di Michele Paris

“Ricordo benissimo quel viaggio in Bosnia. Atterrammo sotto il fuoco dei cecchini. Avrebbe dovuto esserci una cerimonia di accoglienza all’aeroporto ma fummo costretti a correre sulla pista tenendo le nostre teste abbassate per raggiungere le auto della scorta che dovevano condurci presso una base militare nelle vicinanze”. Con queste parole la candidata alla nomination democratica, Hillary Rodham Clinton, aveva ricostruito la scorsa settimana le circostanze della sua visita a Tuzla nel marzo del 1996 in qualità di First Lady. Il resoconto di un atterraggio avvenuto in condizioni di estremo pericolo rientrava nella strategia messa in campo dalla Senatrice di New York volta ad accreditarsi l’esperienza necessaria per poter ambire alla Casa Bianca in situazioni di crisi internazionale. Dei rischi che Hillary avrebbe corso in quell’occasione non vi è però traccia nei documenti ufficiali; né, d’altra parte, quanti erano presenti in Bosnia quel giorno di 12 anni fa ricordano alcuna minaccia di fuoco nemico.

di Alessandro Iacuelli

La notizia, per chi ha memoria, è di quelle che potrebbero lasciare il segno: la corte d'appello federale degli Stati Uniti, a quanto ci risulta per la prima volta, fornisce un segno di speranza per Mumia Abu-Jamal, annullando la condanna a morte del giornalista radiofonico afroamericano il cui caso è da oltre venti anni una bandiera per il movimento internazionale contro la pena capitale. Sia chiaro: Abu-Jamal non ha affatto ottenuto una grazia. I tre giudici della Corte d'appello del Terzo circuito hanno ritenuto valido il suo verdetto di colpevolezza per l'uccisione di un poliziotto. Questo significa che lo stato della Pennsylvania, che ha la competenza territoriale del suo caso, può decidere di commutare la pena in ergastolo, oppure riaprire un procedimento entro 180 giorni per stabilire se Abu Jamal dovrà essere condannato a morte o al carcere a vita. In pratica, si apre la possibilità di celebrare un nuovo processo che potrebbe concludersi con una diversa sentenza.

di Carlo Benedetti

Non c’è solo la Cecenia a tenere in tensione il Cremlino del nuovo arrivato, Medvedev. Perchè ora - a colpi di kalashnikov e granate - irrompe, sulla scena geopolitica e militare della Russia, il Daghestan, una regione del Caucaso settentrionale (la storia la definisce "paese delle montagne") che confina con la Cecenia e dove la rivolta islamica ha già gettato basi notevoli: con diramazioni nei gangli di quel potere locale che si ritrova arroccato nella capitale Makachkala. Ed è proprio qui (in una terra che si chiamava Avaria prima di prendere il nome musulmano di Daghestan) che esplodono i maggiori conflitti interetnici alimentati da guerriglieri che reclamano il distacco dalla Russia proponendo l’indipendenza come soluzione definitiva. Si ripete, pertanto, lo scenario ceceno (accentuato dalle soluzioni previste per il Kosovo dagli Usa, dalla Nato e, in generale, dalle diplomazie occidentali) e non è un caso se nelle valli daghestane vanno a combattere anche uomini che hanno già sconvolto altre aree caucasiche.

di Bianca Cerri

Spiagge assolate e mari di cristallo? Roba d’altri tempi, oggi la meta più trendy è il Tibet, dove i turisti si recano alla ricerca di pace e spiritualità. Arrampicarsi fino alle cime più alte guidate da uno sherpa pare permetta all’animo di conoscere la beatitudine assoluta. D’altra parte, gli occidentali sono convinti che il Tibet sia una specie di paradiso perduto incontaminato, dove gli abitanti conducono un’esistenza spartana ma armoniosa e non c’è bisogno di leggi per far rispettare l’ordine pubblico, basta il karma. Merito del buddismo, che ha sempre condannato sia la violenza che il materialismo. Insomma, il Tibet sarebbe la Shangri-la dei tempi moderni. Peccato che la storia racconti una verità assai diversa. Fino al 1959 infatti, quando il Dalai Lama andò in esilio, le leggi e l’economia tibetana erano nelle mani dell’oligarchia religiosa e delle autorità militari, tutti gli altri dovevano mettersi al loro servizio.

di Elena Ferrara

Freddi, caldi, congelati, esplosivi, annunciati, insoluti. Sono le definizioni che vengono fuori quando si parla di conflitti (attuali o secolari) sui quali si giocano, spesso, le sorti del mondo. E l’Asia, in questo contesto, è il continente a rischi maggiori. Le notizie che arrivano sono sempre più allarmanti perchè gli scontri in atto - in un crocevia di traffici di tutti i tipi - potrebbero trasformarsi in aperta guerre di secessione evidenziando le divisioni geopolitiche delle sfere di influenza. Sul tavolo dei maggiori conflitti asiatici sono più che mai aperti quelli che si verificano in Israele (un paese che continua la sua lotta armata contro la Palestina senza rispettare le leggi dell’Onu e le proteste della comunità internazionale) e in Iraq dove l’occupazione americana provoca ogni giorno di più danni epocali. E sullo sfondo - dove risalta anche il conflitto interno al Pakistan segnato dall’arroganza del generale Musharraf - si evidenzia sempre più il conflitto con la Turchia che vede i curdi sviluppare la loro lotta per ottenere un proprio territorio nazionale.


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