Due milioni e centotrentamila minori italiani tra i tre e i diciassette anni sono in eccesso di peso e quasi due milioni quelli che non praticano attività fisica. Sul totale, la quota percentuale di ragazzi sovrappeso è del 25 per cento e del 23 per cento quella di coloro che non fanno sport. Anche se il trend di chi mangia cibo spazzatura è decrescente così come quello di chi non fa sport, l’ambiente della loro crescita è ancora obesogeno.

L’Italia, secondo l’indagine ISTAT, Stili di vita di bambini e ragazzi, è tra i Paesi europei con i livelli più alti di obesità tra i bambini di età compresa fra i sette e gli otto anni: con una più ampia diffusione tra i maschi e seconda solo a Cipro, nella Penisola è obeso un bambino su quattro. Più grassi quelli che abitano nel Mezzogiorno, soprattutto in Campania, Sicilia e Molise.

A influire sul pesoforma, il contesto familiare e non solo per i comportamenti poco salutari adottati ma, anche, per le condizioni socioeconomiche in cui versa il nucleo famigliare: dove le risorse economiche sono scarse e il livello d’istruzione dei genitori è basso, la quota di minori obesi sale e diminuisce laddove i genitori sono laureati. Il contesto di provenienza così come il gap territoriale incide pure relativamente allo sport: eccezion fatta per la Sardegna, nella maggior parte delle regioni meridionali più di un ragazzo su quattro non svolge attività fisica mentre le percentuali più elevate dei giovani sportivi si rilevano nella provincia di Bolzano, in Friuli Venezia Giulia, in Valle d’Aosta e in Liguria.

E anche in questo caso, entra in gioco lo status socio-economico della famiglia: al più basso titolo di studio corrispondono maggiori livelli di sedentarietà, oltre a esistere una correlazione tra inattività fisica dei figli e passività dei genitori.

Quanto alle abitudini alimentari, quelle più salutari si riscontrano nelle Isole e nel Nord Ovest mentre i giovani consumatori di snack e bibite gassate sono più frequenti nel Mezzogiorno e nel Nord e coinvolge l’8 per cento dei ragazzi che vivono in famiglie nelle quali la condizione sociale e culturale è più elevato contro il 18 per cento di quelli che hanno almeno un genitore in possesso solo della licenza media: in generale, soltanto il 12 per cento consuma quattro o più porzioni di frutta al giorno versus il 28 per cento di chi consuma quotidianamente dolci.

Quella del primo governo Conte è stata una politica dell'accoglienza programmaticamente contraria all'inclusione. A dirlo, il rapporto La sicurezza dell'esclusione, scritto da Actionaid e da Openpolis, che specifica perché il sistema di accoglienza è diventato un privilegio per pochi, per i soli rifugiati o titolari di forme residuali di protezione. Per gli altri, l'integrazione non è più un obiettivo, depennato con l'introduzione dei nuovi CAS, dove i migranti attendono l'esito delle domande d'asilo che nell'80 per cento dei casi sarà negativo.

Conseguenze: caduta nell'irregolarità ed esplosione dell'emergenza, dei fenomeni di disagio sociale e dello sfruttamento. Risultato: aumento del conflitto sociale e del razzismo.

D'altronde con un Decreto (sicurezza) dove i servizi di integrazione vengono concepiti come una voce su cui risparmiare, ridotti a uno spreco da ridurre, sono stati tracciati un percorso di esclusione e una linea politica orientata a intercettare il consenso immediato.

Le nuove regole delle gare d'appalto per la gestione dei centri di accoglienza, volute per razionalizzare il sistema e tagliare i costi, si scontrano con le critiche dei gestori di farvi fronte e delle prefetture di applicarle: tanti i bandi andati deserti o quelli che non riescono a coprire il fabbisogno. Dopo il Decreto sicurezza, il taglio dei finanziamenti per i centri di accoglienza più piccoli è stato del 30 per cento, le gare messe a bando 428 e 134 sono stati i contratti in affidamento diretto. Cosicché la gestione diventa un affair per imprenditori in grado di realizzare grandi economie di scala, penalizzando l'approccio con vocazione sociale e con personale qualificato. Ed è per questo che questo comparto del terzo settore è stato infiltrato da albergatori, titolari di servizi di pulizie e fonte Onlus che si sono improvvisati operatori dell'accoglienza.

Gli Sprar sono stati fortemente ridimensionati e sostituiti con il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproim): i centri più numerosi sono incentivati, penalizzando l'inclusione, finanziando il trattenimento (nei Casi, che dà risposta all'emergenza sbarchi sono diventati soluzione definitiva) e le espulsioni. Alla riduzione di spesa destinata ai centri di accoglienza di circa 150 milioni di euro fa da contraltare l'aumento di quella per i centri per il rimpatrio, per i quali sono stati stanziati 3,8 milioni di euro ma ne sono stati spesi ben 28.

Oltre alla soppressione dello Sprar, il decreto sicurezza poggia su un altro provvedimento: l'abolizione della protezione umanitaria. Sebbene le richieste si siano dimezzate nell'ultimo anno, passando da più di 134mila nel 2018 a 63mila nel 2019, la misura (non necessaria) esaspera l'emergenza reale, quella degli irregolari che lo stesso sistema contribuisce a generare. L'impatto dell'eliminazione della protezione umanitaria è immediato: si traduce nell'aumento della percentuale dei dinieghi che passano dal 67 per cento del 2018 all'80 per cento del 2019, anno in cui il totale di questi sarà intorno a 80mila che andranno a ingrossare le file degli irregolari, diventando più di 680mila. Con l'unica alternativa di essere spediti nei Cpr per poi essere forzatamente rimpatriati. Solo che i posti nei Cpr sono poco più di mille e la media dei rimpatri non supera le 5mila e 600 unità. Occorrerà, dice il rapporto, oltre un secolo e oltre 3,5 miliardi di euro per rimpatriarli tutti. Nel frattempo, rimarranno in strada invisibili.

Nonostante la legge anticaporalato, il caporalato nella Capitanata, in Puglia, continua a essere la forma più diffusa di organizzazione del lavoro e anche in questa passata stagione estiva circa settemila braccianti migranti sono stati la manodopera più a basso costo, quella in condizioni di più grave sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti pericolosi, insalubri, isolati e totalmente carenti dei servizi primari.

A dirlo, il rapporto La cattiva stagione, redatto da Medu che, nei tre mesi estivi, ha prestato assistenza sanitaria e legale a trecentosei persone: per il 93 per cento uomini con un’età media di trentuno anni, provenienti da ventiquattro paesi diversi, principalmente dall’Africa.

In un territorio dove viene coltivato più di un terzo dei pomodori prodotti in Italia ma dove i processi di meccanizzazione della raccolta sono molto arretrati, le condizioni di lavoro dei migranti impiegati sono caratterizzate da irregolarità salariali e contributive, mancato rispetto delle previsioni contrattuali e un metodo illegale, dal reclutamento fino alla retribuzione, che è il caporalato, senza trascurare la penetrazione della criminalità organizzata in tutta la filiera.

Solo il 44 per cento dei lavoratori stranieri ha dichiarato di essere in possesso di un contratto di lavoro e di queste solo il 57 per cento ha detto di ricevere una busta paga; il 73 per cento ha sostenuto di vedersi riconosciuto meno di un terzo delle giornate effettivamente lavorate e il 29 per cento è stato pagato a ora, circa quattro euro, mentre il 30 per cento a giornata, con una retribuzione che oscilla tra i trenta e i trentacinque euro.

Sebbene in seguito alla morte dei dodici braccianti, avvenuta nel 2018 vicino a Lesina, causata da un incidente stradale, i controlli dell’ispettorato del lavoro siano più puntuali e stringenti e siano state istituite delle specifiche task force, i risultati appaiono ancora del tutto insoddisfacenti.

Malattie osteoarticolari e del tessuto connettivo, dell’apparato digerente e quelle infettive sono le patologie più frequentemente riscontrate nei pazienti visitati dal team di Medu, le cui cause sono da ricercarsi nelle pessime condizioni lavorative e igienico-sanitarie che sono costretti a sopportare i migranti, fra i quali è stata rilevata, pure, una consistente percentuale di pazienti con disagio psichico e affetti da sintomatologie di natura psicosomatica.

A rieccoli i "celebratori"di anniversari che si alternano nelle librerie con le presentazioni dei loro volumetti confezionati per ogni circostanza. In genere sono persone che si declamano storici o testimoni della storia, e nella realtà non lo sono o lo sono soltanto in parte. Ma ogni occasione è buona, come usa dire. Figurarsi se si può perdere quella del trentennale della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989), con tutte gli eventi e le manifestazioni in corso da mesi.

Nella sola Italia da nord a sud, da Trento a Ragusa, oltre venti città sono state coinvolte   con oltre cento appuntamenti per   la «Settimana tedesca» organizzata dalla ambasciata di Germania, come informava il Corriere della Sera. Pertanto è più che naturale che fioriscano – come detto - i "saggi rilegati" sugli eventi di grande rilevanza. Se questa è la realtà perché parlarne? Perché, come avrebbe detto Leonardo Sciascia, il "contesto" che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, indispensabili per meglio capire come si fa cultura di questi tempi.

Naturalmente, sarebbe importante cercare una risposta sul perché le aspettative di trent'anni fa, le ipotesi sul futuro si sono rivelate completamente sbagliate, poiché poco o nulla di quello che fu allora scritto, esaltato, sperato si è realizzato. Ma l’argomento non risulta nei programmi del trentennale.

Eppure gli argomenti non mancano. Infatti, non è stato ancora spiegato, perché la RDT presentata come il paese più disciplinato e armato di tutto il blocco comunista, si sia consumata come una candela. Ancora non c’è un perché sul crollo a catena della RDT, della Polonia, dell’Ungheria, della Romania, della Lituania e Lettonia e poi dell’intera Unione Sovietica dal momento che, ogni anniversario è la celebrazione della “fine del comunismo” e non si va oltre. Chi ci tenta - intellettuali, opinionisti, giornalisti - viene scoraggiato, sovente oscurato non invitandolo ai salotti televisivi, e quindi espellendolo di fatto dal "mercato" della rappresentanza politica.

Se così vanno le cose il rischio è, che il Muro e tutti i fatti passati, presenti e futuri diventino per i giovani un’anticaglia. Gli insegnanti di Storia possono ben poco per invertire la tendenza, poiché è arduo il controcanto critico e documentato, sui miti codificati dal mainstream, e amplificati da quei grandi della storiografia come sono considerati i vari Mieli e Augias, Lerner e Angela, corroborati ad ogni occasione dai “celebratori” di anniversari. Tutti ben lontani dal voler, «Far capire che il passato è stato reale come il presente, e incerto come il futuro», come scriveva Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani del Novecento.

Un esempio? La caduta del Muro viene presentata esclusivamente per esaltare la lungimiranza dell'Occidente della liberal-democrazia, secondo il quale è impensabile ogni progetto di società alternativa, come lo era appunto quella del “socialismo realizzato” di cui si vantava l’Unione Sovietica.

Sicché sono state accantonate, meglio ignorate, le critiche da sinistra al socialismo reale di tanti intellettuali dell’Unione Sovietica. Ad esempio quelle de Premio Lenin e Premio Stalin, Andrej Dmitrievič Sacharov, il "padre della bomba H sovietica", che poi (1975) per la sua attività in favore dei diritti civili fu insignito del premio Nobel per la pace.

Fui il primo giornalista italiano (ottobre 1974) che riuscii ad intervistarlo telefonicamente (il Kgb ogni tanto gli liberava la linea, forse anche per la sua “intoccabilità scientifica”). Quando domandai a Sacharov - tra le tante cose - perché non chiedeva il permesso di lasciare il paese, mi rispose di getto: «Io non voglio lasciare l’Unione Sovietica. Il mio compito è qui, tra i miei amici, per portare avanti la battaglia per il riconoscimento dei diritti civili e l’ottenimento delle più elementari garanzie democratiche. Attualmente io sono l’unico, e non lo dico con superbia, in grado di criticare il sistema, firmare petizioni, lanciare appelli, restando impunito.».

Invece, nel 1980 egli fu confinato a Gorkij, nella Regione del Volga. Fu Michail Gorbaciov a riabilitarlo nel 1986. Rientrò a Mosca e nel 1989 fu eletto deputato nel 1989. Morì un mese dopo la caduta del Muro, nel dicembre di quello stesso anno. Il trentennale anche delle esequie di Andrej Dmitrievič Sacharov, ma finora nessuno pare se ne sia ricordato, né a quanto risulta ci sono eventi al riguardo. Probabilmente ne sarà fatto cenno tra qualche giorno (27 ottobre) nel corso della cerimonia del "Premio Sacharov per la libertà di pensiero" che dal 1988 ogni anno il Parlamento europeo consegna a personalità e organizzazioni che si sono distinte nell'attività in favore dei diritti umani.

Per quelli che giovani non sono, il ricordo del dissidente Sacharov rimane emozionante, e quindi per noi diventa assurdo celebrare con spensierata festosità l'Occidente vincitore, che oggi naviga nella più grave crisi della propria storia, per mancanza di idee e di valori a cominciare da quelli della democrazia liberale, che omologa le ineguaglianze, sempre più grandi e vergognose, inimmaginabili  in quel novembre del 1989. E’ su queste realtà che andrebbe stimolato lo spirito critico dei giovani, sicuramente è tra le ragioni più degne di commemorare la caduta del Muro.

Vincenzo Maddaloni

“In questi anni penso che il cambiamento principale sia stato che sono partito da vittima e sono diventato protagonista”. Anche se “nessuno sa di questo impegno, di questi immigrati impegnati nel volontariato: è una fetta che viene nascosta”. Sono due delle tante testimonianze raccolte nella ricerca "Immigrati e volontariato in Italia", condotta da CSVnet e Centro Studi Medi, in centosessantatre città italiane a migranti provenienti da ottanta paesi diversi, principalmente dalla Romania, dal Marocco, dal Senegal, dall’Albania e Perù e per il 4 per cento nati in Italia con un’età media di trentasette anni, pienamente inseriti nella società ospitante, con un titolo di studio medio-alto, fra i quali il 42 per cento ha cittadinanza italiana e sei su dieci lavorano.


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