di Giuseppe Zaccagni

In un Iran segnato da forti problemi economici, da una inflazione galoppante e da polemiche e accuse a livello interno e internazionale, il presidente Mahmud Ahmadinejad e i suoi seguaci (tutti su posizioni ispirate ad un populismo di stampo iraniano e affascinati da grandi ambizioni) cantano vittoria per aver superato la prima parte della prova elettorale, confermando il controllo sulla composizione parlamentare che li dovrebbe portare ad avere i due terzi dei seggi. Escono invece battuti dalle urne quei fondamentalisti alternativi (riformisti) che a Teheran, in particolare, si sono caratterizzati sfidando direttamente lo schieramento favorevole al presidente in carica. Ma i giochi politici, ovviamente, non sono conclusi e si prevedono - in vista di ulteriori ballottaggi - nuove azioni anche per il fatto che i riformisti mostrano di mantenere le posizioni che avevano nell'assemblea precedente, sperando così di avvicinarsi al 20 per cento dei seggi. Tutto fa dire al portavoce della Coalizione dei riformisti, Abdollah Nasseri, che "malgrado le restrizioni, siamo riusciti a disturbare il gioco dei nostri avversari". Seguono a ruota le polemiche sul valore del voto che, secondo la “Guida suprema” del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei, (passato da “padre spirituale” di Ahmadinejad a sponsor del radicale moderato Larijani), deve essere considerato come "un dovere politico e religioso".

di Fabrizio Casari

L’Iraq, da cinque anni, non è più l’Iraq. Gli Usa, dopo cinque anni di guerra, non sono più gli Usa. Cinque anni di guerra possono essere descritti come lunghissimi, ingiusti, feroci, inutili agli scopi dichiarati, utili invece a quelli non dichiarati. La guerra in Iraq, infatti, è la rappresentazione per eccellenza di una guerra imperiale venduta come una crociata liberatrice, una guerra totale venduta politicamente e mediaticamente usando un’immensa menzogna. Quella che raccontava di guerra al terrorismo e armi di distruzione di massa: inesistenti le seconde, inventata la prima. Non c’erano armi di distruzione di massa e non c’era il terrorismo, mentre la sete di accaparramento del petrolio iracheno s’incrociava abilmente con quella delle compagnie petrolifere e delle aziende di contractors. Ma, soprattutto, cinque anni dopo, ci sono centomila iracheni uccisi, quattromila statunitensi morti, seimila reduci suicidi, tre trilioni di dollari di spese militari (ed è una stima per difetto), circa cinquecento miliardi di dollari di spese previste per l’assistenza psicologica ai reduci.

di Elena Ferrara

Pechino sostiene che a “sollecitare” ed “organizzare” le manifestazioni anticinesi in corso a Lhasa è Tenzin Gyatso, il Dalai Lama (1935) che ha gettato via la maschera di uomo che ha sempre cercato, a parole, di accreditarsi come disposto alla collaborazione e all’avvio di processi distensivi. Ma con questa nuova spirale di violenze ed attacchi il religioso - esule in India - sta rivelando il suo vero volto di nemico della Cina e dell’ordine costituzionale. E’ questa, in sintesi, la posizione ufficiale che il governo cinese illustra alle diplomazie di tutto in mondo facendo anche rilevare, con una nota del portavoce del ministero degli Esteri Liu Janchao, che Pechino “proteggerà in modo risoluto la sovranità nazionale e l'integrità territoriale". E questo vuol dire che non ci saranno trattative con quelle forze tibetane che rivendicano l’autonomia nazionale. In tale contesto le fonti ufficiali cinesi ricordano che quando il “Tetto del mondo” fu occupato nel 1903 dalle truppe britanniche i dirigenti di Lasha si appoggiarono agli inglesi per contrastare la Cina. Situazione che fu capovolta nel 1950 quando le truppe di Pechino entrarono in Tibet instaurando un nuovo potere fedele, appunto, alla Cina. Da quel momento di “liberazione pacifica” (come venne allora chiamata l’operazione militare dalla pubblicistica ufficiale di Pechino) si registrò il trasferimento di popolazioni cinesi nella regione per diluire la componente etnica tibetana.

di Eugenio Roscini Vitali

Quando si parla di Ulster non si può non parlare della Provisional Irish Republican Army (PIRA), un binomio indivisibile che ha caratterizzato la storia nord-irlandese e le cui radici vanno ricercate nello scontro tra il movimento indipendentista cattolico di ispirazione repubblicana e le truppe di occupazione britanniche. Uno conflitto che molti hanno voluto etichettare come scontro inter-religioso tra cattolici e protestanti, nel quale i Provos avrebbero avuto il solo ruolo di gruppo terroristico, ma che rappresenta invece la lotta di liberazione del popolo gaelico dall’occupazione britannica. Un radicato spirito anticoloniale che nel tempo è entrato a far parte dello spirito stesso del popolo irlandese, iniziato nel XVI secolo con la guerra dei Tudor ed esploso nuovamente nel 1969 con gli scontri di Belfast e Derry e le sanguinose repressioni messe in atto dall’esercito inglese; alimentato dalla rabbia scaturita da secoli di abusi, soprusi e prevaricazioni sociali, dalla negazioni dei fondamentali diritti civili e dall’esasperante sordità delle autorità britanniche.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Si aprono di nuovo gli archivi della vecchia Unione Sovietica e sulla Cecenia si leggono altre pagine di verità relative all’arco di tempo che va dal 1922 al 1934. Sono gli anni di Stalin e della polizia politica (la Ogpu) diretta da quel potente Ghenrich Grigor’evic Jagoda che nel 1938 sarà comunque fucilato... Ora nei sotterranei della Lubjanka - sede da sempre dei servizi repressivi - e del Cremlino si allineano chilometri di documenti, relazioni, rapporti stenografici, lettere, confessioni e denunce. Tutto in relazione alla situazione interna sovietica e al controllo della polizia e dei servizi militari. I dossier sulla Cecenia di quei tempi sono, a dir poco, impressionanti. Li troviamo - grazie ad una rara possibilità che ci è stata offerta - allineati in moderne scaffalature, e sappiamo che verranno inclusi in una opera monumentale intitolata “Dalla Lubjanka a Stalin sulla situazione del Paese”: 6127 pagine di documenti originali che comprenderanno tutti i rapporti di polizia che arrivavano sui tavoli del Cremlino e, in particolare, nella scrivania di Stalin. Nessun ritocco, nessun commento fuori luogo, solo testi e “mattinali” redatti con lo stile tipico delle questure di quei tempi. E, ancora una volta, la realtà supera l’immaginazione.


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