalla testata governativa cinese on-line Global Times. “Malgrado certi fattori non legati al mercato possano influenzare il mercato energetico internazionale”, si legge sul sito in lingua inglese, “ciò che determina principalmente l’andamento dei prezzi è sempre stato il rapporto tra domanda e offerta”. Ora tuttavia, continua il Global Times, “i G-7 stanno cercando di utilizzare misure di ordine politico per interferire con le leggi economiche del mercato energetico, con l’obiettivo di contenere gli aumenti delle quotazioni e ridurre la pressione inflazionistica” nonché di “danneggiare le entrate petrolifere della Russia”. Così facendo, anche se il target è il greggio di Mosca, il rischio è di “mettere a repentaglio l’intero sistema di forniture sul mercato energetico globale”.
Come accennato all’inizio, il taglio deciso lunedì dall’OPEC+ è quantitativamente trascurabile, soprattutto perché i paesi membri producono tuttora al di sotto delle quote distribuite complessivamente nel mese di agosto. Già nella prossima riunione, prevista per il 5 ottobre potrebbero esserci però ulteriori interventi. Anzi, all’Arabia Saudita sarebbe stata assegnata la facoltà di convocare un vertice in qualsiasi momento se fosse necessario “stabilizzare” tempestivamente il mercato del petrolio. Quest’ultima eventualità potrebbe scaturire da un peggioramento del quadro economico internazionale, ma anche dalla possibile finalizzazione dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), che farebbe aumentare la quantità di petrolio esportato dalla Repubblica Islamica.
La recente decisione dell’OPEC e della Russia segnala infine anche il fallimento, almeno per il momento, delle manovre americane per boicottare l’attività del cartello con sede a Vienna, testimoniato ad esempio dal progetto di legge “NOPEC”, da anni allo studio a Washington per consentire procedimenti “anti-trust” nei confronti dei paesi membri, e intensificate in seguito al consolidarsi della partnership russo-saudita. Il cartello allargato è in definitiva ben deciso a mantenere tutte le proprie prerogative per affrontare le minacce che gravano su di esso, limitando di conseguenza le velleità di controllo degli USA. Il messaggio, citando ancora l’analisi dell’ex ambasciatore indiano M. K. Bhadrakumar, è dunque “forte e chiaro: Arabia Saudita e Russia, che costituiscono l’asse portante dell’OPEC+, intendono continuare a coordinare strettamente le loro mosse per modellare”, secondo i propri interessi, “il mercato petrolifero globale”.
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- Scritto da Michele Paris
La giornata di martedì ha visto proseguire senza sosta i bombardamenti mirati russi contro obiettivi strategici in molte località dell’Ucraina. La rapida escalation di Mosca seguita all’attentato terrorista contro il ponte di Kerch, in Crimea, era attesa da molti osservatori, ma è arrivata come una vera e propria doccia fredda per i sostenitori del regime di Kiev che, solo poche ore prima, celebravano i “successi” ucraini sul campo e la crisi irreversibile delle forze armate russe. L’incognita in merito al conflitto in atto è ora duplice: come si evolverà la nuova fase dell’operazione ordinata da Putin e se ci sarà finalmente un tentativo di esplorare la strada della diplomazia da parte dell’Occidente.
Da Kiev a Odessa, da Kharkov fino a Lvov, sono stati centinaia i lanci di quei missili di cui stampa e agenzie di intelligence occidentali volevano far credere che la Russia fosse a corto da tempo. Gli obiettivi preferiti sono stati centrali elettriche e snodi del traffico ferroviario ucraino, ma anche edifici che ospitavano centri di comando delle forze armate e delle forze speciali.
Nelle ultime settimane, sui media ufficiali era passato il trionfo – o presunto tale – del regime di Zelensky, con la fanteria ucraina in avanzamento almeno nelle regioni di Kharkov, Donetsk e Zaporizhzia, sia pure a costo di pesantissime perdite di uomini e materiale. Alla luce della nuova situazione, il dibattito in Russia si era scaldato facendo emergere la necessità di alzare il livello dell’impegno bellico, così da trasformare la cosiddetta “operazione militare speciale” in una guerra a tutti gli effetti.
Se mai, l’interrogativo ruota attorno al motivo per cui Putin abbia atteso così a lungo per scatenare un’offensiva in grado di piegare la resistenza ucraina. L’attentato, probabilmente con la collaborazione di agenzie di intelligence occidentali, contro il ponte che collega la penisola di Crimea alla terraferma ha rappresentato senza dubbio il superamento di una linea rossa. L’attacco a una struttura che Pepe Escobar ha definito “il simbolo visivo del ritorno della Crimea alla Russia” ha permesso se non altro al governo russo di generare un certo consenso tra la popolazione per il cambio di passo in Ucraina.
L’attentato si è poi sommato ad altri eventi oggettivamente assimilabili al terrorismo da parte del regime di Kiev e dei suoi sponsor stranieri: dalla parziale distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 all’assassinio alla periferia di Mosca di Darya Dugina ad agosto, fino ai ripetuti bombardamenti contro obiettivi civili nelle regioni del Donbass e, talvolta, nello stesso territorio russo. L’escalation delle forniture di armi sempre più potenti da parte dell’Europa e degli Stati Uniti all’Ucraina ha a sua volta contribuito a spingere Putin verso una decisione radicale.
Non è comunque da escludere che il presidente russo pensasse fino a poche settimane fa che la relativa cautela delle proprie forze armate in Ucraina potesse incoraggiare una possibile soluzione diplomatica alla crisi. Le cose sono andate invece diversamente e la pazienza di Mosca davanti alle provocazioni di Kiev e dell’Occidente è inevitabilmente finita e, ancora una volta, a pagarne il prezzo è stata in primo luogo la popolazione ucraina.
Vista la riservatezza con cui i vertici politici e militari russi hanno finora gestito la guerra, non è facile prevedere in che modo proseguiranno le operazioni. I massicci bombardamenti potrebbero andare avanti per giorni, in preparazione forse di un’offensiva di terra per riprendere il controllo di quelle aree riconquistate recentemente dal regime ucraino, in primo luogo negli “oblast” appena annessi alla Federazione Russa. È tuttavia possibile anche un relativo “alleggerimento” dei bombardamenti per verificare la disponibilità a trattare dell’Occidente, da dove stanno arrivando segnali di rottura di un fronte anti-russo solo apparentemente compatto.
La palla è quindi ancora una volta nel campo di Washington e Bruxelles. Fino a dove USA e NATO intenderanno spingere lo scontro con Mosca lo si vedrà probabilmente presto, anche se è difficile ipotizzare un passo indietro sostanziale da parte dell’amministrazione Biden prima delle elezioni di “metà mandato” a inizio novembre. La probabile sconfitta dei democratici e il cambio della maggioranza al Congresso potrebbero dare qualche impulso alla diplomazia, come hanno chiesto recentemente alcuni esponenti del Partito Repubblicano, incluso lo stesso ex presidente Trump.
Per il momento, i segnali non sono incoraggianti, anche se non potrebbe essere altrimenti. Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha annunciato martedì che la prossima settimana l’esercitazione nucleare “di routine” dell’Alleanza si terrà regolarmente nonostante le tensioni con Mosca. Biden e Zelensky hanno invece parlato al telefono lunedì e il presidente americano avrebbe promesso altri aiuti militari, tra cui “sistemi avanzati di difesa anti-aerea”. Zelensky ha poi annunciato in una serie di “tweet” altri colloqui telefonici con svariati leader dei paesi NATO, ostentando un appoggio inamovibile al suo regime sotto il durissimo attacco russo. Martedì, infine, lo stesso presidente ucraino è intervenuto a una riunione di emergenza on-line dei G-7, dai quali ha ottenuto l’ennesima promessa di appoggio a tempo indeterminato. A Kiev c’è evidentemente il timore di un imminente cambiamento degli umori in Occidente per un paese che è sempre più un buco nero in termini economici, finanziari e militari.
Indicazioni di un possibile cambiamento nell’aria anche a Washington sono arrivate in questi giorni. Il deputato repubblicano dell’Arizona, Paul Gosar, ha criticato duramente la Casa Bianca per le ingentissime spese a favore del regime ucraino, chiarendo che gli Stati Uniti “non devono un accidente di niente a Zelensky”. Domenica era stato invece l’ex capo di Stato Maggiore USA, Mike Mullen, a frenare sul coinvolgimento americano nel conflitto. In un’intervista alla ABC, il generale in pensione aveva criticato il riferimento di Biden al pericolo di “armageddon nucleare”, per poi invitarlo ad abbassare i toni e a “fare tutto il possibile per cercare di risolvere la crisi al tavolo [del negoziato]”.
La nuova fase dell’operazione russa ha scatenato come al solito la propaganda di media e governi occidentali, fintamente scandalizzati di fronte alla “barbarie” ordinata dal Cremlino contro un paese democratico e senza nessun colpa. Militarmente parlando, gli obiettivi colpiti in queste ore dall’artiglieria russa sono però del tutto legittimi, a differenza degli attacchi deliberati delle forze ucraine contro i civili e puntualmente passati sotto silenzio in Occidente.
Soprattutto, poi, il precipitare della crisi ucraina non dipende dal desiderio di Putin di ricostruire l’Unione Sovietica o di sottomettere l’intera l’Europa. La responsabilità è piuttosto degli Stati Uniti e dei loro alleati, oltre che del regime di Kiev uscito dal golpe neo-nazista del 2014, incapaci o disinteressati a implementare gli accordi di Minsk per risolvere pacificamente il conflitto tra Kiev e il Donbass; incapaci o disinteressati a negoziare con Mosca un’architettura della sicurezza europea che sospendesse l’avanzata della NATO e tenesse in considerazione le legittime esigenze russe; incapaci o disinteressati a fermare l’escalation degli “aiuti” militari a Zelensky, preferendo invece continuare a utilizzare l’Ucraina e il suo popolo come carne da macello nella “guerra per procura” contro la Russia di Putin.
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- Scritto da Michele Paris
Turchia e Arabia Saudita hanno fatto questa settimana un passo decisivo verso la completa normalizzazione dei rapporti bilaterali dopo la burrasca degli ultimi anni per via delle divergenze seguite alle vicende delle “Primavere arabe” e, più recentemente, all’assassinio di Jamal Khashoggi. L’abbraccio simbolico e materiale da parte di Erdogan dell’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (MBS), durante la sua visita ad Ankara è il riflesso di un evidente – ennesimo – ripensamento delle politiche mediorientali promosse dal presidente turco, dovuto sia a ragioni di carattere economico sia al riallineamento strategico in atto nella regione a partire almeno dall’ingresso di Biden alla Casa Bianca.
Il sequestro e la brutale uccisione del giornalista dissidente saudita nel consolato di Riyadh a Istanbul nel 2018 aveva portato al culmine lo scontro tra Erdogan e MBS. Le prove del coinvolgimento del giovane principe nell’assassinio erano state fornite dai servizi di sicurezza e dal governo della Turchia, mentre in questo paese era stato aperto un procedimento legale per risolvere il caso. Lo stesso Erdogan aveva chiamato in causa MBS, utilizzando spesso parole durissime per denunciare le responsabilità di quest’ultimo, alla luce anche delle conclusioni simili presentate dalla CIA e da un rapporto delle Nazioni Unite.
Il sospetto che il regime saudita fosse implicato, assieme almeno agli Stati Uniti, nel fallito golpe ai danni di Erdogan nell’estate del 2016 aveva a sua volta influito sul peggioramento dei rapporti tra i due paesi. In precedenza, Turchia e Arabia Saudita si erano trovate su posizioni opposte riguardo l’emergere dei Fratelli Musulmani come principale forza politica negli sconvolgimenti registrati in molti paesi arabi all’inizio del secondo decennio di questo secolo. Le due potenze regionali avevano appoggiato forze diverse ad esempio in Libia e in Egitto, così come l’approccio alla crisi siriana di Ankara e Riyadh ha seguito progressivamente strade differenti.
È fuori discussione che i fattori economici e finanziari abbiano avuto un peso importante nel disgelo tra i due paesi. Erdogan ha visto crollare la sua popolarità e quella del suo partito come conseguenza delle difficoltà economiche della Turchia, simboleggiate dal crollo della propria moneta. Erdogan ha così cercato un salvagente tra i regimi del Golfo Persico, con un occhio alle elezioni parlamentari e presidenziali del 2023 che, secondo i sondaggi, minacciano di mettere fine al suo lunghissimo dominio e a quello del suo partito (AKP; Partito della Giustizia e dello Sviluppo). Le basi definitive per la distensione con Riyadh erano state gettate a inizio anno con la chiusura dell’indagine in Turchia sull’assassinio di Khashoggi e la consegna a un tribunale saudita di tutto il fascicolo relativo al caso. Ad aprile, poi, Erdogan si era recato in visita in Arabia Saudita per la prima volta dal 2017.
Non è un caso che il comunicato congiunto seguito all’arrivo di MBS ad Ankara mercoledì, dopo le visite in Egitto e Giordania, e al colloquio con Erdogan abbia toccato in gran parte il tema della cooperazione economica. Il governo turco è impaziente di sbloccare gli investimenti sauditi, sulla scia dell’accordo sottoscritto a gennaio con gli Emirati Arabi Uniti per un fondo da dieci miliardi di dollari e per il raddoppio degli scambi commerciali. I leader di Turchia e Arabia avrebbero anche raggiunto un’intesa sull’allentamento delle barriere doganali, superando definitivamente l’embargo di fatto delle importazioni di prodotti turchi deciso da Riyadh dopo l’esplosione del caso Khashoggi. Nel 2021, secondo i dati ufficiali turchi, le esportazioni verso l’Arabia hanno avuto un valore appena superiore ai 200 milioni di dollari, contro i 3,2 miliardi del 2019.
Ci sono diversi elementi da tenere in considerazione per comprendere il cambio di rotta di Erdogan, oltre a quello di natura economica. In primo luogo, il riavvicinamento a Riyadh deve essere collegato al riassestamento complessivo della politica estera turca degli anni scorsi che stava producendo per questo paese un isolamento sempre più marcato. A dare l’impulso al cambiamento può essere stata, tra l’altro, la diversificazione strategica promossa da MBS per il regno wahhabita, concretizzatasi in un atteggiamento meno rigido, o decisamente collaborativo, nei confronti di paesi al centro di conflitti e tensioni, come Siria e, soprattutto, Israele.
Un isolamento che per Ankara rischiava seriamente di aggravarsi anche in conseguenza dei più recenti sviluppi sul fronte energetico, con il formarsi cioè di un asse tra le monarchie del Golfo, Israele, Egitto, Grecia e Cipro, considerato una seria minaccia per la Turchia, che rischia di vedersi esclusa dalle nuove rotte del gas in fase di progettazione nel Mediterraneo orientale. A riprova di ciò, è possibile citare anche la parallela riconciliazione con Israele dopo anni di gelo. Non è un caso, a questo proposito, che, in concomitanza con la visita di Mohammad bin Salman, il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, si sia recato giovedì anch’egli ad Ankara.
Dietro a questi movimenti c’è con ogni probabilità in parte il governo americano e i colloqui incrociati di questi giorni potrebbero in qualche modo preparare il terreno alla visita di Biden in Medio Oriente, programmata per la metà di luglio. Un altro intreccio è quello che riguarda l’Iran. Le relazioni tra Ankara e Teheran sono in fase calante, soprattutto per quanto riguarda la Siria, dove Erdogan vorrebbe a breve lanciare una nuova offensiva militare contro le milizie curde. La questione curda è poi un ulteriore punto di scontro con gli Stati Uniti, assieme alla partnership tra Ankara e Mosca, visto che le forze curde siriane rappresentano da tempo il punto di riferimento della presenza militare illegale americana sul territorio del paese in guerra dal 2011.
In definitiva, le mosse di Erdogan sembrano indicare una volontà di tornare a giocare le proprie carte sul tavolo del fronte filo-americano, con l’obiettivo di recuperare il terreno perduto in ambito economico e della sicurezza per via delle tensioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Il ristabilimento dei rapporti con l’Arabia Saudita va visto in questa prospettiva, così da evitare il rischio del consolidarsi di un blocco guidato da Riyadh e Tel Aviv nella regione mediorientale che potrebbe appunto escludere la Turchia.
Nonostante l’apparenza, le scelte di politica estera di Erdogan continuano a sfuggire a una classificazione netta. Fermo restando l’interesse economico immediato, che risponde in primo luogo a esigenze elettorali, l’orientamento strategico turco resterà quasi certamente improntato al multilateralismo e all’indipendenza.
Basti ricordare in questo senso la posizione tutto sommato equilibrata tenuta fin qui nei confronti del conflitto russo-ucraino e l’opposizione all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO. Ciò che resta da verificare è ad ogni modo la capacità di Erdogan, a un anno esatto dal voto più delicato della sua carriera politica, di conservare in modo vantaggioso l’indipendenza strategica della Turchia in un clima internazionale sempre più infuocato.