Se l’accordo per un cessate il fuoco più o meno stabile tra Israele e Hezbollah in Libano è stato accolto quasi universalmente con favore, vista la violenza scatenata dal regime di Netanyahu negli ultimi due mesi, le garanzie che la pace sia duratura lungo il confine nord dello stato ebraico restano al momento piuttosto esili. Il premier israeliano e l’amministrazione Biden hanno fatto di tutto per vendere la tregua come un successo indiscutibile di Tel Aviv. La realtà dei fatti presenta tuttavia uno scenario molto diverso. Il genocidio palestinese a Gaza, quanto meno nell’immediato, non sarà influenzato dagli eventi libanesi, ma la fine concordata delle ostilità nel “paese dei cedri” avviene indiscutibilmente senza che nessuno dei principali obiettivi prefissati da Netanyahu all’inizio dell’invasione sia stato raggiunto.

Dalle ricostruzioni proposte dai media locali e internazionali, il contenuto dell’accordo sarebbe stato modificato in vari punti su richiesta di Hezbollah, i cui vertici hanno respinto le condizioni che assegnavano virtualmente mano libera a Israele in Libano e avrebbero portato a poco meno dello smantellamento dell’ala militare del “Partito di Dio”. Nella caratterizzazione della tregua di Tel Aviv e Washington restano tuttavia elementi che, se effettivamente sottoscritti dalle due parti, darebbero vantaggi importanti a Israele.

Uno dei punti centrali è il meccanismo creato per gestire violazioni del cessate il fuoco. Da quanto si legge in queste ore, se Israele dovesse registrare infrazioni da parte di Hezbollah, dovrebbe darne segnalazione a una speciale “commissione internazionale”, guidata dagli Stati Uniti in collaborazione con la Francia. In caso la violazione fosse confermata, spetterebbe all’esercito regolare libanese intervenire, ma se ciò non dovesse accadere allora Israele avrebbe facoltà di intraprendere iniziative militari. Non ci sono stati invece riferimenti a un procedimento di questo genere a parti invertite, ovvero se Hezbollah dovesse essere esposto a trasgressioni della tregua da parte israeliana. Inizialmente, addirittura, Biden aveva parlato di diritto all’auto-difesa solo per Israele, prima che un esponente dell’amministrazione americana rettificasse confermando che questo diritto spetta a entrambe le parti.

L’accordo prevede nel concreto il ritiro, entro i prossimi 60 giorni, delle forze israeliane dal Libano meridionale e di quelle di Hezbollah a nord del fiume Litani, così da lasciare un’area oltre il confine dello stato ebraico presidiata solo dalle forze armate regolari libanesi e dal contingente ONU (UNIFIL). Si tratta in sostanza del dettato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1701 che mise fine alla guerra del 2006, in quel caso come in quello attuale conclusa a sfavore di Israele. Quelle condizioni non sono mai state del tutto implementate a causa delle continue violazioni della sovranità del Libano da parte israeliana.

Tutte le indicazioni suggeriscono anche oggi che Netanyahu intende continuare a muoversi liberamente in Libano, rendendo fragile da subito la tregua appena entrata in vigore. Dopo l’approvazione dell’accordo da parte del suo gabinetto martedì sera, il premier israeliano ha rilasciato una dichiarazione ufficiale ultra-aggressiva attribuendosi prerogative in larga misura non previste dal cessate il fuoco. Netanyahu ha ad esempio sostenuto che, in accordo con Washington, Israele conserva “piena libertà di azione militare” in Libano e, se Hezbollah dovesse “ricostruire le proprie infrastrutture terroristiche”, le forze sioniste torneranno ad attaccare.

L’ostentazione di forza di Netanyahu serve a confondere le acque e attenuare la portata della sconfitta strategica incassata sul fronte libanese. Ciò che il premier minaccia se Hezbollah dovesse riprendere l’iniziativa militare è d’altra parte quanto Israele ha fatto negli ultimi due mesi senza riuscire a eliminare il partito-milizia sciita dall’equazione libanese. Proprio a causa del fallimento delle operazioni, con l’aumento vertiginoso delle perdite in termini di uomini e mezzi, Netanyahu ha dovuto alla fine cedere alla tregua, malgrado i rischi politici che essa comporta.

Su un piano più generale e proprio per il fiasco sul fronte militare, Israele cerca in tutti i modi di ottenere i risultati auspicati all’inizio dell’invasione per mezzo della diplomazia. Uno di essi è la creazione di una vera e propria area cuscinetto oltre il confine settentrionale, cancellando la presenza anche dei civili libanesi costretti a evacuare la zona nei mesi scorsi. I vertici militari sionisti e il ministro della Difesa, Israel Katz, tra martedì e mercoledì hanno intimato ai residenti del Libano meridionale di non tornare nelle proprie abitazioni perché il divieto sarebbe ancora in vigore. Di ciò non vi è però traccia nell’accordo e non è chiaro se un intervento di Israele contro i civili che già stanno raggiungendo le loro case sarà da considerare una violazione della tregua.

Quello che in molti sospettano è comunque che Israele potrà in qualche modo rompere l’accordo e attribuirne la responsabilità a Hezbollah, per poi riprendere le operazioni militari. Molto dipende anche dagli effetti che produrrà il cessate il fuoco sul fronte interno. La decisione di dare il via libera alla tregua è stata infatti sfruttata politicamente dall’opposizione israeliana. Soprattutto l’ex ministro del defunto gabinetto di guerra, Benny Gantz, ha denunciato l’accordo perché non elimina la minaccia di Hezbollah, come era stato promesso da Netanyahu, né lascia totale libertà di azione alle forze sioniste in Libano.

Entrambi gli obiettivi sono impossibili da raggiungere, come hanno dimostrato le dinamiche sul campo, ma i rivali politici di Netanyahu cercano di fare leva sul malcontento di una buona parte della popolazione israeliana per indebolire il primo ministro. I coloni nel nord dello stato ebraico, che hanno da oltre un anno lasciato le loro abitazioni in seguito ai bombardamenti di Hezbollah, si sono espressi infatti a sfavore della tregua, visto che nel prossimo futuro potrebbe facilmente riesplodere il conflitto che li metterebbe nuovamente a rischio.

Non è da escludere che i vertici di Hezbollah abbiano accettato qualche passo indietro rispetto alle condizioni poste inizialmente per la tregua, a cominciare dallo stop all’aggressione nella striscia di Gaza, confidando in un contraccolpo letale per Netanyahu sul fronte domestico. Stando ai giudizi positivi espressi per l’accordo dagli alleati dell’Asse della Resistenza, inclusi i leader di Hamas, è inoltre probabile che l’obiettivo sia quello di creare, sulla scia del cessate il fuoco in Libano, un clima che favorisca la fine dell’aggressione anche a Gaza.

Nella galassia dell’informazione indipendente e sui social media si sta discutendo non poco del fatto che i palestinesi nella striscia siano stati abbandonati a loro stessi dalla tregua sottoscritta da Hezbollah. Sotto la guida di Hassan Nasrallah, assassinato a Beirut da un bombardamento israeliano lo scorso settembre, l’imperativo espresso dal “partito di Dio” era infatti sempre stato quello di accettare una tregua solo se essa fosse stata estesa a Gaza.

In questo senso, i nuovi comandanti sembrano avere ceduto a Tel Aviv e Washington, ma parlare di abbandono o, ancora peggio, di tradimento della causa palestinese è a dir poco ingeneroso. Non c’è dubbio che Hezbollah abbia dovuto incassare una serie di colpi molto pesanti dall’aggressione israeliana che ne ha decapitato in rapida successione la leadership. Tuttavia, nonostante la situazione complicatissima, il movimento sciita è rimasto compatto, formulando una strategia militare efficace che ha alla fine costretto lo stato ebraico a fermare l’offensiva.

Come hanno riconosciuto anche gli esponenti di Hamas, Hezbollah ha fatto moltissimo per la causa palestinese nell’ultimo anno e pagato per questo un prezzo altissimo. Tra i risultati ottenuti non c’è per il momento la fine delle atrocità a Gaza, ma il bilancio per Israele resta nettamente in negativo. Il ritorno dei coloni israeliani nel nord del paese minaccia ad esempio di protrarsi indefinitamente, mentre le perdite di soldati e mezzi israeliani risultano altissime, con conseguenze enormi in termini di morale e logistica bellica. Le azioni di Hezbollah hanno inoltre messo in luce la debolezza dei sistemi difensivi israeliani, dal momento che missili e droni lanciati dal Libano sono spesso penetrati senza problemi nel territorio dello stato ebraico, arrivando a colpire città in genere considerate intoccabili, come Tel Aviv e Haifa.

In tutti i casi, gli eventi di questi giorni non devono essere considerati definitivi. Molti aspetti della crisi multiforme in corso in Medio Oriente restano irrisolti e Netanyahu vuole utilizzare la pacificazione del fronte libanese per concentrarsi sul genocidio palestinese a Gaza e proseguire l’escalation con l’Iran. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento con la giustizia israeliana per i procedimenti legali finora rinviati e il ritorno alla Casa Bianca di Trump, il premier israeliano potrebbe cercare di alimentare ulteriormente le tensioni nella regione. La risposta della Resistenza in quel caso sarebbe ancora più decisa e lo stesso Hezbollah rientrerebbe in campo, attingendo a un arsenale bellico solo in minima parte utilizzato per rispondere all’aggressione israeliana e che le condizioni della tregua molto difficilmente riusciranno a intaccare.

L’iniziativa del primo ministro ungherese, Viktor Orban, per trovare una soluzione diplomatica alla guerra in Ucraina ha fatto salire a livelli stratosferici l’isteria dei leader europei. La sola possibile identificazione dell’UE o di un suo rappresentante con una proposta o un piano di pace è di fatto inaccettabile, perché comporta la messa in discussione di tutto l’edificio propagandistico costruito attorno al conflitto. Nei confronti di Orban e dell’Ungheria si stanno quindi già studiando provvedimenti, come la possibile rimozione anticipata del governo di Budapest dalla presidenza di turno del Consiglio Europeo.

La colpa imperdonabile di Orban è quella di avere rotto il fronte anti-russo costruito in Europa e di essersi recato a Mosca per discutere di pace con il presidente Putin, distruggendo l’immagine di autocrate sanguinario affibbiata a quest’ultimo per riconsegnare quella di leader razionale e aperto al negoziato sulla base degli equilibri sul campo.

Orban era stato in precedenza ospitato a Kiev da Zelensky, al quale ha presentato un piano, forse riconducibile a Donald Trump e ai suoi consiglieri, per arrivare a una tregua in grado di favorire trattative vere e proprie con la Russia e gli altri attori coinvolti nella guerra. Come se non bastasse, Orban si è alla fine consultato con il presidente cinese Xi Jinping a Pechino, per poi volare a Washington per il vertice NATO, dove ha pensato bene di promuovere la sua “missione”, in primo luogo chiedendo appoggio al presidente turco Erdogan. Negli USA, per chiudere il cerchio, Orban dovrebbe incontrare giovedì anche l’ex presidente repubblicano, probabilmente per fare il punto sugli eventi dell’ultima settimana.

Ad un’analisi obiettiva dei fatti, Orban sembra essere in effetti il politico europeo più adatto a esplorare la strada della diplomazia dopo il disastro di questi due anni e mezzo e il muro contro muro voluto da Bruxelles e Washington. Il premier ungherese è andato contro corrente fin dall’inizio della guerra, continuando a tenere i contatti con Kiev e Mosca, così come ha sempre criticato aspramente i trasferimenti di armi all’Ucraina. I suoi colleghi e i burocrati europei hanno però reagito con rabbia alla mossa di Orban. In sede UE, come già anticipato, si è iniziato a discutere di misure punitive, mentre la stampa ufficiale ha subito inaugurato un’offensiva mediatica per delegittimare l’iniziativa diplomatica e gettare fango su un leader già abbastanza controverso.

Dalla Von der Leyen a Charles Michel fino al numero uno uscente della diplomazia UE, Josep Borrell, tutti si sono affrettati a chiarire che le istituzioni europee non hanno nulla a che vedere con la “missione” di Orban. La trasferta di quest’ultimo a Kiev, Mosca e Pechino e i temi sollevati con i leader dei rispettivi governi rientrano insomma in un piano che non è rappresentativo delle posizioni europee. Il feroce risentimento che circola a Bruxelles rischia di rivelare più di quanto voluto. Un’iniziativa diplomatica concreta non può effettivamente rappresentare la classe politica dell’Europa, che si è adoperata fin dall’inizio per intensificare la guerra in Ucraina, ma rappresenta tuttavia l’opinione delle popolazioni europee, sempre più contrarie all’escalation del conflitto.

Orban minaccia perciò di allargare ancora di più il divario tra i cittadini europei e i loro leader, mostrando come una via d’uscita pacifica esista e valga la pena di percorrerla. Non solo, il lavoro di Orban delinea un progetto diplomatico che potrebbe prendere quota dopo le elezioni presidenziali americane in caso di successo di Trump. Vale a dire uno scenario visto con orrore da quei leader europei che continuano a prendere ordini dall’amministrazione Biden, anche a costo di precipitare il continente in una guerra rovinosa con Mosca.

La reazione dell’Europa alle manovre del primo ministro ungherese non sorprende nessuno. Se vi fosse stato un barlume di onestà e buon senso a Bruxelles e nelle cancellerie europee, d’altra parte, la guerra sarebbe terminata a poche settimane dall’inizio dell’invasione russa o, più probabilmente, non sarebbe nemmeno scoppiata. Vista la situazione, il fatto che un politico europeo si attivi per far finire la guerra e parli di persona con leader finora aborriti e considerati come paria, rischia di fare aprire gli occhi a quanti in Europa hanno creduto alla propaganda ufficiale, facendoli interrogare sugli interessi a cui rispondono i vertici dell’Unione e i governi dei paesi membri.

Una delle pubblicazioni ufficiali più aggressive nello stroncare il premier ungherese è la testata on-line Politico. Negli ultimi giorni sul sito di quest’ultima si è assistito a uno stillicidio di articoli che hanno cercato di mettere nella peggiore luce possibile sia Orban sia la sua iniziativa diplomatica. Sono spesso voci anonime di diplomatici e funzionari europei a sparare a zero su Orban. In un pezzo pubblicato lunedì si afferma ad esempio che la presidenza ungherese del Consiglio d’Europa è di fatto “finita prima ancora di essere iniziata”.

Mercoledì invece, in un altro esempio di finto giornalismo, Politico ha definito Orban “boiardo di Putin”, paragonando poi la sua “missione” di pace all’offerta fatta da Mussolini nel 1939 di mediare tra Hitler da una parte e i governi di Francia e Gran Bretagna dall’altra. Quasi sempre, inoltre, si fa riferimento agli interessi particolari che Orban avrebbe nel cercare di far partire negoziati diplomatici tra Russia e Ucraina, come il trattamento della minoranza ungherese che vive in quest’ultimo paese. Sempre Politico cita poi il declino del partito del premier, Fidesz, nelle ultime elezioni europee e il consolidarsi all’opposizione di una forza politica forse in grado di insidiare la sua posizione. Provando a favorire una tregua, Orban punterebbe quindi ad auto-promuoversi come uomo di pace per recuperare consensi interni.

Altri ancora ricordano come l’Ungheria intrattenga rapporti economici ed energetici molto stretti rispettivamente con Cina e Russia. Per questa ragione Orban si sarebbe auto-assegnato l’incarico diplomatico nel conflitto tra Mosca e Kiev. È evidente che Orban agisce secondo interessi ben precisi, come fanno esattamente tutti i politici. Al di là del giudizio sulle politiche del primo ministro ungherese e del suo partito di destra, nell’azione di quest’ultimo emerge però chiaramente un atteggiamento pragmatico e razionale, che comprende e paventa i rischi dell’attitudine guerrafondaia dell’Occidente.

Una posizione, quella di Orban, che non deve essere necessariamente ascritta alla sola destra populista. Infatti, segnali di crescente opposizione alle scelte suicide degli ambienti “mainstream” europei stanno emergendo anche a sinistra e contro i finti partiti progressisti e della sinistra “liberal”. Ne sono esempio il movimento di Jean-Luc Mélenchon in Francia, appena uscito vincitore dalle elezioni anticipate, o quello della deputata Sahra Wagenknecht in Germania, che ha ottenuto un risultato incoraggiante nelle europee di giugno.

Per quanto riguarda le potenzialità dell’iniziativa di Orban, sono al momento poche le speranze di successo. Come già spiegato, l’UE si sta già adoperando per bloccare sul nascere qualsiasi eventuale segnale di speranza. Da Mosca è probabile inoltre che prevalga un senso di scetticismo, visto anche l’esito del vertice NATO tenuto a Washington questa settimana. È però chiaro che la predisposizione allo scontro con la Russia e la preferenza per la guerra a oltranza sono sempre meno condivise dai popoli occidentali, mentre anche alcuni dei governi finora appiattiti sulle posizioni americane sembrano essere sul punto di riconsiderare le proprie scelte.

L’appuntamento delle presidenziali americane a novembre potrebbe segnare in questo senso una svolta e la “missione” di Orban sarebbe quindi un preludio per preparare la strada al negoziato. Nel frattempo, i rischi per il possibile precipitare della situazione non faranno che aumentare. Rischi che il governo ungherese ha valutato attentamente, visto che una guerra aperta tra NATO e Russia implicherebbe un livello di distruzione nel vecchio continente molto difficile da immaginare.

I paesi europei del Patto Atlantico non sono infatti per nulla preparati a un’impresa di questo genere, né sembra esserci coscienza dello sforzo gigantesco e di fatto insostenibile che servirebbe per rendere i sistemi militari europei adeguati a uno scontro con una potenza come la Russia. Evitare il baratro di una guerra e la distruzione di intere società ed economie per prepararsi allo scontro sono insomma anch’esse ragioni sufficienti per sostenere finalmente un’autentica iniziativa diplomatica, al di là del curriculum o degli orientamenti politici di chi intende promuoverla.

La testata on-line Politico ha lanciato un allarme questa settimana per il serissimo problema che l’Europa sarà chiamata al più presto ad affrontare. La questione non ha a che fare con il processo di deindustrializzazione forzata o il venir meno di fonti energetiche a basso costo a causa delle (auto-)sanzioni e delle politiche suicide innescate dalla guerra in Ucraina. Il “problema” a cui si riferisce il popolare sito di news è piuttosto l’atteggiamento del primo ministro della Slovacchia, Robert Fico, diventato subito dopo l’assunzione del suo incarico lo scorso ottobre una delle per ora pochissime voci critiche della campagna guerrafondaia e anti-russa dettata da Washington e sposata in pieno da questa parte dell’Atlantico.

Come già per il caso dell’Ungheria, la coincidenza delle posizioni del nuovo governo di Bratislava con le accuse di essere sul punto di smantellare le fondamenta del sistema democratico slovacco ed europeo è altamente sospetta. I commenti di media e politici atlantisti non cercano nemmeno di dissimulare il collegamento tra le denunce dell’aspirante “dittatore” Fico e le loro fissazioni russofobe. In tutte le dichiarazioni di questi mesi si ribadisce e si denuncia infatti come un crimine imperdonabile l’attitudine conciliante del premier slovacco nei confronti di Mosca.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, in programma sabato prossimo in Slovacchia, l’Europa è così tornata alla carica con le accuse di mettere in pericolo la legalità democratica. Al centro degli attacchi c’è in particolare la riforma della Giustizia del governo sostenuto da una coalizione formata dal partito socialdemocratico di Fico (SMER), da un’altra formazione di centro-sinistra (“Hlas”) e dai nazionalisti del Partito Nazionale Slovacco. Il punto più controverso è la soppressione della procura speciale incaricata di indagare sui casi più eclatanti di corruzione nel paese e che nel recente passato aveva preso di mira soprattutto esponenti del partito di Fico o uomini d’affari ad esso vicini.

L’intervento legislativo in ambito giudiziario era già stato uno dei temi su cui si era basata l’offensiva di Bruxelles contro il governo ungherese di destra del primo ministro, Viktor Orbán, oggetto di varie “procedure di infrazione”. Come nel caso di Budapest, anche per Bratislava si parla ora di un possibile stop al trasferimento di fondi UE. Il deputato europeo per la Slovacchia e vice-presidente del Parlamento Europeo, Martin Hojsík, ha sollecitato misure urgenti nei confronti di Fico se il suo governo dovesse proseguire sull’attuale “percorso illiberale”.

La Commissione Europa sembra per il momento prudente sulla vicenda. La Reuters ha citato un funzionario europeo che spiega come a Bruxelles si stia cercando di mantenere un certo equilibro per non “alienare” ancora di più il governo slovacco. Il ricatto è chiaramente lo strumento preferito dagli ambienti di potere europei per rimettere in riga un membro che intende perseguire politiche indipendenti. C’è però anche il timore che l’isolamento della Slovacchia, dopo l’esperienza ungherese, possa alimentare l’insofferenza che circola dietro le apparenze di unità, in particolare con gli appuntamenti elettorali del prossimo futuro che preannunciano una possibile ondata populista in Europa.

In campagna elettorale e subito dopo il voto dello scorso autunno, Fico aveva insistito sulla necessità di invertire la rotta circa il sostegno all’Ucraina nella guerra contro la Russia. Il leader social-democratico slovacco riteneva economicamente e militarmente insostenibile, oltre che inutile, lo sforzo per prolungare il conflitto. L’argomento è particolarmente caldo per un piccolo paese senza significative risorse come la Slovacchia e, infatti, la vittoria del partito SMER alle urne è stato dovuto alla popolarità della proposta più moderata in politica estera di Fico rispetto al precedente gabinetto atlantista.

Diventato premier per la quarta volta, aveva così decretato la sospensione dell’invio di armi ed equipaggiamenti militari al regime di Zelensky. Anche se per lo più simboliche, le forniture arrivate a Kiev da Bratislava avevano svuotato i depositi di armi slovacchi. La decisione di Fico ha comunque incontrato il disappunto UE, se non altro per il danno all’immagine di presunta compattezza nel sostegno all’Ucraina, già intaccata dalle posizioni ungheresi. Una fermezza, quella europea, che si scontra anche col fatto che Fico, a differenza di Orbán, non ha finora bloccato nessun provvedimento a favore dell’Ucraina in sede UE.

Le manovre per punire Fico e il suo governo sono state così messe in atto rapidamente. Secondo alcuni, ad esempio, il recente ritiro dalla Slovacchia del sistema di difesa antiaereo italiano SAMP/T sarebbe stato deciso come ritorsione nei confronti del nuovo governo. L’opzione più importante è tuttavia il già ricordato congelamento degli aiuti europei, come era stato fatto con l’Ungheria di Orbán. Il procedimento richiede ad ogni modo almeno alcuni mesi e per il momento la minaccia resterà un’arma di pressione su Fico.

L’altro fronte che sembra preoccupare l’Europa è quello dell’intervento del governo slovacco sui media pubblici, secondo Bruxelles invariabilmente per controllare gli organi di stampa e imporre la propria linea, anche in questo caso sull’esempio di Budapest. Fico ha attaccato l’emittente pubblica slovacca (RTVS) per l’atteggiamento “ostile” e “non abbastanza obiettivo”, mentre il suo ministro della Cultura, Martina Šimkovičová, starebbe preparando una proposta di legge per sostituire la rete pubblica con un nuovo soggetto (STaR), secondo Politico “guidato da dirigenti di nomina politica”.

Le critiche rivolte alla Slovacchia per il tentativo di cancellare l’indipendenza dei media appaiono in qualche modo surreali in un clima giornalistico europeo e occidentale in genere dominato da network pubblici e grandi conglomerati privati che agiscono da casse di risonanza dei rispettivi governi. Senza citare poi la censura pura e semplice imposta ai media russi dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina nel febbraio 2022.

In generale, l’Europa sembra riscoprire i valori del diritto e della democrazia quando uno dei suoi membri si discosta dalla linea ufficiale condivisa, negli ultimi due anni riguardo all’Ucraina e alla crociata anti-russa. Il “pericolo” rappresentato dalla Slovacchia di Robert Fico, a un’analisi razionale, impallidisce di fronte alla deriva anti-democratica e autoritaria in cui annega da tempo un’UE che ha essa stessa affossato la propria credibilità e legittimità agli occhi degli europei.

Mentre Orbán e Fico sono sottoposti a pressioni e minacce, nel resto del “giardino” europeo si è ad esempio sempre più vicini alla cancellazione di fatto del diritto di protestare ed esprimere il dissenso contro le politiche dei governi (vedi Francia e Germania). Oppure in Italia viene ratificato un accordo in totale violazione del diritto internazionale con l’Albania per tenere lontani i migranti. Solo di qualche giorno fa è inoltre la notizia del patto sottoscritto dall’Europa con il macellaio egiziano al-Sisi da svariati miliardi di euro, sempre per combattere l’immigrazione clandestina.

Riguardo alla Russia, invece, la democraticissima Europa sta studiando un meccanismo per mettere le mani sui fondi di Mosca congelati – illegalmente – nelle banche europee (300 miliardi di dollari), rubandoli di fatto al legittimo proprietario. Nei giorni scorsi avrebbe ottenuto un ampio consenso la proposta del capo della diplomazia UE, Josep Borrell, di utilizzare gli interessi generati dal denaro russo per acquistare armi destinate all’Ucraina. Infine, se da un lato si eccepisce sulle riforme “anti-democratiche” allo studio a Bratislava, dall’altro si continua a sostenere e glorificare un regime ultra-autoritario e infestato dal nazismo come quello di Zelensky, che ha liquidato tutti i partiti di opposizione, cancellato le elezioni, perseguitato la chiesa ortodossa e represso violentemente il dissenso interno.

La raffica di interventi pubblici di politici europei e di articoli pubblicati sui media ufficiali in merito al “problema” slovacco servono nell’immediato a influenzare l’esito delle elezioni presidenziali del prossimo fine settimana. La carica di presidente in Slovacchia è in larga misura simbolica, ma l’eventuale elezione di un alleato di Fico, come appunto il favorito Peter Pellegrini, toglierebbe all’UE uno strumento per fare pressioni su un premier ritenuto filo-russo e anti-europeista. I sondaggi indicano un certo equilibrio tra l’ex primo ministro e il candidato dell’opposizione liberale europeista, l’ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore negli Stati Uniti, Ivan Korčok. Anche se Pellegrini è in leggero vantaggio, è quasi certo che i due si sfideranno in un secondo turno di ballottaggio.

Per dare un’idea della campagna in atto è sufficiente citare lo “scoop” della testata “investigativa” VSquare, riportata tra gli altri dal britannico Guardian nella giornata di martedì. Su Pellegrini graverebbe cioè una colpa gravissima, come la richiesta, fatta al governo Orbán quando era primo ministro della Slovacchia nel 2020, di organizzare una visita a Mosca un paio di giorni prima delle elezioni, presumibilmente per promuovere la propria immagine tra gli elettori filo-russi. La finta notizia-bomba, com’è facilmente immaginabile, sarebbe arrivata ai reporter di VSquare dall’agenzia di intelligence di un non meglio definito paese europeo. Orbán aveva dato incarico al suo ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, di occuparsi della questione. Pellegrini aveva alla fine avuto modo di incontrare il premier russo, Mikhail Mishustin.

La ridicola “esclusiva” pre-elettorale è stata letteralmente smontata dalla dichiarazione rilasciata dal ministero degli Esteri ungherese: “Se il ministero riceve una richiesta di stabilire o consolidare contatti con altri paesi e la richiesta non è contraria agli interessi nazionali dell’Ungheria, siamo sempre pronti a contribuire. Questa si chiama diplomazia”. Sempre a proposito dei canali di comunicazione tra Budapest e Mosca, il ministro Szijjártó aveva recentemente risposto in questo modo alle critiche del primo ministro ultra-atlantista polacco Donald Tusk: “Il premier polacco resterebbe sorpreso nel sapere quanto è lunga la lista di politici europei che mi hanno chiesto aiuto negli ultimi anni per stabile contatti con i russi”.

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega l’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo, rimane sospesa, mentre i bombardamenti di USA e Regno Unito non hanno indebolito in maniera significativa le capacità offensive del governo di Sana’a, nonostante l’apparentemente enorme differenza delle potenzialità militari tra le due parti.

La sorta di “coalizione” messa assieme da Washington a fine 2023 opera di fatto in difesa del genocidio in corso a Gaza per mano dello stato ebraico. Ansarallah aveva infatti annunciato in precedenza l’intenzione di colpire imbarcazioni commerciali e militari israeliane o legate a Israele come risposta alla strage di civili palestinesi nella striscia. Le operazioni erano state inaugurate con il sequestro di un cargo di proprietà di un miliardario israeliano e in seguito anche le navi americane e britanniche sono diventate bersaglio delle forze armate del governo di fatto dello Yemen.

L’iniziativa americana era stata lanciata con particolare enfasi, vista l’importanza della posta in gioco dal punto di vista economico e strategico. Prima della crisi in corso, dal Mar Rosso e attraverso il Canale di Suez passava circa il 15% del commercio globale. Le forze navali degli USA e degli alleati che hanno deciso di partecipare alla “missione” continuano tuttavia a non essere in grado di rendere sicura questa rotta. Il piano di Ansarallah rimane così un successo. Anche se i danni materiali causati alle imbarcazioni prese di mira finora appaiono relativamente limitati, la sola minaccia che incombe in queste acque è sufficiente a costringere le compagnie a optare per rotte alternative molto più onerose, come quella che circumnaviga il continente africano passando per il Capo di Buona Speranza in Sudafrica.

Sono gli stessi comandi militari degli Stati Uniti a riconoscere la sostanziale inefficacia della “missione”. L’ammiraglio Marc Miguez, comandante della portaerei “Eisenhower” dispiegata nel Mar Rosso, ha spiegato recentemente che i bombardamenti americani hanno inflitto “qualche” perdita agli “Houthis” in termini di missili e droni, ma non c’è oggi alcuna possibilità di prevedere quando sarà concluso il compito della flotta impegnata nelle operazioni contro lo Yemen. Il numero di missili a disposizione di Ansarallah resta infatti un “buco nero per l’intelligence USA”.

Sui media occidentali circolano opinioni allarmate circa la situazione nel Mar Rosso. In molti ritengono che Ansarallah abbia la capacità di continuare a imporre un quasi blocco in queste acque ancora per parecchi mesi. L’accusa più ricorrente è che il governo di Sana’a riceva rifornimenti di armi dall’Iran, ma entrambe le parti hanno sempre negato che sia questo il caso. È evidentemente probabile che esista una certa collaborazione anche in ambito militare, intensificatasi in parallelo alla guerra di aggressione contro lo Yemen scatenata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi nel 2015. Alcuni analisti militari hanno fatto però notare come Ansarallah possa contare su un vasto arsenale offensivo e difensivo di era sovietica, in molti casi riadeguato alle esigenze attuali.

Il governo di fatto dello Yemen, che estende il proprio controllo sulla porzione nord-occidentale del paese della penisola arabica, non è d’altra parte nuovo a sorprese in ambito militare. Sauditi ed emiratini, nella fase calda del conflitto, avevano ad esempio assistito impotenti qualche anno fa ad attacchi rovinosi provenienti dallo Yemen contro alcune delle proprie installazioni petrolifere.

Un paio di settimane fa, poi, i leader di Ansarallah avevano dichiarato di avere introdotto nel proprio arsenale bellico dei missili ipersonici, aggiungendo un ulteriore serissima minaccia ai nemici nella regione. Nei giorni scorsi, invece, per la prima volta un missile da crociera lanciato dallo Yemen era riuscito a sfuggire ai sistemi di difesa israeliani. L’ordigno si era abbattuto senza fare alcun danno in un’area non abitata della città di Eilat, sul Mar Rosso, già colpita da una gravissima crisi economica proprio a causa delle operazioni del governo yemenita.

La campagna di Ansarallah, fatta di sequestri di navi e lancio di missili, ha provocato una contrazione del traffico commerciale nel Mar Rosso del 70% tra dicembre 2023 e marzo 2024. Le grandi navi che trasportano container hanno addirittura fatto registrare un calo del 90%, mentre il traffico di gas è quasi del tutto sparito. Le conseguenze si stanno facendo sentire, oltre che sui costi delle spedizioni via mare, soprattutto sull’economia di Egitto, dove i proventi del Canale di Suez sono crollati, e Israele, con la già citata Eilat che potrebbe a breve assistere a un taglio di circa la metà dei posti di lavoro che ruotano attorno alle attività portuali.

Anche più pessimiste sono le compagnie che operano in questo settore. In un’intervista di inizio marzo, l’amministratore delegato di Hapag-Lloyd, Rolf Habben Jansen, aveva spiegato che la sua società, per evitare qualsiasi rischio, non intende far transitare imbarcazioni nel Mar Rosso fino a che la situazione non si sarà stabilizzata. Secondo Jansen, il blocco imposto da Ansarallah potrebbe persistere per tutto il 2024 o anche continuare nel 2025.

Il danno per governi e compagnie occidentali e israeliane è moltiplicato dal fatto che le navi commerciali e militari di altri paesi hanno facoltà di transitare indisturbate nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. La questione ha dei risvolti anche di natura strategica. Infatti, settimana scorsa l’agenzia di stampa americana Bloomberg ha dato notizia di un accordo tra Sana’a, Russia e Cina per suggellare il passaggio in sicurezza delle imbarcazioni di questi ultimi due paesi nelle acque teatro della crisi. I colloqui si sarebbero tenuti in Oman e, in cambio, Mosca e Pechino avrebbero assicurato allo Yemen “supporto politico”, ad esempio, secondo Bloomberg, sotto forma di appoggio all’interno dei vari organismi internazionali, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza ONU.

L’intesa, anticipata da una visita a gennaio a Mosca di una delegazione di Ansarallah, apre potenzialmente le porte in futuro all’integrazione di uno Yemen pacificato nelle dinamiche che hanno il loro baricentro nel “Sud Globale”, come la possibile adesione al gruppo BRICS, ampliato significativamente proprio nel 2024. Questa ipotesi tocca un nervo scoperto in Occidente, raddoppiando la frustrazione dovuta al fallimento della “missione” anti-Houthis, poiché lo Yemen occupa una posizione geografica strategicamente cruciale, che è peraltro in larga misura alla base della guerra con Riyadh e Abu Dhabi.

L’insuccesso di Stati Uniti e Regno Unito è amplificato infine dalla disparità di risorse impiegate nello scontro in corso negli ultimi tre mesi, tanto da far dubitare della sostenibilità delle operazioni della “coalizione” organizzata da Washington. Mentre Ansarallah agisce con missili o droni del valore di migliaia o al massimo qualche decina di migliaia di dollari, i sistemi di difesa americani utilizzano armamenti infinitamente più costosi. Lo scorso febbraio era stato riportato dalla stampa USA che la Marina americana stava impiegando missili Standard SM-2 da circa due milioni di dollari e, addirittura, Standard SM-6 da quattro milioni ciascuno solo per abbattere droni yemeniti costati appena duemila dollari.

La “missione” nel Mar Rosso promossa dagli USA sta diventando quindi un peso enorme per le casse del Pentagono, senza dare risultati tangibili. Lo spreco di denaro, la distruzione causata dai bombardamenti, i danni economici e quelli materiali alle imbarcazioni registrati finora avrebbero potuto invece essere evitati da serie pressioni americane sul governo israeliano per fermare il genocidio palestinese nella striscia di Gaza.

Con la tregua appena prolungata tra Israele e le forze della Resistenza a Gaza, il livello di distruzione causato dal regime sionista nella striscia è stato mostrato al mondo in tutta la sua drammaticità. Se non esistono giustificazioni per i massacri sistematici e senza precedenti per intensità in rapporto alle dimensioni del territorio colpito e della sua popolazione, anche le motivazioni ufficiali delle operazioni militari, sostenute da Tel Aviv e dai governi occidentali, vengono progressivamente smentite dalle ricostruzioni che stanno emergendo attorno ai fatti del 7 ottobre scorso. Le vittime israeliane seguite all’attacco di Hamas e Jihad Islamica sono state probabilmente causate in buona parte non da queste ultime organizzazioni palestinesi, ma proprio dal “fuoco amico” delle forze armate sioniste.

Alcuni media indipendenti occidentali hanno dato rilievo alle numerose testimonianze dei sopravvissuti al fuoco nelle ore immediatamente successive all’attacco che ha colto di sorpresa Israele. Il racconto degli eventi del 7 ottobre è stato riportato anche da giornali e televisioni israeliane, che hanno così contribuito a disegnare un quadro decisamente più complicato rispetto all’equazione Hamas = terrorismo, propagandato dal regime di Netanyahu e dai suoi sostenitori in Occidente.

La prova più recente è stata segnala dal sito The Grayzone, che ha citato un servizio del network israeliano N12 News su una squadra composta interamente da militari donne, addette alla conduzione di carri armati durante le operazioni del 7 ottobre. Tra queste ultime, un capitano ventenne ha raccontato di avere ricevuto l’ordine, da un soldato “nel panico”, di aprire il fuoco sulle abitazioni che facevano parte del kibbutz Holit, nonostante non era chiaro se all’interno fossero presenti anche civili israeliani oltre a militanti di Hamas.

La stessa testimone ha spiegato che, dopo avere ricevuto l’ordine, aveva chiesto esplicitamente al suo superiore se vi fossero civili negli edifici da colpire. La risposta fu che questa informazione non era nota ai militari, ma che l’ordine era comunque di fare fuoco contro le abitazioni. Nel kibbutz di Holit sarebbero stati alla fine uccisi dieci cittadini di Israele.

Indagini precedenti avevano allo stesso modo evidenziato la risposta indiscriminata delle forze di occupazione all’attacco di Hamas e Jihad Islamica, senza troppi scrupoli per la sorte dei civili israeliani. Sempre The Grayzone la settimana scorsa aveva portato alla luce le vicende relative a un altro kibbutz al centro del blitz palestinese, quello di Be’eri. Qui erano state addirittura 112 le vittime tra i residenti israeliani, tra cui la dodicenne Liel Hetzroni, il cui decesso era stato subito sfruttato dalla propaganda anti-palestinese del regime di Netanyahu.

La causa della morte della bambina israeliana risulta chiara dalla testimonianza della 44enne Yasmin Porat, una dei due sopravvissuti al fuoco dei carri armati di Israele contro l’edificio in cui una quarantina di combattenti di Hamas avevano preso in ostaggio 15 israeliani. La testimone dei fatti ha rivelato alla rete televisiva pubblica israeliana Kan che i militanti palestinesi erano da alcune ore con gli ostaggi all’interno dell’abitazione, quando arrivarono le forze israeliane aprendo il fuoco senza nessun indugio. A morire nell’apocalisse che seguì furono quindi sia i membri di Hamas sia gli ostaggi israeliani. Un’altra conferma delle responsabilità delle forze sioniste è il fatto che il corpo di Liel Hetzroni, così come di altri residenti del kibbutz, non è stato ritrovato perché sepolto dalle macerie provocate dal fuoco devastante dei “tank” israeliani.

La strategia adottata dai vertici militari sionisti nel rispondere all’attacco palestinese lascia intendere che sia stata implementata la cosiddetta direttiva “Hannibal”. Questa disposizione prevista dalle forze armate dello stato ebraico ammette l’uso della forza contro il nemico anche in presenza di ostaggi israeliani. In questo modo viene dato cioè il via libera all’uccisione di questi ultimi per evitare che vengano fatti prigionieri dal nemico. La direttiva risponde alla necessità di limitare o azzerare del tutto il “rischio” di mettere nelle mani della Resistenza detenuti israeliani che possono essere poi scambiati per quelli palestinesi nelle carceri sioniste, spesso in numero maggiore rispetto ai primi.

La direttiva “Hannibal” viene chiamata in causa anche per un altro degli episodi più controversi dell’offensiva di Hamas del 7 ottobre, quello del rave Nova Festival, dove, secondo i dati diffusi inizialmente da Tel Aviv, morirono circa 260 giovani israeliani. Un articolo del quotidiano israeliano “liberal” Haaretz ha citato una fonte interna alla polizia che ha rivelato come, poco dopo l’arrivo dei militanti palestinesi nel luogo dell’evento musicale, fosse stato inviato un elicottero Apache che aprì il fuoco indiscriminatamente senza distinguere tra i combattenti di Hamas e i civili israeliani. Per il pilota del velivolo risultava complicato identificare i palestinesi, visto che indossavano abiti civili, e dopo qualche esitazione iniziale finì per sparare nonostante il rischio di uccidere giovani israeliani. Ad oggi, il bilancio ufficiale della strage al rave Nova Festival è stato alzato a 364 vittime.

La condotta delle forze sioniste il 7 ottobre scorso spiega in buona parte il numero elevato di morti in seguito all’assalto di Hamas e Jihad Islamica oltre i confini della striscia, prima stimato in 1.400 e in seguito ridotto a 1.200. La propaganda israeliana e occidentale che aveva immediatamente descritto atrocità indicibili da parte dei militanti palestinesi, pronti a sparare contro chiunque, nonché a decapitare bambini e a stuprare donne israeliane, è a poco a poco crollata per lasciare spazio a una realtà molto più sfumata.

Ad esempio, la versione di Tel Aviv stride con le testimonianze degli stessi ostaggi israeliani rilasciati da Hamas, molti dei quali hanno assicurato di essere stati trattati con estremo riguardo e confermato che l’obiettivo dei combattenti palestinesi era di portare il maggior numero possibile di israeliani a Gaza. Hamas e Jihad Islamica puntavano evidentemente ad avere molti ostaggi israeliani da scambiare con i palestinesi che affollano le prigioni dello stato ebraico. Per questa ragione, e per limitare la propaganda negativa israeliana e occidentale, le vittime civili dovevano essere limitate al massimo e, infatti, i vertici delle due organizzazioni della Resistenza avevano da subito affermato di avere preso di mira esclusivamente i militari israeliani.

È evidente che il regime di Netanyahu non ordinerà nessuna indagine sui fatti del 7 ottobre, perché il racconto di una violenza cieca da parte di Hamas rappresenta un’arma di propaganda utile a disumanizzare tutto il popolo palestinese e giustificare il genocidio in corso a Gaza. Proprio perché la favola di Hamas indistinguibile dall’ISIS ha invaso i circuiti mediatici mainstream, il regime sionista è stato in grado di incassare il sostegno iniziale di una parte significativa dell’opinione pubblica occidentale.

Con il procedere dei massacri di civili palestinesi e il cedimento della propaganda ufficiale di fronte al dilagare di immagini raccapriccianti dalla striscia, l’opposizione alla strage quotidiana per mano di Israele è però cresciuta come un’onda, fino a mettere in seria crisi sia il regime di Netanyahu, costringendolo ad accettare almeno una tregua.

In attesa della possibile ripresa dei massacri da parte di Israele, resta aperto l’interrogativo posto da un recente articolo della testata on-line libanese The Cradle a proposito della direttiva “Hannibal”: se, cioè, il regime sionista “mostra così poco rispetto per le vite dei suoi abitanti-coloni”, quali speranze di pace e normalità restano al popolo palestinese?


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