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C’è sicuramente una cosa assai rilevante che ha fatto il primo governo Conte, concluso un mese fa, di cui non si è parlato quasi per niente. Una iniziativa molto coraggiosa, di cui si è occupata molto invece la stampa internazionale. Con una azione concertata dal Ministero della Salute, in particolare dal competente direttore della Agenzia italiana per il Farmaco (AIFA), Luca Li Bassi, l’Italia si è fatta promotrice nel 2018 di un percorso diplomatico a ostacoli presentando all’Organizzazione Mondiale della Sanita (Oms) una risoluzione con l’obiettivo di esigere dalle grandi multinazionali farmaceutiche trasparenza sul costo dei farmaci. Dunque, per chiedere trasparenza su uno dei segreti meglio custoditi nei circoli industriali di settore: il costo della ricerca e sviluppo di nuovi farmaci.
Accesso ai farmaci: non più un problema solo dei poveri. Il mancato accesso ai farmaci essenziali è storicamente una questione che colpisce I Paesi a basso reddito. Una battaglia per il diritto alla salute che compie venti anni, se vogliamo fissare per convenienza il suo debutto internazionale con la mobilitazione della società civile – inclusi medici e pazienti - alla prima conferenza interministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) a Seattle nel novembre 1999. Per ironia della storia, ma come già era prevedibile allora, il problema è divenuto globale. Anche i Paesi ricchi da qualche tempo devono affrontare ostacoli sempre più insormontabili, sotto il profilo dei bilanci sanitari, per garantire ai loro cittadini le cure essenziali.
Il farmaco più costoso del mondo: 2,125 milioni di dollari. E’ del maggio 2019 la autorizzazione alla vendita negli Stati Uniti del farmaco più costoso della storia, prodotto dalla svizzera Novartis. Si tratta del farmaco Zolgensma, una terapia genetica che si amministra con una sola dose, e che serve per il trattamento pediatrico di bambini di età inferiore ai due anni affetti da atrofia muscolare spinale (SMA). Zolgensma segna uno storico passo avanti nella cura di questa patologia a decorso rapido; è una terapia rivoluzionaria perché si somministra in un’unica dose. Il suo prezzo è di 2,125 milioni di dollari.
Quanto costa davvero la ricerca? E già: quanto costa, veramente, la ricerca per sviluppare un farmaco innovativo? Ogni caso è a sé, e la recente scienza genetica ha cambiato radicalmente gli scenari della ricerca in campo farmaceutico, quindi non è possibile dare cifre e cuor leggero. Da quando è scoppiata la battaglia intorno ai farmaci essenziali, a cominciare dagli antiretrovirali per milioni di persone affette da HIV/Aids nel Sud del mondo, le cifre che stimano il costo della ricerca si sprecano. Sono cresciute di anno in anno. Spesso, gonfiate al punto da diventare titoli di libri di successo (The $800 Million Pill, di Merrill Goozner) che hanno rivelato la capziosa narrazione delle industrie farmaceutiche. La stima più recente è 2,6 miliardi di dollari.
Non è in discussione la logica del profitto. Nessuno mette in discussione la necessità aziendale di fare profitti, ma i medicinali sono beni di utilità pubblica che non dovrebbero sottostare solo a regole commerciali applicate senza sconti su scala globale, senza neppure fare la differenza fra farmaci essenziali e terapie che essenziali non sono. Viceversa, le regole fissate dagli accordi sulla proprietà intellettuale dell’Omc, che trattano le medicine alla stregua di qualsiasi altro prodotto industriale, conferiscono alle case farmaceutiche una posizione sempre più dominante, perché operano in un regime di monopoli brevettuali ventennali.
Ma torniamo a Zolgensma. La Novartis ha dichiarato di aver costruito il costo del farmaco su un “modello di prezzo basato sul valore” (value-based pricing model), assicurando una riduzione del 50% sulle medie di spesa corrente per la cura della SMA, incluso il costo per una terapia di dieci anni per SMA cronica, intorno ai 4 milioni di dollari. Il solo farmaco alternativo in uso, lo Spinraza della Biogen, costa 750.000 dollari per il primo anno, e 375.000 per gli anni successivi. Mentre alcuni analisti finanziari insinuano che il prezzo fissato da Novartis potrebbe diventare un prezzo di riferimento per altre terapie genetiche attualmente in sviluppo.
Ciò che Novartis non dice. E' che Zolgensma, dalla cui vendita prevede un profitto di 2,4 miliardi di dollari l’anno, è frutto della ricerca inizialmente finanziata dalla maratona di Telethon in Francia. Nella fattispecie, da un laboratorio non profit creato apposta, Genethon, che ha lavorato per anni nel campo della atrofia muscolare spinale che paralizza i muscoli e il sistema respiratorio dei bambini, con un investimento tra 12 e 15 milioni degli Euro raccolti con la maratona televisiva. Il team di scienziati aveva scoperto che l’iniezione di un certo “vettore virale” avrebbe potuto correggere il gene difettoso. A marzo 2018, Genethon ha venduto il suo brevetto alla start up americana AveXis, che già aveva nel suo portafoglio di ricerca il Zolgensma, per 15 milioni di dollari. Il mese dopo, AveXis è stata acquistata dal gigante Novartis per 8,7 miliardi di dollari. Questo significa che Novartis ha introdotto nel mercato americano, e aseguire in quello europeo e giapponese, una terapia che è frutto di ricerca finanziata dalle donazioni dei cittadini.
La filosofia performa il prezzo dei farmaci. Come già aveva sperimentato con successo Gilead Sciences, nel 2013, con il farmaco innovativo Sofosbuvir contro l’epatite C (scoperto dalla biotech Pharmasset poi acquisita), lanciato in USA al proibitivo costo di 82.000 dollari per una terapia di 12 settimane, e in Italia al costo di 68.000 Euro, Novartis ha scisso completamente il prezzo del farmaco dal costo del suo sviluppo. Se i governi e le agenzie internazionali come l’Oms accetteranno la filosofia di basare il prezzo dei farmaci sul loro valore intrinseco, questo vorrà dire che i farmaci salvavita finiranno per costare più degli altri. E allora sì che i bilanci pubblici della sanità saranno davvero in pericolo.
* giornalista esperta di salute globale, ha guidato la Campagna per la messa al bando delle mine anti-persona e seguito quella per la cancellazione del debito dei Paesi impoveriti. Ex direttrice di Medici Senza Frontiere Italia
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- Scritto da Tania Careddu
Mancanza di spazi scolastici, insegnanti non formati adeguatamente, ostacoli linguistici, accesso limitato al supporto psicosociale e classi di recupero limitate. Sono queste le più alte barriere che incontrano i minori stranieri nell’accesso all’istruzione in Europa, secondo il rapporto congiunto di UNHCR, UNICEF E IOM, Accesso all’istruzione per i minori rifugiati e migranti in Europa.
In Italia, nell’anno scolastico 2016-2017, erano registrati 634mila bambini non italiani, pari al 9,5 per cento del totale degli iscritti, il 46 per cento dei bambini non italiani era iscritto alla scuola primaria, il 26 per cento a quella secondaria inferiore e il 29 per cento alla secondaria superiore ma mancano dati sull’istruzione pre-primaria e le statistiche si limitano a distinguere tra studenti italiani e non, fra i quali quasi 488mila erano cittadini europei.
Un sondaggio condotto alla fine del 2017 sulla piattaforma Unicef U-Report on the Move, tra gli adolescenti rifugiati e i minori migranti che hanno risposto alle domande, il 49 per cento frequentava solo lezioni di lingua italiana e solo il 30 per cento frequentava regolari lezioni a scuola, con una grande differenza tra le regioni italiane mentre, stando a un sondaggio più recente, l’86 per cento dei ragazzi stranieri ha dichiarato che avrebbe voluto accedere a corsi di formazione. Tuttavia, pochissimi hanno visto esaudire il loro desiderio.
In effetti, il rapporto “Rafforzare l’istruzione dei rifugiati in tempi di crisi”, diffuso il 30 agosto da UNHCR, dice che oltre la metà dei bambini rifugiati non va a scuola: solo il 63 per cento frequenta la scuola elementare rispetto a una media globale del 91 per cento mentre gli adolescenti iscritti alla scuola secondaria sono il 24 per cento contro l’84 per cento della media mondiale. A fine 2018, si calcolavano quasi 26milioni di rifugiati nel mondo e dieci milioni avevano meno di diciotto anni, vivendo situazioni di crisi prolungate.
Per superare le difficoltà, i recenti rapporti pubblicati sostengono che i rifugiati debbano essere inseriti nei sistemi educativi nazionali anziché essere trasferiti in scuole alternative non ufficiali e che possano seguire programmi di studio riconosciuti durante tutto il ciclo dell’istruzione. Anche perché, a oggi, se gli adolescenti rifugiati aggirano le criticità del sistema, riuscendo a concludere la scuola superiore, solo il 3 per cento di loro sarà abbastanza fortunato da proseguire gli studi, una percentuale irrisoria rispetto alla media globale pari al 37 per cento.
E' perciò necessario rafforzare il legame tra le scuole e altri importanti servizi pubblici, come quello sanitario, per assicurare che vengano superati i fattori che contribuiscono a un precoce abbandono scolastico e perseguite le soluzione che garantiscono il proseguimento del percorso accademico.
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- Scritto da Tania Careddu
L’anno scolastico alle porte si apre già con un voto negativo: solo un bambino su dieci può accedere a un asilo nido pubblico. A dirlo, il rapporto Il miglior inizio. Disugualianze e opportunità nei primi anni di vita, redatto da Save the children. L’indagine pilota, realizzata tra marzo e giugno scorso in dieci città italiane - Brindisi, Macerata, Milano, Napoli, Palermo, Prato, Reggio Emilia, Roma, Salerno e Trieste - e pubblicata qualche giorno fa, mostra come le disuguaglianze educative già nei primi anni di vita possano avere conseguenze di lunga durata nell’acquisizione di conoscenze e capacità.
Pur nella consapevolezza che nei primi anni di vita lo sviluppo dei bambini segue percorsi differenti e individuali, dall’analisi svolta su seicentocinquantatre bambini fino ai tre anni, si evince che quelli svantaggiati dal punto di vista della condizione socioeconomica sembrano accumulare un ritardo nell’acquisizione delle competenze matematiche, di lettura e scrittura, fisiche, motorie ed emotive.
Considerando l’occupazione dei genitori, e in particolare delle mamme, la correlazione tra tipologia di lavoro svolto e il non lavoro è molto forte: i bambini con madri disoccupate rispondono in maniera significativamente inferiore rispetto ai figli di madri che svolgono un lavoro, seppure manuale. Sebbene difficilmente da solo, il nido dell’infanzia sia in grado di contrastare con totale efficacia la povertà educativa nei primi anni di vita e sia, invece, dipendente dal livello di istruzione dei genitori, fattore predittivo per lo sviluppo dei bambini.
I bambini che hanno frequentato il nido hanno portato a termine in maniera appropriata gli esercizi proposti nell’indagine, anche quelli provenienti da famiglie meno agiate; particolarmente importante è la durata della frequenza al nido: maggiore è il numero di mesi, più appropriati i risultati cosicchè i bambini le cui famiglie si trovano in condizioni svantaggiate che, però, hanno frequentato il nido per più di due anni sono in grado, comunque, di colmare il gap con i coetanei di diversa estrazione sociale.
Ma le disuguaglianze che appaiono già nei primi mesi di vita non sono inevitabili: stando allo studio, bisogna operare per assicurare l’accesso precoce ai servizi educativi di qualità così come di qualità deve essere il tempo che le famiglie trascorrono con i loro figli in attività efficaci per lo sviluppo precoce delle competenze. Per esempio, dedicandosi alla lettura con loro, rappresentando, questa pratica, un’importante possibilità per lo sviluppo del minore. Ma le misure per garantire ai genitori strumenti per strutturare relazioni di questo tipo sono carenti: mancano politiche che facilitino la conciliazione tra lavoro e famiglia, il sostegno al reddito, un investimento nell’offerta culturale (per tutti) soprattutto nelle regioni italiane più carenti, come Calabria e Campania dove l’offerta è particolarmente scarsa tanto che solo il 2,6 per cento e il 3,6 per cento dei bambini frequenta l’asilo nido.
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- Scritto da Tania Careddu
Se da un lato l’Italia figura tra i pochi paesi OCSE in cui gli immigrati hanno un tasso di occupazione superiore a quello dei nativi, dall’altro la qualità dei posti di lavoro ricoperti è molto spesso bassa. A dirlo, il IX Rapporto “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” del ministero del lavoro e delle politiche sociali, che sottolinea come il contributo in termini di forza lavoro da loro apportato sia notevole. Rispetto al 2017, gli occupati stranieri sono cresciuti di 32mila unità mentre sono diminuiti di sei mila i disoccupati e di undici mila gli inattivi.
Componente sempre più strutturata e stabile nel mercato del lavoro, gli immigrati sembrano essersi lasciati alle spalle il periodo di crisi, registrando un aumento dell’occupazione ma senza dimenticare però i ritardi di quella femminile, l’incidenza degli infortuni e le piaghe dell’integralità. La rilevanza dei lavoratori stranieri incide in specifici settori economici: servizi collettivi e personali, alberghi e ristoranti, costruzioni e agricoltura.
Quasi il 90 per cento di loro ricopre la mansione di operaio. E, però, tutto sommato, il loro livello di soddisfazione a parità di mansioni con gli italiani è elevato, contestano, piuttosto, l’assenza di mobilità professionale e la troppo bassa retribuzione, mentre danno riscontro positivo relativamente alla percezione del clima nelle relazioni professionali.
Problematica, invece, la condizione occupazionale delle donne: oneri di cura e vincoli famigliari, insufficiente partecipazione, scarsa mobilità e bassissime retribuzioni incidono sulla loro posizione, già svantaggiosa. La numerosità del nucleo famigliare, infatti, risulta inversamente proporzionale al livello di inclusione nel mondo del lavoro e tra le diverse comunità si riscontrano notevoli differenze: si va dalle donne ucraine, pienamente occupate e per lo più sole alle pakistane, prevalentemente in coppia con figli e inoccupate.
Preoccupano i dati sugli infortuni: nel biennio 2017-2018, si registra un incremento del 7 per cento, passando dalle 97mila denunce dei primi mesi del 2017 alle oltre 104mila dello stesso periodo del 2018. Fortunatamente, crescono i rapporti di lavoro contrattualizzati, fra collaborazioni e assunzioni a tempo determinato; diminuiscono, però, i percettori di indennità di mobilità e aumentano i percettori di NASPI e i beneficiari di indennità occupazionale agricola.
Si rileva, poi, un incremento delle pensioni del 13 per cento e alla fine del 2018 a percepirle sono 56mila cittadini stranieri. Duecentoventisettemila e 770 cittadini stranieri in cerca di lavoro si sono rivolti ai Centri per l’Impiego con un’interazione sistematica e più attiva rispetto agli italiani, ma solo pochi hanno beneficiato di servizi di consulenza e orientamento, ricevuto un’offerta di lavoro o un’opportunità di formazione regionale. Poco coinvolti anche nel sistema del tirocinio extracurriculare: nel 2018, su 348mila attivati, poco meno di 40mila hanno interessato i cittadini extracomunitari.
“Difficile arrivare a sistemi completamente demand driver come quello canadese ma ci sono enormi margini di miglioramento”, ha commentato, in occasione della presentazione del rapporto qualche giorno fa, la segretaria generale del CEEP, Valeria Ronzitti. “Per il futuro - ha aggiunto il direttore per il Lavoro, l’occupazione e le politiche sociali dell’OCSE, Stefano Scarpetta - bisognerebbe aumentare la partecipazione degli immigrati alle politiche attive, migliorare il riconoscimento delle competenze, rafforzare la formazione linguistica, sostenere il doposcuola e garantire parità di accesso per i figli degli immigrati”.
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- Scritto da Mario Lombardo
La campagna reazionaria lanciata da un paio d’anni negli Stati Uniti, teoricamente per combattere ogni forma di molestie sessuali e diventata famosa in tutto il mondo con lo slogan “#MeToo”, ha iniziato a mostrare questa settimana evidenti segni di cedimento in seguito al crollo del processo penale intentato nei confronti dell’attore due volte premio Oscar, Kevin Spacey.
Un tribunale distrettuale dello stato del Massachusetts ha deciso mercoledì l’archiviazione del caso che vedeva il 59enne Spacey alla sbarra con l’accusa di aggressione a scopi sessuali e percosse. A denunciarlo era stato l’oggi 21enne William Little, il quale aveva conosciuto Spacey una sera del luglio 2016 nel bar Club Car di Nantucket, dove lavorava come fattorino.
Le accuse contro l’attore erano state rivelate in una conferenza stampa nel novembre del 2017 dalla madre del giovane, Heather Unruh, conduttrice televisiva piuttosto nota nell’area di Boston. Dopo avere terminato il suo turno di lavoro, Little aveva avvicinato Kevin Spacey per scattare una fotografia assieme al protagonista della serie “House of Cards”. Spacey, secondo la ricostruzione dell’accusa, avrebbe offerto vari drink alcolici alla sua presunta vittima, insistendo poi per farsi accompagnare nella sua abitazione. Nel corso della serata, Spacey avrebbe molestato ripetutamente Little, il quale, approfittando di un’assenza momentanea dell’attore, sarebbe alla fine riuscito ad abbandonare il locale.
La notizia dell’accusa contro Spacey era stata annunciata con modalità tali da suscitare il maggior clamore possibile. La madre di William Little aveva convocato numerosi giornalisti e, tra l’altro, aveva chiarito l’intenzione della sua famiglia di voler “vedere Kevin Spacey finire in galera”. I guai per quest’ultimo erano in realtà iniziati circa un mese prima, quando l’attore Anthony Rapp lo aveva a sua volta accusato di avergli fatto aggressive “avances sessuali” nel 1986, quando aveva 14 anni e Spacey 26. Spacey aveva sostenuto di non ricordare l’episodio, ma si era scusato pubblicamente per avere tenuto un comportamento inappropriato. L’eventuale reato era comunque ormai prescritto.
Le accuse di Rapp e Little avevano subito scatenato una feroce campagna contro Kevin Spacey, diventato letteralmente da un giorno all’altro una sorta di mostro o maniaco sessuale, costretto a difendersi da una serie di denunce per molestie emerse in rapida successione e tutte o quasi senza altre prove oltre alle testimonianze delle presunte vittime.
L’epilogo del processo appena archiviato a favore di Spacey era apparso inevitabile già nella giornata di lunedì. Un difensore dell’attore americano aveva interrogato William Little circa i messaggi di testo spariti assieme al suo cellulare che avrebbero dovuto costituire la prova più importante delle molestie subite. Secondo la difesa, dal telefono di Little erano stati inviati alla fidanzata e ad alcuni amici messaggi e immagini della serata che avrebbero scagionato Spacey. Per l’attore, infatti, i due avevano soltanto “flirtato in maniera consensuale”.
I famigliari dell’accusatore hanno sostenuto che il cellulare non sarebbe mai rientrato nel loro possesso, anche se la polizia assicura di averlo restituito, mentre la madre di Little ha ammesso di avere cancellato del materiale dal telefono, a suo dire non relativo alla serata con Kevin Spacey. In alternativa, al giudice del processo è stata proposta la consegna di un computer che conterrebbe il backup di quanto vi era sul cellulare, ma la difesa dell’attore ha chiesto e ottenuto un rifiuto perché il materiale sarebbe risultato “inadeguato”.
William Little, inoltre, si è appellato al Quinto Emendamento, rifiutandosi cioè di deporre in tribunale per evitare di auto-incriminarsi. A questo punto, il pubblico ministero non ha potuto che prendere atto del venir meno degli unici due elementi incriminanti – il cellulare e la testimonianza della presunta vittima – così che le accuse sono state lasciate cadere e il giudice ha archiviato il procedimento.
Che il caso fosse traballante era già sembrato chiaro prima dell’apparizione in tribunale di William Little. La sua famiglia aveva presentato una denuncia contro Spacey in sede civile il 26 giugno, ma circa una settimana dopo era stata ritirata, secondo i legali a causa dello “stress” provocato dalla vicenda.
L’intero caso dimostra clamorosamente come la caccia alle streghe alimentata dal movimento “#MeToo” si sia appoggiata quasi sempre su fondamenta legali fragilissime. A riprova di ciò è il fatto che pochissimi degli scandali sessuali creati da stampa e social media sono finiti in tribunale e meno ancora si sono risolti in condanne.
Le sole testimonianze degli accusatori sono state prese come verità inconfutabili dai sostenitori della campagna. In altri casi, atteggiamenti quanto meno ambigui, se non oggettivamente trascurabili, sono stati denunciati come veri e propri atti irreparabili di violenza sessuale. I presunti colpevoli sono stati così trasformati sommariamente in predatori sessuali da emarginare e, non di rado, da ricoprire pubblicamente di insulti. Attori, politici, giornalisti e altre personalità più o meno note della televisione, del cinema e dello spettacolo in genere si sono spesso ritrovati con le loro carriere rovinate.
Lo stesso Kevin Spacey è diventato improvvisamente un paria per l’industria cinematografica americana. Dopo le accuse rivoltegli, il doppio vincitore del premio Oscar è stato vergognosamente escluso dal cast di “House of Cards”, la popolare serie su un immaginario presidente americano prodotta da Netflix, e dal film “Tutti i soldi del mondo” di Ridley Scott. Per quest’ultima produzione, Spacey aveva già girato alcune scene nel ruolo del miliardario J. Paul Getty, ma fu ugualmente licenziato e sostituito da Christopher Plummer.
La parziale rivincita di Kevin Spacey, il quale dovrà comunque affrontare altri procedimenti legali, è stata prevedibilmente riportata dai media americani senza particolare clamore. Il crollo delle accuse nei suoi confronti smonta d’altra parte un’impalcatura costruita a tavolino che i media ufficiali negli Stati Uniti e non solo continuano ancora oggi a sostenere.
Un altro caso nel mirino della campagna “#MeToo” che aveva fatto molto rumore era a sua volta evaporato nei mesi scorsi, confermando la tendenza inevitabile al dissolversi di accuse senza fondamento o, quanto meno, impossibili da provare davanti alla giustizia. All’acclamato attore australiano Geoffrey Rush, premio Oscar per il film “Shine” del 1997, era stato cioè riconosciuto un risarcimento di quasi due milioni di dollari lo scorso mese di maggio in seguito a una causa per diffamazione contro un giornale del gruppo Murdoch, responsabile della pubblicazione di svariati articoli che lo accusavano di avere molestato sessualmente alcune colleghe attrici.
Anche se presentata come una causa progressista per l’avanzamento soprattutto dei diritti e della dignità delle donne, la campagna “#MeToo” non è mai stata nulla del genere. Essa ha anzi assunto da subito caratteri profondamente anti-democratici, in linea con gli orientamenti degli ambienti alto-borghesi che l’hanno promossa e continuano a promuoverla. I diritti delle vittime di violenze sessuali, evidentemente diffuse sia nel mondo dello spettacolo sia in qualsiasi altro ambito lavorativo, non sono in realtà mai stati in cima agli interessi dei fautori della campagna, preoccupati più che altro da questioni che hanno a che fare con la competizione per posizioni di prestigio o con maggiori opportunità di guadagno.
Nel complesso, la campagna “#MeToo” ha assunto da subito una fisionomia doppiamente reazionaria. In primo luogo, essa ha riproposto il tema delle politiche identitarie, sostituendo le questioni sociali e di classe, decisamente più pressanti e per molti versi riconducibili alla piaga delle violenze sessuali, con quelle di genere, e dipingendo la componente maschile della società come se fosse composta interamente o quasi da potenziali predatori sessuali.
In una finta battaglia per la giustizia delle vittime, inoltre, la caccia alle streghe scatenata in questi ultimi anni ha finito per calpestare diritti democratici e procedure legali, gettando in mare la presunzione di innocenza ed emettendo devastanti sentenze pubbliche prima e al posto dei tribunali.