La vittoria schiacciante del centrosinistra alle elezioni amministrative consegna alla riflessione politica alcune questioni. La prima – la più importante – riferisce una partecipazione al voto inferiore al 50%, che indica la scollatura ormai profonda tra il sistema politico e i cittadini, tra rappresentanti e rappresentati. Denuncia un sistema dei partiti ormai completamente autoreferenziale e ricorda come siano i gruppi di interesse ed il potere finanziario, e non i partiti, a guidare la macchina.

L’assenza degli elettori dalle urne é la certificazione diretta di come le politiche economiche dei diversi governi abbiano approfondito la crisi di interi blocchi sociali; di come la riduzione del dibattito politico al ciarlare del nulla e l’alternanza di ricette diverse per le medesime pietanze, abbiano spinto a restare in casa chi chiede inversioni di rotta e politiche alternative.

L’uscita di scena della sinistra, da decenni soffocata nell’abbraccio mortale di un centrosinistra che propone le stesse identiche posizioni della destra in politica economica come in quella internazionale, ha fatto si che l’elettorato di sinistra si sia solo in parte mobilitato, e solo di fronte alla sciagurata eventualità di veder tornare i fascisti al Campidoglio.

Questi aspetti, pure qui molto sommariamente sottolineati, non produrranno cambiamenti del panorama politico: verranno annunciate riflessioni, esibite finte costernazioni, ma è circo per le plebi. Gli va benissimo la riduzione all’urlo sguaiato su vaccini e green pass di pezzi del disagio purché non vi sia una vera opposizione politica. Si definiranno preoccupati ma è proprio il contrario, dal momento che il sistema dominante non considera la scarsa partecipazione un elemento negativo, tutt’altro.

Poi, sul piano più direttamente partitico, il voto indica la sconfitta pesante, pesantissima, della destra, pure dai sondaggi accreditata ogni giorno che passa come maggioranza del Paese. Così non è per fortuna.

La sonora batosta patita da Salvini, prima a Milano e poi a Varese, roccaforti del leghismo, racconta come il Carroccio sia rimasto nel cono d’ombra dove il suo leader lo aveva gettato facendo cadere il governo Conte per tentare il colpaccio delle urne. Certo la vicenda del suo capo della comunicazione beccato tra prostituti e droga dello stupro non ha aiutato: infamare per anni con violenza verbale e poi dimostrare che i mali che imputa agli altri ce li ha lui  in casa, ha dimostrato l’ipocrisia e le limitate capacità di discernere l’utile dal controproducente di Matteo Salvini. E le idiozie quotidiane in tempo di pandemia, dove ogni giorno proponeva ricette in contraddizione con quelle del giorno precedente hanno definitivamente convinto una parte del suo elettorato di come non sia lui un'ipotesi credibile e forse nemmeno la Lega la soluzione ai temi del Nord.

L’Italia ha tanti difetti e diversi limiti, ma non è il Papete e la stessa borghesia produttiva del Nord vede ormai il capitone come un ingombro screditato e Giorgetti e Saia come unica uscita politica da una crisi che potrebbe divenire ancor più profonda. E nella competizione fratricida tra Lega e Fratelli d’Italia ha ragione la Meloni a denudare il re: atteggiarsi a opposizione mentre si governa è schizofrenia politica e l’immagine che si fornisce è quantomeno quella della volubilità, dell’opportunismo e dell’inaffidabilità del personaggio, ormai più simile alla sua macchietta che a un leader di partito.

La destra è comunque la vera sconfitta di questa fase politica. Si dimostra che l’uscita di scena “de facto” di Silvio Berlusconi ha tolto alla destra la figura che ha rappresentato per 25 anni il collante tra conservatori e reazionari. Senza Berlusconi seppe leggere l’ansia di riscatto del conservatorismo sospinta dal turbo liberismo, picconando con le sue strutture di comunicazione il senso comune del Paese; senza di lui la destra è tornata ad essere un contenitore di razzisti e fascisti, più o meno reo-confessi. La speranza espressa dalla Meloni che alle politiche si possa riunificare tutta la destra e invertire il trend è destinata a rimanere tale, perché la distanza tra il ceto politico e il bacino elettorale dei conservatori non si sente rassicurato dal predominio fascio-leghista nella destra. E la Meloni in versione pasionaria che si esalta ed entusiasma dal palco dell’organizzazione neonazista e franchista spagnola Vox, davvero rende inutili i maquillage con cui tenta di nascondere l’identità ideologica più profonda sua e del suo partito.

Nello specifico del voto amministrativo ci sono poi elementi specifici di cui tener conto. Certo, la decisione di  Meloni e Salvini di presentare candidati “civici” sì è rivelata un grave errore di lettura politica, vista l’indisponibilità degli elettori a consegnare un mandato in bianco a candidati sostanzialmente sconosciuti. Ma questo potrebbe essere un dato circostanziale, anche se c'è d dire che sono decine i suoi esponenti ed amministratori locali sotto inchiesta per legami con la criminalità organizzata e per reati amministrativi e penali, cosa che mal si sposa con l’esibizione della Meloni del partito dell’ordine e della legge.

Quello che invece appare un elemento strutturale è che la destra non dispone di una classe dirigente e nemmeno di un gruppo dirigente. Infatti non è un caso che la sfida al centrosinistra sia stata affidata a candidati “civici”, bensì ha denunciato la presa d’atto di non disporre nelle proprie fila militanti del personale politico adeguato.

D’altra parte, specie per quanto riguarda il partito guidato da Giorgia Meloni, produrre candidati di partito avrebbe comportato non pochi problemi. Fratelli d’Italia è un aggregato politico di natura fascista, non bastano le frasi furbe o i tentativi di buttare la polvere ideologica sotto il tappeto della propaganda. Non c’è bisogno di scomodare le inchieste di Fan Page per dimostrare il DNA politico, è sufficiente guardare il simbolo stesso di Fratelli d’Italia per scorgere il richiamo ideologico al fascistissimo MSI.

Proporsi come riferimento per no vax oggi come fu per i fans della cura Di Bella ieri, impegnarsi nel dare sostegno politico ad ogni istanza, anche senza una precisa identità ideologica purché caratterizzata dal rifiuto, possibilmente violento, tentare di far dettare dalle minoranze le norme per le maggioranze non è precisamente la maniera per attrarre i voti del ceto medio. Quelli che, in un sistema bipolare, servono per vincere e per perdere.

Il Parlamento europeo protesta per i recenti provvedimenti assunti dalla magistratura nicaraguense, che solo applica le leggi vigenti. Niente di nuovo: pur omogenee a quelle di molti paesi, soprattutto europei, ogni volta che il Nicaragua emette una legge la UE ritiene di dare autorizzazioni che non le spettano, giudizi che non gli competono e sanzioni illegittime e parole ipocrite a coprire i fatti..

I fatti dicono che gli USA attaccano il Nicaragua con l’aiuto della UE e di alcuni narco-stati latinoamericani. L’attacco si fonda su ragioni ideologiche e politiche, non su inesistenti violazioni ai diritti umani. La pressione statunitense ed europea viene esercitata con l’intenzione di aprire una crisi politico-istituzionale e questo a Managua viene preso tremendamente sul serio.

L’Unione Europea si è aggregata con entusiasmo al piano di “eliminazione del comunismo in America Latina” promosso da Donald Trump e proseguito con Biden. Una guerra ideologica condotta sul piano politico, economico e diplomatico per stringere i paesi socialisti latinoamericani in una morsa feroce. Non è un caso che il Parlamento Europeo ha riconosciuto il colpo di stato in Bolivia, mentre condanna e sanziona Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Per il Nicaragua il progetto USA prevede l’abbattimento del governo sandinista e la cattura di Daniel Ortega, quindi l’insediamento di un governo liberale sul modello già conosciuto negli anni ’90. E’ un progetto in piedi dal 2017, non sono perciò le leggi di questi ultimi mesi il motivo di tanta aggressività contro Managua.

Insomma, il colpo di stato venne sconfitto nel 2018, ma il golpismo é ancora vivo e vegeto grazie all’alimento politico e finanziario che riceve dall’estero. Il che è l’aspetto grave della questione, mentre quello paradossale è che mentre si agisce un piano di regime-change violento, si chiede a chi lo subisce di non reagire, pena essere tacciato di dittatura. Insomma: chi attacca la democrazia accusa di essere una dittatura chi la democrazia la difende.

 

Democrazia vs golpismo

Da anni USA ed UE hanno deciso di sostenere sfacciatamente, senza diplomazia o salvaguardia delle apparenze, il rovesciamento del governo votato dai nicaraguensi. Vista l’impossibilità di sconfiggere il sandinismo nelle urne e nelle piazze, si è deciso di logorarlo attraverso un piano di destabilizzazione, finanziato dalla USAID ed elaborato nel 2019, in conseguenza del fallimento della opzione golpista del 2018.  Il piano, con la sigla RAIN, è articolato su vari fronti: ostilità politica e diplomatica, terrorismo, creazione di una nuova Contra, finanziamento alle opposizioni e ai media che si dicono “indipendenti” ma che sono proprietà de facto dagli Stati Uniti. A supporto esterno arrivano sanzioni, pressioni diplomatiche e leggi speciali con pretese extraterritoriali.

Dopo il voto del 7 Novembre, quando ogni ultima speranza di contenere elettoralmente il FSLN sarà seppellita, le quinte colonne interne generanno caos e terrore attraverso atti di terrorismo, guerriglia urbana e attacchi militari nelle montagne a Nord del Paese.

La fase successiva del piano è rivolta al sostegno internazionale al golpe, senza il quale sarebbe immediatamente schiacciato. Alcuni personaggi della destra, presentati come “moderati”, benedetti dalla Conferenza Episcopale e dall’impresa privata, si autonominerebbero “governo in esilio”. Questi verrebbe immediatamente riconosciuto da USA, OEA e UE come avvenne con Guaidò in Venezuela e chiederebbe subito l’aiuto internazionale che arriverebbe sotto forma di “aiuto umanitario”, ovvero con una coalizione militare voluta da Washington, benedetta dalla OEA e appoggiata da Bruxelles.

Questo, in grandi linee, il progetto golpista. Ma pensare che la controintelligenza del Nicaragua dorma è grave errore, almeno quanto quello di credere che i diversi protagonisti arrestati e interrogati stiano zitti.

L’errore di questa parte del progetto destabilizzatore è aver ritenuto che, pur in presenza di provocazioni interne ed internazionali, il Nicaragua avrebbe scelto un profilo basso, evitando lo scontro in ragione di una valutazione di opportunità politico-elettorale. Si è creduto che il FSLN avrebbe accettato una campagna elettorale sfacciatamente diretta dall’estero per ragioni di convenienza politica, di tattica elettorale.

Non conoscono il Nicaragua, non capiscono il sandinismo e non decifrano il Comandante Ortega. Managua non soffre di nessuna sindrome di Stoccolma e non è incline all’abbassare lo sguardo di fronte all’arroganza dei potenti o presunti tali. Il Nicaragua non è iscritto al club degli ingenui ed impotenti e reagisce con la forza e la ragione ai piani eversivi, se necessario in assoluta indifferenza nei confronti delle critiche internazionali. Pronta a spiegare le sue ragioni, non a piegare il Diritto.

Questo non per una superbia politica immotivata, o una presuntuosa autosufficienza o una tendenza all’isolamento politico: semplicemente, reagisce al disegno eversivo che punta al disconoscimento del processo elettorale come premessa alla delegittimazione della sua architettura politica ed istituzionale.

Il governo non si farà dettare l’agenda politica dall’estero. Ritiene che la forza del suo progetto stia nella modernizzazione impetuosa del Paese, nella riconoscenza del suo popolo che ha visto cambiare il suo destino in pochi anni e nella memoria del flagello liberista degli anni ’90. Votano i nicaraguensi in Nicaragua ed è con loro l’interlocuzione politica, non con USA, OSA e UE.

Se gli Usa, dei quali pure si conosce l’influenza ma ai quali non si permette l’ingerenza, volessero aprire un confronto positivo con il Nicaragua, avrebbero tempi e modi per farlo. Se invece continuare a organizzare e finanziare la sedizione golpista, allora faticheranno sempre più a trovare mercenari locali disposti al sacrificio.

Questa è la lezione di questi mesi: il Nicaragua non si inginocchia. L’ingerenza e la destabilizzazione comporteranno l’inevitabile reazione per garantire stabilità e istituzionalizzazione. Il Paese si difenderà e saranno tempi duri per i collaborazionisti.

 

Chi ha paura di Daniel Ortega?

40 anni dopo Reagan gli USA hanno di nuovo sferrato una offensiva diplomatica in America Latina ed Europa composta da richieste e minacce il cui senso è: lasciateci agire, anzi aiutateci, contro il Nicaragua. Spiace scoprire come l’ossessione USA sul Nicaragua trovi echi stonati in qualche esponente progressista, appartenente alla presunta sinistra light, quella dedita all’alternanza e non all’alternativa. Emblematico che il Nicaragua, che a confronto di Messico, Brasile ed Argentina vanta numeri eccezionali quanto a giustizia sociale e sicurezza, sia divenuta il problema del continente. Il tentativo USA é quello di trovare progressisti disposti a sommarsi ai golpisti per isolare Managua.

L’argentino Fernandez non stupisce particolarmente, non si pretende da modesti funzionari di trasformarsi in statisti. Ma scambiare denaro per principi non è mai conveniente e negoziare prestiti con il FMI sulle spalle della propria decenza non comporterà nulla di buono. Il voltafaccia alla solidarietà latinoamericana per compiacere gli USA troverà giorni di amari pentimenti, perché stabilisce un precedente a cui fare riferimento. Peraltro, l’essere stata colpevole di grave ingerenza militare negli anni ’80 contro il Nicaragua (come nel 2020 in Bolivia), suggerirebbe alla Casa Rosada di misurare parole ed atti: l’Argentina che si fa paladina dei diritti umani rasenta la comicità involontaria. Oltre 120 argentini sono in carcere per le proteste di piazza contro il governo Macrì. Fernandez liberasse loro prima di chiedere a Ortega di liberare i golpisti nicaraguensi.

Quanto a AMLO, figura rispettabile, sappia che non sarà accompagnando l’ossessione statunitense contro Managua che si fermerà la destabilizzazione e l’ingerenza USA a Sud del Texas. Solo una scarsa capacità di lettura può far credere che la fame dell’impero si esaurisca col boccone nicaraguense: la pietanza vera è la riconquista del continente. Dichiarare l’orgoglio delle popolazioni indigene e associarsi ai conquistadores è paradossale, come denunciare il golpismo contro il proprio paese ed accettarlo in Nicaragua. Il Nicaragua, lo si deve ammettere, risulta di difficile comprensione per i messicani. I narcos sono pochi e ridotti all’impotenza, non sono l’anti-stato e non controllano il Paese. Le donne non scompaiono per ingrossare la tratta degli esseri umani, la polizia non fa parte della manovalanza narcos e la fame non accompagna il 60% della popolazione. Ma accusare Ortega di poca democrazia mentre si sostiene il Venezuela e si inneggia a Cuba, che hanno agito sulla stessa linea (e ne sono stretti alleati), è pura schizofrenia politica. Si dovrebbe evitare di compiere scelte di politica estera con lo sguardo fissato sul rancore della politica interna. La differenza tra presidenti e leader sta qui: nel saper guardare lontano e non perdere mai di vista testo e contesto. Rompere un vincolo storico mai interrotto nemmeno dai governi peggiori del Messico è un gravissimo errore e colpire la solidarietà continentale mentre ci si propone come leader del continente non ha logica.

Del resto, ancor meno ne ha rivendicare una democrazia come quella brasiliana, che realizza colpi di stato parlamentari, porta gli innocenti in carcere e i militari al governo. Suggerire abbandoni del potere mentre ci si candida per la sesta volta appare sgraziato. Sembra rivedere la scena di quella versione uruguayana di Cincinnato, uomo di sinistra ma amato dalla destra di tutto il mondo, che chiedeva a Maduro, a Raul e a Daniel di ritirarsi, e criticava la coppia presidenziale nicaraguense con lui era presidente e sua moglie presidente del Senato. Facile prevedere che chi pensa di incipriarsi il naso per risultare più carino agli occhi del proprio boia resterà deluso e se oggi vaneggia di democrazia formale scoprirà presto e sulla propria pelle quanto sia difficile trasformarla in sostanziale.

Sebbene solidarietà vorrebbe che le critiche fossero riservate e gli elogi pubblicizzati, non ci si deve stupire troppo. In parte le differenze di vedute sono comprensibili, indubbiamente la storia di ognuno segna i suoi convincimenti. In fondo le elezioni conquistano il governo, le rivoluzioni prendono il potere. Le prime soccombono dinanzi alla forza, le seconde usano la forza per difendersi. La differenza è enorme, è vero. Per questo tutti - nemici, falsi amici e indifferenti – dovrebbero chiedersi: davvero si può pensare di espungere con la forza il FSLN dal Nicaragua? Quanto spreco di denaro ed energie, quanto odio. Quanta potenza dispiegata per risultare comunque impotenti. Sandino cammina sicuro per il Nicaragua, l’affanno è solo dei suoi nemici.

Un tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha emesso martedì una sentenza che minaccia nuovamente il principio della libertà di stampa e il diritto dei cittadini di conoscere i crimini commessi dal proprio governo. Il 33enne ex analista dell’intelligence militare, Daniel Hale, è stato infatti condannato a quasi quattro anni di carcere con l’accusa di avere passato alla stampa documenti riservati sul programma di assassini operato con velivoli senza pilota (droni) durante la presidenza Obama.

La vicenda di Daniel Hale era diventata uno dei simboli della battaglia per la democrazia e i diritti civili in un’America dove i cosiddetti “whistleblowers” sono sempre più bersaglio di vendette legali da parte del governo federale. Hale è stato incriminato in base al famigerato “Espionage Act” dallo stesso tribunale della Virginia che perseguita Julian Assange e nel recente passato ha tenuto a lungo in carcere Chelsea Manning per ottenere una testimonianza contro il fondatore di WikiLeaks.

I guai per Hale erano iniziati nel 2014 alla vigilia della pubblicazione sul sito The Intercept dei documenti sulla campagna con i droni in Afghanistan, dove egli stesso era stato impiegato nella raccolta di informazioni sui possibili obiettivi da colpire. A suo carico erano stati mossi quattro capi d’accusa secondo il già ricordato “Espionage Act” del 1917 e un altro relativo al furto di materiale di proprietà governativa. Nel 2019 sarebbe stato poi arrestato e, dopo essersi dichiarato colpevole di uno solo dei “crimini” imputatigli per evitare una lunga condanna, rilasciato in attesa del processo. A inizio maggio è finito però nuovamente in carcere poiché, secondo lo stesso giudice che lo ha condannato martedì, aveva violato i termini della libertà provvisoria.

Hale era accusato di avere sottratto 36 documenti da un terminale del governo, di cui 23 non collegati al suo lavoro, e di averne consegnati 17, inclusi 11 “segreti” o “top secret”, al giornalista di The Intercept, Jeremy Scahill. Ben lontano da essere un crimine, il gesto di Daniel Hale permise di conoscere alcuni dettagli esplosivi di un programma di assassini mirati che l’amministrazione Obama aveva intensificato enormemente soprattutto in paesi come Afghanistan, Pakistan e Yemen.

La nuova strategia dell’allora presidente democratico era stata propagandata come una svolta nella “guerra al terrore”, in grado di superare gli eccessi del suo predecessore. Hale aveva invece toccato con mano la realtà della nuova campagna di morte, decidendo di rischiare carriera e libertà per fare arrivare alla stampa i documenti che potevano testimoniare quanto accadeva sul campo. Tra le altre rivelazioni pubblicate da The Intercept grazie a Daniel Hale c’era in primo luogo quella che dimostrava l’esistenza di un vero e proprio elenco segreto di bersagli da eliminare “extragiudiziariamente” con i droni.

Inoltre, il materiale riservato dimostrava che, nonostante la pretesa ufficiale dell’amministrazione Obama di utilizzare un programma di bombardamenti mirati con precisione “chirurgica”, circa il 90% delle vittime dei droni erano civili che non facevano parte della lista degli obiettivi da colpire. Il governo USA si era auto-assegnato la facoltà di uccidere in questo modo anche cittadini americani, nei paesi teatro di guerre e non solo, calpestando completamente i diritti costituzionali.

I criteri con cui le direttive di Obama stabilivano i requisiti che facevano di un determinato individuo un obiettivo da essere eliminato sono stati resi pubblici sempre grazie a Hale. Su questo punto l’ex analista militare si è soffermato in una toccante lettera indirizzata al giudice che ha presieduto al suo processo nei giorni precedenti la sentenza. Nel ricordare il lavoro svolto in Afghanistan nell’ambito del programma di bombardamenti con i droni, Hale parlava della depressione che questa esperienza gli aveva causato, dovuta all’impatto emotivo delle scene a cui era stato costretto ad assistere.

Secondo le regole di ingaggio stabilite dal governo, infatti, praticamente qualsiasi maschio adulto che veniva a trovarsi nelle vicinanze di un sospetto terrorista sotto sorveglianza poteva essere legittimamente assassinato. In questo modo, le statistiche ufficiali dell’amministrazione Obama indicavano un numero estremamente ridotto e falsato di “vittime collaterali” civili.

Nella lettera di Daniel Hale emergevano drammaticamente le implicazioni di una guerra combattuta davanti a uno schermo, con la morte di civili innocenti decisa premendo un pulsante. A questo proposito, Hale scrive del peso della responsabilità di far parte di un programma che provocava l’assassinio in modo raccapricciante di “uomini la cui lingua mi era sconosciuta, i cui usi mi erano incomprensibili e i cui crimini non ero in grado di identificare”. Nella stessa lettera appaiono chiare anche le sue conclusioni più generali su un conflitto a cui ha partecipato attivamente. Hale si chiedeva come “si possa credere ancora che per proteggere gli Stati Uniti sia necessario uccidere persone [in Afghanistan] che non hanno avuto nessuna responsabilità negli attacchi dell’11 settembre [2001]”.

La tesi dell’accusa nel processo a Daniel Hale è consistita nel dimostrare che le sue azioni avevano messo a rischio la vita di militari e funzionari di governo, nonché la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In particolare, secondo il dipartimento di Giustizia, due dei documenti che Hale avrebbe passato a The Intercept sarebbero finiti in una “compilation” pubblicata su internet dallo Stato Islamico contenente consigli destinati ai propri combattenti per evitare di essere individuati e colpiti dalle bombe americane. Secondo i legali di Hale non sono state invece presentate prove che il comportamento del loro assistito abbia avuto conseguenze negative di qualsiasi genere. Se anche così fosse, va sottolineato, la responsabilità sarebbe da attribuire a un governo che conduce operazioni illegali dietro le spalle dei propri cittadini e non certo a chi ha contribuito a rivelare pubblicamente questi stessi crimini.

La richiesta dell’accusa era di nove anni di carcere per Daniel Hale, che sarebbe stata la pena più lunga mai inflitta negli Stati Uniti in un caso di questo genere. Il giudice ha optato invece per una sentenza più “mite”, ma l’intero procedimento rappresenta comunque uno schiaffo alla democrazia e rientra in una strategia che i governi americani degli ultimi anni stanno implementando per combattere qualsiasi fuga di notizie riservate, colpendo sia i “whistleblowers” sia, quando possibile, i giornalisti.

Oltre al caso più eclatante, quello di Julian Assange, vanno ricordati Edward Snowden e la già ricordata Chelsea Manning. Altri due casi hanno inoltre riguardato negli ultimi anni la testata The Intercept, sulla quale erano apparsi i documenti ottenuti da Daniel Hale. Uno è quello dell’ex “contractor” dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), Reality Winner, condannata a più di cinque anni di carcere e recentemente messa in libertà vigilata per buona condotta. L’altro, l’ex agente dell’FBI, Terry Albury.

Entrambi sono stati individuati e incriminati dal governo USA a causa di “errori” commessi dallo staff del giornale on-line nel comunicare con le loro fonti riservate. Queste vicende avevano suscitato molte polemiche e sospetti sulla validità di The Intercept come destinatario di materiale governativo “top secret” e, anche se i contorni non sono del tutto chiari, in molti ritengono che la stessa sorte sia toccata a Daniel Hale.

La condanna di questa settimana non promette dunque nulla di buono per tutti coloro che sono presi di mira in questo modo dal governo americano, a cominciare appunto da Assange. Il carattere vendicativo e, allo stesso tempo, intimidatorio dell’accusa è apparso chiaro anche dalla insolita gestione dei capi di imputazione contestati a Daniel Hale. Anche se quest’ultimo si era dichiarato colpevole di uno dei crimini di cui era accusato, i procuratori del governo avevano declinato un accordo che, in genere, prevede di lasciar cadere gli altri capi di imputazione. Al contrario, il dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Biden si è riservato la possibilità di riproporli in un altro futuro processo contro Hale nel caso la sentenza ai suoi danni fosse considerata troppo lieve.

Negli ultimi anni, sia la Russia che la Cina hanno cercato di ridurre l'uso della valuta statunitense nelle loro economie. In particolare, le parti stanno attivamente aumentando gli insediamenti bilaterali in valute nazionali, oltre a sviluppare i propri sistemi finanziari e di pagamento.

Come evidenziato in un rapporto dell'US Congressional Research Service, gli Stati Uniti sono molto preoccupati per le prospettive di de-dollarizzazione in corso in Russia e Cina negli ultimi anni, al fine di rendere le loro economie indipendenti dalla residua influenza della valuta statunitense nel mercato globale.

Il report ha indicato come da più di dieci anni la Russia e la Cina stanno facendo sforzi per ridurre l'uso del dollaro statunitense nelle loro economie, una tendenza che, indicano gli autori dello studio, messa in atto cercando di proteggersi dalle sanzioni di Washington, così come di ridurre l'influenza della politica economica e monetaria degli Stati Uniti.

"Anche se la Russia e la Cina hanno un po' ridotto il loro uso del dollaro nel commercio, entrambi i paesi, come la maggior parte degli altri, dipendono ancora pesantemente dal dollaro. Tuttavia, nel tempo, se gli sforzi di de-dollarizzazione avranno successo, questo potrebbe influenzare le sanzioni statunitensi, l'economia statunitense e, di conseguenza, la stessa leadership economica globale degli Stati Uniti", si legge nel documento.

Gli analisti statunitensi hanno ricordato che dalla seconda guerra mondiale, il dollaro americano è rimasto la valuta di riserva dominante nel mercato globale, il che permette agli Stati Uniti di mantenere una posizione di primo piano nell'arena finanziaria ed economica internazionale, notano gli esperti incaricati dello studio.

"La posizione dominante del dollaro americano nelle transazioni transfrontaliere dà agli Stati Uniti un'importanza e una leva uniche attraverso politiche come le sanzioni finanziarie che impediscono l'accesso al sistema finanziario americano o l'uso del dollaro americano nel commercio internazionale", hanno sottolineato gli autori del rapporto del Congresso americano.

Negli ultimi anni, sia la Russia che la Cina hanno cercato di ridurre l'uso della valuta statunitense nelle loro economie, in particolare, le parti stanno attivamente aumentando gli insediamenti bilaterali in valute nazionali, oltre a sviluppare i propri sistemi finanziari e di pagamento.

Gli analisti statunitensi sottolineano nel testo che il dollaro rimane attualmente una componente importante dell'economia cinese, e la moneta nazionale statunitense occupa circa il 50-60% delle riserve del gigante asiatico. Un fatto che, secondo gli esperti, è giustificato perché gli Stati Uniti sono il più grande mercato di vendita di prodotti della Cina. "Pechino effettua ancora principalmente i pagamenti per le esportazioni verso altri paesi, così come nel quadro del progetto One Belt One Road, in dollari", hanno detto.

Nel frattempo, la Cina sta attivamente prendendo misure per de-dollarizzare la sua economia. In particolare, il paese sta cercando di aumentare l'uso dello yuan negli accordi commerciali con i suoi partner, compresa la Russia.

Negli ultimi anni, la quota del dollaro americano nelle riserve globali è diminuita sistematicamente. Per esempio, nel 2015 la valuta statunitense occupava circa il 66% del volume totale delle riserve finanziarie in tutto il mondo, tuttavia, alla fine del 2020, questo indicatore è crollato a meno del 59%, come evidenziato dai dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

La causa principale dell'adozione da parte di Cina e Russia di una politica finanziaria staccata dal predominio del dollaro statunitense è stata la guerra commerciale condotta da Washington durante la presidenza dell'ex presidente Donald Trump, che ha adottato l'assedio e il contenimento dell'economia cinese e russa come priorità economica del suo governo.

Parlando con RT, Victor Supyan, professore alla facoltà di economia mondiale e affari internazionali della Scuola Superiore di Economia russa, ha detto che l'introduzione da parte degli Stati Uniti di una serie di restrizioni tariffarie su questi paesi ha avuto un impatto negativo sulla posizione del dollaro come principale valuta di riserva del mondo.

"Sotto Trump, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica caotica e non completamente equilibrata nelle relazioni con i suoi partner: hanno imposto sanzioni contro gli alleati europei, il Canada e i paesi del sud-est asiatico. Questo non piaceva a nessuno, ovviamente. Di conseguenza, per assicurarsi contro tali azioni imprevedibili in futuro, gli stati hanno iniziato a passare attivamente a regolamenti in valute nazionali", ha spiegato Supyan.

D'altra parte, il declino della quota del dollaro americano nelle riserve mondiali può essere associato alla crescita del multipolarismo nell'economia mondiale, ha detto l'analista di FG "Finam" Alexey Korenev agli stessi media russi.

"Il mondo sta diventando multipolare e i paesi cominciano sempre più a negoziare tra loro, scavalcando gli Stati Uniti. Penso che questa tendenza continuerà, perché il dominio della moneta statunitense mette gli stati nella posizione di essere dipendenti da un certo "capo" nella persona degli stati. Nessuno vuole questo, specialmente la Russia e la Cina", ha commentato l'analista.

Va notato che negli ultimi sette anni, la proporzione di accordi in valute nazionali tra Mosca e Pechino è aumentata di quasi dieci volte. Se nel 2013-2014, i paesi hanno condotto il 2-3% di tutte le transazioni in rubli e yuan, entro la fine del 2020 la cifra corrispondente era circa il 24-25%, come ha ricordato l'ambasciatore russo in Cina, Andrei Denisov.

Gli esperti dell'US Congressional Research Service hanno notato nel rapporto che la Cina ha ripetutamente mostrato il suo interesse a sviluppare ulteriormente il sistema nazionale di pagamento elettronico e anche a promuovere la propria valuta digitale. Attraverso tali iniziative, la Cina sta cercando di creare opzioni alternative per le reti economiche, finanziarie, commerciali e tecnologiche globali, che sono attualmente controllate dagli Stati Uniti.

"Credo che l'influenza globale degli Stati Uniti diminuirà, semplicemente perché non sono fisicamente in grado di mantenere il dominio che possedevano in precedenza. In questo senso, la Cina è una potenza economica molto potente, che cresce più attiva ogni anno e che probabilmente supererà gli Stati Uniti nei prossimi anni. Il prossimo è l'India. Si presume che entro il 2035 l'India prenderà il secondo posto dopo la Cina, spostando gli Stati Uniti al terzo posto", ha detto Alexey Korenev a Russia Today.

La crisi politica alimentata dal “Russiagate” è tornata a far segnare un nuovo punto critico nei giorni scorsi dopo l’ennesima rivelazione del New York Times sulle manovre della Casa Bianca per ostacolare le indagini in corso sui presunti legami con Mosca. L’occasione per il più recente attacco al presidente Trump è stata offerta dalla notizia che quest’ultimo aveva preso la decisione, nel mese di giugno dell’anno scorso, di licenziare il procuratore speciale che sta indagando sulle fantomatiche interferenze russe nel processo politico americano.

 

Trump ha smentito il rapporto del Times da Davos, dove stava partecipando al World Economic Forum (WEF), ma la notizia era apparsa ancora una volta come il segnale per un’intensificazione della campagna anti-russa da parte degli oppositori del presidente. La decisione di liquidare l’ex direttore dell’FBI, Robert Mueller, era comunque alla fine rientrata. Il consigliere della Casa Bianca, Don McGahn, aveva infatti minacciato di dimettersi piuttosto che trasmettere al vice ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, l’ordine di licenziare Mueller.

 

Il rifiuto di McGahn, che avrebbe poi effettivamente convinto Trump a desistere dal suo intento, era dettato dal timore che una simile mossa si sarebbe ritorta contro l’amministrazione repubblicana, provocando una tempesta politica forse impossibile da contenere.

 

Le conseguenze sarebbero state devastanti per la Casa Bianca, anche alla luce delle più o meno ridicole giustificazioni di Trump per il licenziamento di Muller. Una di queste era ad esempio il fatto che l’ex numero uno dell’FBI era in conflitto di interessi, in quanto considerato in precedenza da Trump per rimpiazzare il direttore della stessa polizia federale, James Comey, a sua volta fatto fuori dal presidente nel mese di maggio.

 

Il vero motivo dell’allontanamento di Comey sarebbe stato evidentemente il tentativo di chiudere la caccia alle streghe del “Russiagate”, nella speranza di fermare l’escalation di attacchi contro la nuova amministrazione. L’offensiva vede come protagonisti determinati ambienti dell’apparato militare e dell’intelligence americano, con la collaborazione del Partito Democratico, per ragioni legate principalmente agli orientamenti strategici internazionali degli Stati Uniti.

 

Se il licenziamento non fu attuato, un nuovo polverone sulla Casa Bianca si è scatenato ugualmente con la diffusione della notizia delle intenzioni di Trump. In particolare, rivelazioni come questa sembrano servire per costruire un’impalcatura legale da parte di Mueller che possa giustificare quanto meno un’accusa al presidente per avere ostacolato il corso della giustizia.

 

Questa strategia va di pari passo con le difficoltà a produrre elementi concreti che dimostrino una qualche collusione tra gli ambienti vicini a Trump e il governo russo per orientare l’esito delle elezioni presidenziali del 2016.

 

In assenza di prove in questo senso, gli sforzi per colpire Trump, fino a rimuoverlo possibilmente dal suo incarico, si concentrano cioè sull’ostacolo alla giustizia, un crimine che negli Stati Uniti prevede appunto l’impeachment. Il procedimento di impeachment potrebbe secondo molti materializzarsi nel caso i democratici dovessero tornare a controllare il Congresso di Washington dopo il voto di “midterm” del prossimo novembre.

 

Intanto, la polemica sulla scampata rimozione di Mueller ha spinto nel fine settimana la leadership democratica al Senato a proporre l’introduzione di una legge specifica che protegga il procuratore speciale da qualsiasi provvedimento deciso alla Casa Bianca. La misura allo studio prevede la creazione di una commissione composta da tre giudici incaricata di esprimere un parere vincolante sulla legittimità di un eventuale licenziamento del procuratore speciale.

 

Ad avanzare questa ipotesi è stato il numero uno del partito di opposizione al Senato, Charles Schumer, con una mossa politica che ha messo in evidenza ancora una volta le vere priorità del Partito Democratico. Il senatore di New York ha manifestato l’intenzione di vincolare il provvedimento su Mueller all’approvazione del bilancio federale, prevista per i primi di febbraio, in modo da blindarlo di fronte alla probabile opposizione dei repubblicani.

 

Significativamente, la proposta di Schumer è arrivata a una manciata di giorni dalla decisione della leadership democratica al Senato di lasciar cadere la richiesta di regolarizzare circa 800 mila immigrati “irregolari”, giunti da bambini negli USA, in cambio del via libera al finanziamento temporaneo delle attività del governo federale, per il quale erano necessari i voti del suo partito.

 

Schumer si era di fatto piegato alle posizioni della Casa Bianca e dei vertici repubblicani, accettando una vaga promessa di portare separatamente all’ordine del giorno del Senato un pacchetto sull’immigrazione, nei termini voluti dai democratici, con poche possibilità di essere approvato. Schumer ha dichiarato d’altronde che “la cosa più importante che il Congresso può fare in questo momento” non è preoccuparsi per la sorte di centinaia di migliaia di giovani immigrati il cui futuro resta nel limbo, ma piuttosto tenere in vita la caccia alle streghe anti-russa guidata da Mueller.

 

La proposta democratica rischia comunque di mettere in imbarazzo il Partito Repubblicano, nel quale le divisioni sul “Russiagate” sono state finora relativamente contenute. Nel fine settimana un paio di senatori della maggioranza si sono espressi a favore di una legge ad hoc che protegga il lavoro di Mueller: la moderata Susan Collins e il “falco” Lindsey Graham. Recentemente, viste le voci che circolavano su un possibile licenziamento di Mueller, era peraltro già allo studio un provvedimento simile, promosso in maniera bipartisan da senatori di entrambi i partiti.

 

Le possibilità che l’idea di Schumer si traduca in legge, considerando anche la quasi certa necessità di superare il veto di Trump, sono ad ogni modo modeste. Alla Camera dei Rappresentanti c’è infatti poco appetito per un’iniziativa in questo senso, come ha confermato domenica il numero uno repubblicano, Kevin McCarthy.

Ciononostante, la proposta di Schumer, la cui carriera politica, va ricordato, è da sempre sostenuta dalle grandi banche di Wall Street, serve in primo luogo come avvertimento alla Casa Bianca. Il messaggio è quello di evitare il siluramento di Mueller per non incorrere in una ritorsione da parte degli oppositori di Trump che, con ogni probabilità, segnerebbe la fine della sua presidenza.

 

Il concetto è stato chiarito efficacemente dall’influente senatore democratico della Virginia, Mark Warner, membro della commissione servizi segreti e notoriamente legato a CIA e Pentagono. Warner ha definito il licenziamento di Mueller una “linea rossa che il presidente non può oltrepassare”. Se ciò dovesse accadere, ha messo in guardia il senatore democratico, sarebbe un “gravissimo abuso di potere” e “tutti i membri del Congresso” sarebbero chiamati alle loro responsabilità “nei confronti della Costituzione e del paese”.

 

Le pressioni sulla Casa Bianca per mezzo del “Russiagate” hanno in definitiva come obiettivo quello di riallineare le scelte strategiche dell’amministrazione Trump a quelle di Obama in merito alle relazioni con Mosca. Con la minaccia dell’impeachment o, comunque, di un’intensificazione della battaglia politica a Washington, i rivali del presidente repubblicano all’interno dell’apparato dello stato intendono far cessare qualsiasi tentativo di distensione tra USA e Russia.

 

Questa campagna ultra-reazionaria ha già dato più di un risultato negli ultimi mesi, determinando in buona parte un’inversione di rotta rispetto alle promesse di Trump in campagna elettorale sul fronte della politica estera. Ciò è apparso evidente, tra l’altro, dall’allontanamento dalla Casa Bianca di figure sgradite all’establishment, a favore per lo più di alti ufficiali militari, ma anche dall’approvazione di rifornimenti di armi “letali” al regime ucraino e dal rilancio dell’intervento in Siria in diretto contrasto con gli interessi del Cremlino.


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