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- Scritto da Michele Paris
Mentre il verdetto del processo in corso a Minneapolis contro l’agente accusato della morte del 46enne afro-americano George Floyd è atteso per questa settimana, il ritmo con cui le forze di polizia continuano a uccidere negli Stati Uniti non dà alcun segno di rallentamento. Dall’inizio del procedimento contro Derek Chauvin il 29 marzo scorso, la media dei morti per mano di poliziotti è stata di tre al giorno. Questa strage, che ammonta a oltre mille decessi ogni anno, è la conseguenza della brutalità e di una cultura della violenza dilaganti tra molti membri di forze dell’ordine che operano in un clima sociale esplosivo, come appunto quello americano.
La morte e l’impunità che ne conseguono nella stragrande maggioranza dei casi sono anche il risultato di un’impalcatura pseudo-legale che protegge di fatto gli agenti responsabili. Secondo una ricerca indipendente citata nel fine settimana dal New York Times, nel 98,3% dei casi di morti provocati dalla polizia tra il 2013 e il 2020 non ci sono state incriminazioni. Nei pochi casi in cui gli agenti accusati di omicidio sono finiti alla sbarra, pochissimi sono stati condannati e ancora meno a una pena significativa.
Lo spazio dedicato ai testimoni della difesa nel processo per la morte di George Floyd ha dato spunti interessanti in questo senso. La morte di Floyd era avvenuta nel maggio del 2020 dopo che l’agente Chauvin lo aveva costretto a terra per quasi dieci minuti con un ginocchio premuto sul collo. Per gli “esperti” della difesa, il poliziotto avrebbe agito in modo legittimo e secondo le regole di addestramento ricevute. Anzi, secondo un ex agente di polizia della California, ora consulente per i casi di “uso della forza” che finiscono in tribunale, mentre era in agonia, Floyd sarebbe rimasto disteso in maniera “confortevole”.
Per un altro consulente della difesa, l’ex medico legale David Fowler, a provocare la morte di Floyd non sarebbe stata l’asfissia causata dalla manovra di Chauvin, ma una o più cause diverse, come l’esposizione al monossido di carbonio emesso dal tubo di scarico di una vicina auto della polizia, l’effetto di droghe che avrebbe assunto la vittima oppure le patologie di cui soffriva, come alta pressione e disturbi cardiaci. Chauvin, inoltre, avrebbe addirittura agito con moderazione, poiché si trovava in una situazione di pericolo a causa della folla che si era radunata e che chiedeva disperatamente alla polizia di lasciare Floyd per permettergli di respirare liberamente.
Tutti questi artifici pseudo-legali sono la norma nei casi che coinvolgono agenti di polizia responsabili di violenze e assassini ingiustificati. Se si considera che degli oltre mille americani morti ogni anno in questo modo solo una manciata di episodi si infilano nel ciclo delle notizie a livello nazionale e internazionale, è facile comprendere come la maggior parte dei casi venga con ogni probabilità insabbiata. Solo quando le violenze raggiungono il pubblico perché registrate da testimoni o dalle telecamere che gli agenti di polizia dovrebbero portare in servizio si innesca un qualche dibattito pubblico e, sempre più frequentemente, esplodono manifestazioni di protesta.
Proprio il numero quasi incredibile di morti provocati dalla polizia americana e, a ben vedere, anche l’esistenza di una rete legale di protezione degli agenti che commettono atti di brutalità smentisce totalmente la tesi delle “mele marce”, sostenuta dai politici e dai vertici delle forze di sicurezza USA. Più in generale, la piaga della violenza della polizia mostra la vera faccia e il vero ruolo di quest’ultima, quello cioè di reprimere le fasce più deboli della popolazione in parallelo all’intensificarsi delle tensioni sociali.
Ciò è confermato inoltre dall’identità delle vittime. I media ufficiali negli Stati Uniti insistono sull’elemento razziale nello spiegare il comportamento della polizia, ma un’osservazione più approfondita rivela una realtà diversa. È vero in effetti che l’incidenza delle morti per opera della polizia è più alta per gli afro-americani e gli ispanici, ma in termini assoluti sono i bianchi a costituire il numero maggiore di vittime. Quello che accomuna piuttosto la grandissima parte dei morti è la loro appartenenza alla “working-class”.
L’altra faccia della medaglia di questa situazione è la violenza che le forze dell’ordine mettono regolarmente in atto quando si tratta di soffocare le proteste, per non dire rivolte, che seguono ai casi come quello di George Floyd o, nei giorni scorsi sempre a Minneapolis, di Daunte Wright. Questo 20enne afro-americano è stato ucciso durante un banale controllo mentre era alla guida della sua auto. Una poliziotta lo ha colpito più volte sostenendo di avere confuso la sua pistola con il “taser” in dotazione agli agenti.
La morte di Floyd lo scorso anno aveva provocato un’ondata di proteste senza precedenti in moltissime città americane, accolte dal dispiegamento massiccio di forze di polizia e di uomini della Guardia Nazionale. Agli scontri avevano spesso partecipato anche gruppi paramilitari di estrema destra, alimentati in più di un’occasione dalla retorica dell’allora presidente Trump.
Durante le recenti manifestazioni in Minnesota dopo la morte di Daunte Wright si è assistito nuovamente al ricorso a metodi durissimi da parte della polizia, in azione su ordine delle autorità politiche pronte a dichiarare lo stato di emergenza. Particolarmente inquietanti sono stati gli episodi che hanno coinvolto alcuni giornalisti che stavano coprendo gli eventi. Svariati reporter americani hanno denunciato maltrattamenti e percosse da parte degli agenti nonostante fossero chiaramente identificati come membri della stampa.
Questi eventi straordinari hanno spinto anche alcuni media “mainstream” a emettere comunicati di ferma denuncia del comportamento della polizia. La presidente del gruppo a cui fa riferimento USA Today ha ad esempio definito il trattamento riservato ai giornalisti dalla polizia di Brooklyn Center, dove è avvenuto l’omicidio di Daunte Wright, come “tattiche deliberatamente intimidatorie”.
Le stesse immagini sconvolgenti potrebbero ripetersi nei prossimi giorni nelle strade di Minneapolis e di altre città degli Stati Uniti se il processo per la morte di George Floyd dovesse risolversi in un’altra farsa. Sindaci e governatori in tutti gli Stati Uniti hanno infatti già mobilitato un numero record di poliziotti e membri della Guardia Nazionale in previsione di nuove mobilitazioni popolari contro la brutalità della polizia americana.
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- Scritto da Liliana Adamo
Immensi, antichissimi, quanti anni avranno? Centinaia, probabilmente migliaia; a dispetto della maestosità, sono vulnerabili a senescenza, a malattie, ad agenti atmosferici. Gli alberi ancestrali fotografati nell'arco di un decennio da Beth Moon, hanno forme particolari, come la sempreverde Dracaena sangue di drago per la resina rosso scuro che produce; autoctona dell'isola di Socotra ma presente anche nello Yemen dove appunto, è stata ritratta. O ancora come il cedro rosso occidentale (Thuja plicata), che raggiunge i quattro metri di diametro e i settanta in altezza. Originario del Nord America, trapiantato in Europa, scoperto dalla Moon all'interno del Parco Gelli Aur, nel Galles. Tralasciando la funzione meramente incline allo sfruttamento economico (legna, materia prima per costruire, cellulosa per la carta) ed evidenziando altri fattori, ci chiediamo: in fondo, cos'è un albero?
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- Scritto da Liliana Adamo
“Keep calm and carry on”, stai calmo e vai avanti, era l'esortazione degli inglesi sotto i bombardamenti di Hitler. Azzardiamo un paragone: se durante la Seconda Guerra Mondiale le forze schierate in campo erano certe che prima o poi la partita con i nazisti si sarebbe chiusa, pur non sapendo quando, così contro Sars-Cov2 la scienza potrebbe prevalere pur non avendo un'idea precisa del tempo che occorrerà per ottenere un risultato che tutti auspicano.
Cominciamo col dire che siamo in una fase idonea della ricerca e che diversi protocolli condivisi dalla comunità scientifica mondiale si applicano a singoli pazienti in relazione alle loro condizioni e alla gravità dei sintomi.
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- Scritto da Sara Michelucci
Il cinema francese torna ad essere protagonista con una nuova edizione di GemellarteOff, rassegna gratuita di film in lingua francese sottotitolati in italiano messi a disposizione dalla piattaforma dell'Institut francais - If Cinema, inserita nell'edizione 2020 di Gemellarte, festival internazionale indipendente che rilancia i gemellaggi esistenti fra le città italiane e straniere attraverso l'arte.
Per tutto il mese di ottobre, la Sala dell'Orologio del Caos - Centro arti opificio Siri di Terni ospiterà le proiezioni, ad ingresso gratuito ma con prenotazione obbligatoria in ossequio alla normativa Covid-19 (quindi con posti limitati).
Appuntamento il giovedì, alle ore 18, con alcune uscite del cinema francese, tutte accomunate dallo sguardo sulle città, le nuove generazioni e il rapporto con l'ambiente.
Si comincia il 1° ottobre, con 'Continuer', ispirato al romanzo omonimo di Laurent Mauvignier, western contemporaneo che mette in scena un teso faccia a faccia tra una madre e suo figlio, diretto da Joachim Lafosse.
Si prosegue l'8 con Derniers jours à Shibati, di Hendrick Dusollier, documentario dedicato a Shibati, l’ultimo vecchio quartiere della città più grande della Cina, Chongqing, sul punto di sparire.
Il 15 tocca ad un classico del cinema francese. Si tratta di 'Pickpocket', pellicola del 1959 con la regia di Robert Bresson, noto in Italia con il titolo di 'Diario di un ladro'. Al centro la storia di un giovane studente che, prima per necessità poi per vocazione, pratica l'arte del borsaiolo fin quando Jeanne cambia la sua vita e gli indica la via del travagliato riscatto.
La rassegna 2020 si conclude il 22 con L’heure de la sortie', per la regia di Sébastien Marnier, thriller psicologico nato come adattamento cinematografico del romanzo omonimo scritto da Christophe Dufossé, che porta sullo schermo l’impenetrabilità del mondo adolescenziale. Vincitore del Prix du Jury International Myfff - MyFrenchFilmFestival 2020.
A presentare e a commentare i film in programma saranno la giornalista Sara Michelucci e Fabrizio Borelli, regista, fotografo e presidente di X-Frame Aps.
L'iniziativa è realizzata da Gn Media in collaborazione con l'Institut français Italia/Ambasciata di Francia in Italia, Macchine celibi, il Caos - Centro arti opificio Siri e X-Frame Aps.
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- Scritto da Sara Michelucci
Il concetto di confine come fil rouge della mostra Confine 3/ September11 tra realtà e astrazione, in programma dall’11 al 14 settembre nella Galleria Forzani di Terni. L’ensemble Confine di Fabrizio Borelli, regista, format designer, direttore della fotografia e fine art photographer, racconta territori ai loro limiti - sia tangibili che virtuali - e pone attenzione sul tema della diversità/identità, punto focale per una lettura il più possibile comprensiva della società contemporanea.
Inaugurato con Confine 1/storia di luci e di ombre, arricchito della serie Confine 2/ Europa, tra memoria e modernità simboli e persone sulle tracce del Muro di Berlino, include gli undici frames di Confine 3/ September 11 tra realtà e astrazione, presentati per la prima volta al pubblico alla Galleria di Massimo Forzani, nella mostra curata da Maria Italia Zacheo.
“L'importanza della memoria, di non dimenticare certi fatti o avvenimenti che entrano inevitabilmente nel patrimonio genetico di un Paese, oltre alla grande empatia che si è venuta a creare con Fabrizio, mi hanno spinto a fare questa prima mostra di fotografia nella galleria che dirigo”, sottolinea Massimo Forzani. “Fabrizio non è, a mio avviso, solo un fotografo, ma è un 'manipolatore' di immagini e, per questo, è molto vicino ad essere anche un pittore. Nelle sue opere c'è una forte vicinanza con la pittura, perché non si limita a riprodurre la realtà, ma la rielabora”.
Come e perché nasce la mostra Confine 3?
“Nel mese di ottobre del 2001 – racconta Borelli - ero a New York. Per lavoro. Erano passate poche settimane dall’attacco alle Twin Towers. Il cratere era uno sfacelo. Come dovevano essere state Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki, Phnom Penh, Sabra e Shatila, Guernica, peccati originali dell’umanità, ossessivamente replicati. Avevo di fronte a me una foresta muta di rovine, monconi, brandelli, anime che non riuscivano a liberarsi da quelle macerie. Era proibito scattare o girare qualsiasi immagine senza autorizzazione. Portai a casa il mio programma televisivo e nulla più.
Nel 2008, decisi di tornare a NYC. A Ground Zero nei cantieri ribollivano i lavori, feci qualche scatto: una gru, un cartello, un moncone di grattacelo. Tornai a casa e i negativi rimasero nel cassetto per qualche tempo. Poi la memoria delle immagini televisive dell’attacco, delle foto sui giornali, dei fumi del cratere, riemerse. Elaborare gli scatti dei cantieri, sovrapporre un inferno astratto alle immagini del luogo che, qualche anno prima, ne aveva subito uno vero, questo dovevo/volevo fare.
Confine 3 è una sequenza visionaria, la re-immaginazione di una tragedia, la trasfigurazione necessaria del reale non vissuto. Giacomo Leopardi nello Zibaldone scrive: 'L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario'”.
In un momento storico come quello attuale, dove l'idea di confine si fa sempre più stringente e forte, qual è il suo punto di vista sul concetto stesso di confine?
“Tracciamo confini per dare un senso alle cose, per definire l’identità personale, culturale, statuale. Il confine è la linea invisibile che separa, ad esempio, una nazione da un’altra - è il corso di un fiume, una catena montuosa o una riga dritta tracciata dopo un trattato di pace indigesto; confine è il filo spinato, il muro che divide una proprietà da un’altra. È il perimetro che diamo ai nostri pensieri, è il punto dove qualcosa finisce. Ma è anche il tratto dove una cosa re-inizia, al di là del confine stesso. Divide e unisce allo stesso tempo, separazione e contatto allo stesso tempo.
Aver adottato 'confine' come parola chiave per alcuni dei miei cicli mi ha permesso di stare sul crinale e riuscire a guardare da una parte e dall’altra, o almeno tentare”.
Attraverso il tema della diversità/identità, come si legge la società contemporanea?
“Domanda impegnativa e difficile, cerco di raccapezzarmi. L’identità è il modo in cui un individuo percepisce sé stesso e si definisce come membro di una comunità, famiglia, nazione, religione, etnia. Noi ci identifichiamo facilmente con persone che percepiamo come simili - e qui nasce il senso di appartenenza - e allo stesso tempo individuiamo ciò che ci distingue, che ci rende diversi da altri individui. La diversità è vista perlopiù come minaccia alla propria identità e alle nostre comunità e per questo genera paura e sospetto. La domanda è: come diventiamo ciò che veramente siamo? Attraverso il rapporto con l’altro, con il diverso. È essenziale, insostituibile. È ingannevole pensare di edificare barriere che ci mettano al riparo dalla contaminazione. Difendere la propria identità dai cambiamenti, il rifiuto, la rimozione, per alcuni sembra l’unica strada per proteggere la propria identità.
La società contemporanea è fortemente stratificata, poliforme, sconnessa, polverizzata, non serve chiudere gli occhi per 'salvarsi'. Vorrei aggiungere che le diversità non sono solo date dalla provenienza geografica, ci sono diversità sociali sempre più forti e pervasive, di appartenenza, di reddito, di ceto, di opportunità concesse o negate, diversità che non sono rifiutate e avversate con altrettanta convinzione come con i fenomeni migratori che certo costituiscono una questione da affrontare e risolvere, su entrambi i fronti però, quello di chi viene e quello di chi accoglie. La non accettazione del diverso non è una soluzione, da qualunque parte tu la guardi.
Sono moderatamente ottimista, voglio seguire il suggerimento dell’oroscopo di Rob Brezsny e trovare in me «…l’audacia di mantenere una vivacità intelligente e una positività giudiziosa».
La mostra si inaugura l'11 settembre. Una data che ha un significato particolare per la storia contemporanea. Per lei cosa significa?
“L’11 settembre 2001 due aerei di linea si conficcarono nelle Twin Towers, collassarono dopo un paio d’ore. Il terzo aereo, si schiantò sul Pentagono e il quarto aereo precipitò in Pennsylvania. Morirono 2.977 persone innocenti e 19 dirottatori. I feriti furono più di 6.000. Molte furono le persone che si ammalarono e in seguito morirono per la dispersione di sostanze tossiche.
Fu un atto di guerra. E le ragioni di quella guerra appartengono alla complessità del mondo contemporaneo. Basti solo pensare alla genesi di Al-Qāida, che fu protagonista dell’attacco con i suoi uomini.
Afghanistan 1979, invasione sovietica, i mujaheddin si oppongono all’oppressore e combattono sostenuti dal Pakistan, l'Iran, la Cina, l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Si scambiano soldi, informazioni, armi. Il caos afghano, seguito alla ritirata dell’Unione Sovietica - 1989 - generò il movimento dei Talebani e poi di Al- Qāida, acerrimo nemico degli Usa che però, solo dieci anni prima, avevano sostenuto proprio i mujaheddin.
Tutto questo per grandi linee e forse qualche imprecisione. Non mi azzardo ad andare oltre. Non conosco a sufficienza la storia. Non sembra un altro mondo? E invece non c’è soluzione di continuità. Del resto, la guerra è feroce sempre, è inutile fare qui l’elenco secolare degli orrori. L’attacco alle Torri Gemelle fu una sorta di perdita della verginità. E io amavo e amo New York.
Lo stupore, il dolore, la commiserazione delle vittime, di quelli che preferirono lanciarsi nel vuoto pur di non morire asfissiati e bruciati, di coloro che non ebbero e non hanno il bene di pregare sui resti dei propri cari, di coloro che hanno solo una voce registrata nella segreteria del telefono come memoria di un padre, un figlio, una fidanzata. Tutto questo dolore ce l’ho ancora dentro. Così come per le vittime nominate nella penombra dello Yad Vashem - 6.000.000 - o quelli che morirono in Giappone - 246.000 stimati - dissolti in un nanosecondo dal fuoco delle prime due bombe atomiche.
Strano destino quello dell’uomo, tra aggressione e vendetta, commiserazione e perdono, memoria e oblio. Ecco, la pietà. È la pietà che mi resta”.
Negativi analogici 35mm, elaborati in digitale, stampe realizzate in copia unica - in collaborazione con Acsaf di Cesare Bossi - su carta Magnani emulsionata e successivamente patinata a cera: undici cariche e potenti schegge, provenienti da un’esplosione.