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- Scritto da Michelangelo Ingrassia
La sala della libreria Feltrinelli si riempie nel volgere di pochi minuti. Tutto si svolge nella rigorosa osservanza della normativa anti-covid ma anche nel rassegnato rispetto della tendenza del momento, ossia la volontaria e volenterosa autoesclusione dei giovani da eventi particolarmente impegnativi. I meno anziani dei partecipanti hanno da poco raggiunto o superato i cinquant’anni d’età e tutti, chi da alunno delle Elementari e chi da studente degli Istituti superiori, hanno fatto in tempo a vivere gli anni della lotta sociale nelle sue molteplici versioni: extraparlamentare, armata e sindacale; dalle conquiste dell’autunno caldo alla soppressione dell’indicizzazione dei salari al costo della vita.
Al conflitto e all’esclusione sociale nel nostro tempo è dedicato l’incontro, che trae spunto dal libro di Victor Matteucci: “Gli estranei. Underclass e identità borderline” (Prefazioni di Mauro Laeng e Rita El-Khayat, con un contributo di Alberto Franceschini, Nuova Ipsa editore).
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- Scritto da Massimo Angelilli
“Nei primi due anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15.000 dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo 163 milioni di persone sono cadute in povertà a causa della pandemia.” Questo non è un estratto da un documento di un sindacato di base, ma l’incipit di un articolo del Sole 24 Ore.
A rinforzare la dose e la tesi, è sopraggiunta la lettera di 102 ultramiliardari, autonominatosi “Milionari patriottici”, nella quale esortano i governi di tutto il mondo a fargli pagare le tasse. Più tasse. No, non è uno scherzo né tanto meno l’effetto di qualche sostanza psicotropa; campeggia nelle prime pagine dei maggiori quotidiani e nelle aperture dei tg. In occasione del World Economic Forum, in corso a Davos in Svizzera, dove ha sede l’organizzazione, questo manipolo di super-ricchi ha reso pubblica una lettera nella quale mette nero su bianco una esortazione sorprendente; tassateci di più, tassateci ora.
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- Scritto da Massimo Angelilli
Nell’immaginario collettivo dell’idiozia, che qui va alla grande, c’è un termine che tra i tanti ha preso il sopravvento: dittatura. Malauguratamente legato al periodo di emergenza pandemica, combina l’espressione emblematica di questo tempo, “dittatura sanitaria”, che ormai tutti conosciamo. Limitandoci al solo esempio italico, la maggioranza del composito e inquietante mondo no vax guarda con simpatia alla destra estrema. Quella che in nome del diritto a non vaccinarsi ha assaltato la sede della CGIL il 9 ottobre. Quella patriottica della Meloni e che invece è da intendersi sovranista-nazionalista-orbanista. Quella, infine, che troppo bonariamente viene riconosciuta come nostalgica. Ma nostalgica di cosa?
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- Scritto da Sara Michelucci
Nuova edizione per la rassegna gratuita di film in lingua francese sottotitolati in italiano, organizzata in collaborazione con l'Institut Français Italia, che quest'anno si aprirà con una giornata di lavori Italia - Francia - Europa, dedicata al cinema come mestiere.
Un viaggio nel mondo che cambia e dentro alcune questioni cruciali del presente e del passato recente: lo promette GemellArteOff, rassegna gratuita di film in lingua francese sottotitolati in italiano grazie all'archivio messo a disposizione dall'Institut francais - If Cinema, in calendario fra l'11 novembre e il 2 dicembre in quel di Terni, giunta alla sua terza edizione.
"Costola" di GemellArte, Festival internazionale di arte contemporanea che rilancia i gemellaggi esistenti fra le città attraverso l'arte, organizzato dalla casa editrice Gn Media con il patrocinio dell'Ambasciata francese in Italia e dell'Institut français Italia, la rassegna GemellArteOff è curata anche quest'anno dalla giornalista Sara Michelucci e da
Fabrizio Borelli, regista, fotografo e presidente di X-Frame Aps, che presenteranno e commenteranno i film in calendario, e prevede due importanti novità.
La prima è nell'apertura della rassegna con una giornata di lavori dal titolo: "Cinema e visioni contemporanee - Cinema come mestiere" che il 4 novembre, dalle 11 alle 18, vedrà confrontarsi tanti relatori italiani e francesi sul futuro delle professionalità del cinema e dell’audiovisivo alla Bct -Biblioteca comunale di Terni, fra cui si annoverano rappresentanti dell'Ambasciata di Francia in Italia, dell'Umbria Film Commission (recentemente tornata in attività), della Confederazione di Unione delle professioni intellettuali (Ciu) e della Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media Impresa (Cna).
Si vuole sottolineare che il cinema non è solo intrattenimento, ma, appunto, un importante settore lavorativo, una fucina di professionalità da valorizzare. La sessione pomeridiana dell’incontro si aprirà con la prima delle proiezioni di GemellArteOff: il film documentario Isole, di Karine De Villers e Mario Brenta, che racconta la contemporaneità, il mondo durante il Covid, unendo gli sguardi di oltre settanta “coautori” provenienti dai cinque Continenti. Il film sarà occasione per un scambio di idee sul rapporto tra modello produttivo e costruzione dell’opera cinematografica, a partire dal confronto con il regista.
Mentre la rassegna vera e propria prenderà il via l'11 novembre e, come è ormai consuetudine, si terrà ogni giovedì nella Sala dell'Orologio del Caos - Centro arti opificio Siri, alle ore 18, e terminerà il 2 dicembre (con appuntamenti anche il 18 e il 25 novembre).
Ne saranno protagoniste quattro pellicole presentate in alcuni dei maggiori festival del mondo, e che recano la firma di registi prestigiosi come "Adults in the Room", diretto
dal greco naturalizzato francese Costa-Gavras e mai distribuito in Italia.
Il film racconta la drammatica crisi, politica e sociale, che scaturì dai sacrifici enormi imposti dall’Unione europea al popolo greco a fronte della profonda crisi del debito pubblico. A distanza di oltre dieci anni e in un contesto ormai mutato, il film spinge ad una profonda riflessione sul rapporto tra cittadini e istituzioni. La rassegna quindi prosegue indagando temi forse meno noti ma non per questo meno interessanti come "Systeme K", documentario diretto da Renaud Barret che svela la precarietà della condizione artistica e della vita in generale a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, e ha conquistato la menzione speciale "Film per la pace" al Festival del cinema di Berlino del 2019.
Con "Sympathie pour le diable", con la regia di Guillaume De Fontenay, si torna nell'ex Jugoslavia del 1992 e all'assedio di Sarajevo, visto dagli occhi di un reporter di guerra,
mentre "Les eblouis" di Sarah Suco racconta la vita di una comunità cattolica integralista attraverso lo sguardo di una dodicenne, protagonista di una difficile battaglia per affermare la sua libertà e salvare i suoi fratelli e sorelle.
La seconda novità è invece nel risvolto ancora più internazionale conosciuto da GemellArte Off, che a partire da quest'anno conoscerà uno sviluppo anche sul fronte francese, con la manifestazione che in parallelo offrirà un evento dedicato al cinema italiano e alle produzioni italo-francesi a Saint-Ouen sur Seine - città legata a Terni da un gemellaggio che proprio nel 2021 compie 60 anni – alla presenza di registri, autori, produttori ed attori che ne condivideranno i contenuti in momenti di dibattito pubblici. L'iniziativa è realizzata da Gn Media in collaborazione con il Comune di Terni, X-Frame Aps, Macchine Celibi, con il patrocinio di Ambasciata di Francia in Italia, Institut français
Italia, Confederazione di Unione delle professioni intellettuali, La Francia in scena, Bct -Biblioteca comunale Terni, Siae.
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- Scritto da Michele Paris
Mentre il verdetto del processo in corso a Minneapolis contro l’agente accusato della morte del 46enne afro-americano George Floyd è atteso per questa settimana, il ritmo con cui le forze di polizia continuano a uccidere negli Stati Uniti non dà alcun segno di rallentamento. Dall’inizio del procedimento contro Derek Chauvin il 29 marzo scorso, la media dei morti per mano di poliziotti è stata di tre al giorno. Questa strage, che ammonta a oltre mille decessi ogni anno, è la conseguenza della brutalità e di una cultura della violenza dilaganti tra molti membri di forze dell’ordine che operano in un clima sociale esplosivo, come appunto quello americano.
La morte e l’impunità che ne conseguono nella stragrande maggioranza dei casi sono anche il risultato di un’impalcatura pseudo-legale che protegge di fatto gli agenti responsabili. Secondo una ricerca indipendente citata nel fine settimana dal New York Times, nel 98,3% dei casi di morti provocati dalla polizia tra il 2013 e il 2020 non ci sono state incriminazioni. Nei pochi casi in cui gli agenti accusati di omicidio sono finiti alla sbarra, pochissimi sono stati condannati e ancora meno a una pena significativa.
Lo spazio dedicato ai testimoni della difesa nel processo per la morte di George Floyd ha dato spunti interessanti in questo senso. La morte di Floyd era avvenuta nel maggio del 2020 dopo che l’agente Chauvin lo aveva costretto a terra per quasi dieci minuti con un ginocchio premuto sul collo. Per gli “esperti” della difesa, il poliziotto avrebbe agito in modo legittimo e secondo le regole di addestramento ricevute. Anzi, secondo un ex agente di polizia della California, ora consulente per i casi di “uso della forza” che finiscono in tribunale, mentre era in agonia, Floyd sarebbe rimasto disteso in maniera “confortevole”.
Per un altro consulente della difesa, l’ex medico legale David Fowler, a provocare la morte di Floyd non sarebbe stata l’asfissia causata dalla manovra di Chauvin, ma una o più cause diverse, come l’esposizione al monossido di carbonio emesso dal tubo di scarico di una vicina auto della polizia, l’effetto di droghe che avrebbe assunto la vittima oppure le patologie di cui soffriva, come alta pressione e disturbi cardiaci. Chauvin, inoltre, avrebbe addirittura agito con moderazione, poiché si trovava in una situazione di pericolo a causa della folla che si era radunata e che chiedeva disperatamente alla polizia di lasciare Floyd per permettergli di respirare liberamente.
Tutti questi artifici pseudo-legali sono la norma nei casi che coinvolgono agenti di polizia responsabili di violenze e assassini ingiustificati. Se si considera che degli oltre mille americani morti ogni anno in questo modo solo una manciata di episodi si infilano nel ciclo delle notizie a livello nazionale e internazionale, è facile comprendere come la maggior parte dei casi venga con ogni probabilità insabbiata. Solo quando le violenze raggiungono il pubblico perché registrate da testimoni o dalle telecamere che gli agenti di polizia dovrebbero portare in servizio si innesca un qualche dibattito pubblico e, sempre più frequentemente, esplodono manifestazioni di protesta.
Proprio il numero quasi incredibile di morti provocati dalla polizia americana e, a ben vedere, anche l’esistenza di una rete legale di protezione degli agenti che commettono atti di brutalità smentisce totalmente la tesi delle “mele marce”, sostenuta dai politici e dai vertici delle forze di sicurezza USA. Più in generale, la piaga della violenza della polizia mostra la vera faccia e il vero ruolo di quest’ultima, quello cioè di reprimere le fasce più deboli della popolazione in parallelo all’intensificarsi delle tensioni sociali.
Ciò è confermato inoltre dall’identità delle vittime. I media ufficiali negli Stati Uniti insistono sull’elemento razziale nello spiegare il comportamento della polizia, ma un’osservazione più approfondita rivela una realtà diversa. È vero in effetti che l’incidenza delle morti per opera della polizia è più alta per gli afro-americani e gli ispanici, ma in termini assoluti sono i bianchi a costituire il numero maggiore di vittime. Quello che accomuna piuttosto la grandissima parte dei morti è la loro appartenenza alla “working-class”.
L’altra faccia della medaglia di questa situazione è la violenza che le forze dell’ordine mettono regolarmente in atto quando si tratta di soffocare le proteste, per non dire rivolte, che seguono ai casi come quello di George Floyd o, nei giorni scorsi sempre a Minneapolis, di Daunte Wright. Questo 20enne afro-americano è stato ucciso durante un banale controllo mentre era alla guida della sua auto. Una poliziotta lo ha colpito più volte sostenendo di avere confuso la sua pistola con il “taser” in dotazione agli agenti.
La morte di Floyd lo scorso anno aveva provocato un’ondata di proteste senza precedenti in moltissime città americane, accolte dal dispiegamento massiccio di forze di polizia e di uomini della Guardia Nazionale. Agli scontri avevano spesso partecipato anche gruppi paramilitari di estrema destra, alimentati in più di un’occasione dalla retorica dell’allora presidente Trump.
Durante le recenti manifestazioni in Minnesota dopo la morte di Daunte Wright si è assistito nuovamente al ricorso a metodi durissimi da parte della polizia, in azione su ordine delle autorità politiche pronte a dichiarare lo stato di emergenza. Particolarmente inquietanti sono stati gli episodi che hanno coinvolto alcuni giornalisti che stavano coprendo gli eventi. Svariati reporter americani hanno denunciato maltrattamenti e percosse da parte degli agenti nonostante fossero chiaramente identificati come membri della stampa.
Questi eventi straordinari hanno spinto anche alcuni media “mainstream” a emettere comunicati di ferma denuncia del comportamento della polizia. La presidente del gruppo a cui fa riferimento USA Today ha ad esempio definito il trattamento riservato ai giornalisti dalla polizia di Brooklyn Center, dove è avvenuto l’omicidio di Daunte Wright, come “tattiche deliberatamente intimidatorie”.
Le stesse immagini sconvolgenti potrebbero ripetersi nei prossimi giorni nelle strade di Minneapolis e di altre città degli Stati Uniti se il processo per la morte di George Floyd dovesse risolversi in un’altra farsa. Sindaci e governatori in tutti gli Stati Uniti hanno infatti già mobilitato un numero record di poliziotti e membri della Guardia Nazionale in previsione di nuove mobilitazioni popolari contro la brutalità della polizia americana.