di Sara Michelucci

La favola della Bella addormentata viene rivisitata nel film Maleficent diretto da Robert Stromberg, per la prima volta dietro la macchina da presa. La protagonista è Angelina Jolie, che veste i panni di Malefica. Da bellissima e buona creatura fatata dalla grandi e possenti ali, si trasformerà in una strega dopo aver perso il suo amato, che ha preferito il trono al loro amore e le ha fatto tagliare le ali.

Malefica si presenta alla cerimonia del battesimo della piccola Aurora, la figlia appunto del Re, scagliandole addosso una maledizione: il giorno del sedicesimo compleanno si pungerà il dito col fuso di un arcolaio e cadrà in un sonno profondo dal quale solo il bacio del vero amore potrà svegliarla.

Re Stefano ordina che tutti gli arcolai del regno vengano sequestrati e bruciati e affida a tre fatine buone (Giuggiola, Fiorina e Verdelia) la principessa, per farla crescere in una casetta in un bosco per i prossimi 16 anni e un giorno. Ma le tre non si riveleranno all’altezza del compito e Malefica, prima accecata dall'odio e dalla vendetta, si rende ora conto di voler bene ad Aurora, che le mostra affetto e simpatia e che sta conquistando il suo cuore.

Malefica decide allora di seguire la principessa durante i sedici anni e di correggere tutti gli sbagli fatti dalle fatine, rimanendo però sempre nell'ombra. Vorrebbe cancellare la maledizione che ha lanciato, ma non può perché, come profetizzato da lei stessa, solo il bacio del vero amore può farlo. Una favola nera di grande impatto emotivo, che però il regista decide di ammorbidire, dando alla strega una parvenza di umanità e bontà, che la porta su un altro livello rispetto a quello molto più pauroso e insidioso dell’originale disneyano.

Stromberg predilige molto di più il fantasy, con qualche elemento gotico, che in parte affievolisce il ruolo della strega, seppure questo calzi a pennello su Angelina Jolie. È più la diva ad emergere in questo caso, che non l’essenza stessa che sta alla base della creazione dell’antagonista, tanto che tutti gli altri personaggi assumono più le sembianze di un contorno e si perde quella forte e netta contrapposizione tra bene e male.

Maleficent (Usa 2014)

Regia: Robert Stromberg
Soggetto: Charles Perrault, Fratelli Grimm
Sceneggiatura: Paul Dini, Linda Woolverton, John Lee Hancock
Casa di produzione: Moving Picture Company, Roth Films, Walt Disney Pictures
Distribuzione: Walt Disney Pictures
Fotografia: Dean Semler
Montaggio: Chris Lebenzon, Richard Pearson
Effetti speciali: Charlie Graovac
Musiche: James Newton Howard
Scenografia: Gary Freeman, Dylan Cole

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

I vampiri tornano al cinema. Ma questa volta la mano “autoriale” di Jim Jarmusch regala una storia interessante da un punto di vista visivo e linguistico. Solo gli amanti sopravvivono, con Tilda Swinton (Eve), perfetta nella parte della vampira, e Tom Hiddleston (Adam), mette al centro la storia “nera” e punk di due amanti, che sembrano esseri umani normali, ma che in realtà sono, per l’appunto, dei moderni Nosferatu.

Adam e Eve, nonostante si amino alla follia, vivono separati: lui a Detroit in un quartiere degradato e abbandonato; lei a Tangeri, dove vive anche un altro vampiro loro amico di nome Marlowe, che le procura il sangue. I due vampiri, che hanno vissuto secoli su secoli di storia, non uccidono per sopravvivere, ma utilizzando un sistema ben più contemporaneo: corrompono medici compiacenti per avere il purissimo zero negativo.

I due decidono, però, di ricongiungersi, così Eve torna negli Stati Uniti. Ma non sono soli. L’arrivo della “vivace” sorella minore di Eve cambierà la loro condizioni e li riporterà a doversi cercare il sangue in un modo molto diverso rispetto all’attuale. Jarmusch riesce a dosare bene ritmo e storia, dando prova di grande abilità e originalità. I suoi sono vampiri dalle caratteristiche estremamente umane, che soffrono e vivono la loro condizione di “estranei” come qualcosa che li fa soffrire, ma che allo stesso tempo li caratterizza.

Portano con loro la conoscenza, l’arte, la musica e una forte sensibilità. Sono crocevia della storia dell’umanità, di quello che è stato, con un bagaglio culturale enorme che è quasi pari allo scibile umano. Sono vampiri che ‘divorano i libri’, che compongono musica, che sentono la depressione, che pensano anche al suicidio, perché la loro vita non li appaga fino in fondo. Gli zombie - nomignolo usato per definire gli esseri umani - sono invece il contrario: esseri ai loro occhi abietti e ignoranti, con cui raramente potranno condividere qualcosa, se non il loro sangue.

Ma anche questo sta cominciando a essere contaminato. È un Jarmusch estremamente politico quello di fronte a cui lo spettatore si trova. La contaminazione è quella dell’umanità intera, che ha dimenticato la vera bellezza. Solo chi ama, chi riesce a rispettare ciò che è e ciò che è stato, può sopravvivere. Jarmusch tratta l’amore come qualcosa di profondo, ma al tempo stesso di naturale, senza troppe sofisticazioni o snobismi. Ed è la sua carta vincente.

Solo gli amanti sopravvivono (Usa 2014)
regia: Jim Jarmusch
sceneggiatura: Jim Jarmusch
attori: Tom Hiddleston, Tilda Swinton, Mia Wasikowska, John Hurt, Anton Yelchin, Slimane Dazi, Wayne Brinston
fotografia: Yorick Le Saux
montaggio: Affonso Gonçalves
produzione: Recorded Picture Company, Pandora Film Produktion
distribuzione: Movies Inspired

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Decisamente amaro, lascia poche speranze. È questa la sensazione che si ha dopo la visione del nuovo lavoro del regista, Antonio Morabito, Il venditore di medicine. La storia è quella di Bruno (Claudio Santamaria) che fa l’informatore medico. La sua azienda, la Zafer, sta vivendo un momento difficile. Pur di non perdere il suo posto di lavoro, Bruno è disposto a corrompere medici, a ingannare colleghi, a tradire la fiducia delle persone a lui più vicine, compresa sua moglie.

Bruno è l’ultimo anello nella catena del “comparaggio”, una pratica illegale che la Zafer, come molte altre case farmaceutiche, attua per convincere i medici a prescrivere i propri farmaci. E se alcuni dottori si rifiutano di prestarsi a questo gioco, molti di loro non si sottraggono affatto.

Il film sceglie una narrazione  piuttosto lineare per denunciare una situazione di connivenza tra alcuni medici e alcune case farmaceutiche. E anche chi apparentemente sembra incorruttibile, in realtà si rivela tutt’altro. La morale? Come se non esistesse più e chi se ne fa portatore, un unico medico che rifiuta le regalie dei colossi dei farmaci, è destinato a perdere (la scena della sentenza del tribunale è significativa).

Il disinteresse sociale la fa da padrone, creando un’atmosfera asfissiante, dove i bisogni sono sempre più legati ad un piano superiore, di ricchezza e possesso. Ma al di sotto di questo sistema perverso ci sono i malati e la famiglia. Quella sfera di normalità che Bruno ha completamente dimenticato e che arriverà a sacrificare pur di arrivare al successo. Molto bravo Santamaria che riesce a interpretare al meglio un uomo apparentemente mostruoso, emblema della società che lo circonda.

Sull’attore il regista riesce a incarnare tutte le contraddizioni, la brama di successo, corruzione e l’impunità della società contemporanea. Al suo interno si celano le divergenze tra bene e male, giusto e sbagliato. È su di lui che si scrive la storia ed è attraverso di lui che lo spettatore guarda lo scorrere degli eventi. Una scelta di vita che gli lascerà, però, poco scampo.

Il venditore di medicine
(Italia, Svizzera 2014)

REGIA: Antonio Morabito
SCENEGGIATURA: Antonio Morabito, Michele Pellegrini, Amedeo Pagani
ATTORI: Claudio Santamaria, Isabella Ferrari, Evita Ciri, Marco Travaglio, Giorgio Gobbi, Roberto De Francesco, Ignazio Oliva, Vincenzo Tanassi, Leonardo Nigro, Alessia Barela, Ippolito Chiarello, Pierpaolo Lovino, Paolo De Vita, Beniamino Marcone
FOTOGRAFIA: Duccio Cimatti
MONTAGGIO: Francesca Bracci
MUSICHE: Andrea Guerra
PRODUZIONE: Classic, Peacock Film; in collaborazione con Cinecittà Luce, Rai Cinema, Dinamofilm, Fondazione Eutheca, RSI Televisione Svizzera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Svoltare la propria vita grazie a un’enorme ricchezza. Da conquistare a tutti i costi. Da qui parte la storia raccontata nell’ultimo film di Carlo Mazzacurati, La sedia della felicità, uscito postumo dopo la morte prematura del regista veneto. Sono gli attori di sempre, insieme a qualche new entry, a popolare il cast dell’ultimo lavoro di Mazzacurati, a partire da un Giuseppe Battiston che interpreta il ruolo di un prete che di spirituale e caritatevole ha decisamente ben poco.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura cinematografica ci sono Valerio Mastandrea (Dino), padre separato che fa il tatuatore di professione, ma non se la passa molto bene economicamente, e Isabella Ragonese (Bruna), estetista sull’orlo del fallimento che cerca a tutti i costi di cambiare la sua vita, deludente anche sul piano sentimentale.

L’occasione si presenta quando una detenuta, interpretata da Katia Ricciarelli, a cui Bruna fa la manicure, ha un attacco di cuore e le svela, poco prima di morire, di aver nascosto un tesoro in una delle sedie della sua villa, ormai disabitata. Ma le dieci sedie sono state vendute e divise tra diversi proprietari e trovare quella giusta non sarà così facile. La caccia alla sedia ”vincente”, quasi fosse una schedina della lotteria, diventa così motivo di condivisione tra Bruna e Dino che durante la ricerca si innamorano.

Ma non solo soli. Uno strano prete, infatti, è sulle tracce dello stesso bottino. I tre, inizialmente rivali, si alleano successivamente dando vita a una ricerca avventurosa e a tratti inverosimile. Succede di tutto, forse anche troppo, e i personaggi che incontrano sul loro cammino sono alquanto sopra le righe: dalla sensitiva che durante le fasi di trance riesce a offrire ai tre importanti indizi su dove si trovino le varie sedie, fino ai due fratelli che vivono in una sperduta valle delle Dolomiti e che non cederanno così facilmente la loro sedia.

Tra equivoci e colpi di scena, si passa dalla laguna veneta, scenario caro a Mazzacurati, fino alle cime delle montagne. Il viaggio, come lo era stato per Il Toro - con cui il regista ha vinto il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia - è ancora una volta protagonista del racconto. Momento di evasione, ma anche e soprattutto di ricerca di se stessi, dei luoghi in cui si è nati e cresciuti e di quelli che ancora non si conoscono, ma che rappresentano un momento di confronto importante per capire la propria vita. Per Mazzacurati la vita può avere una svolta, come ha mostrato anche in Vesna va veloce o nella Passione. Un futuro è ancora possibile, insomma, e nonostante i suoi personaggi non nascano vincenti, possono alla fine diventarlo, almeno in parte. 

La sedia della felicità
(Italia 2010)

Regia: Carlo Mazzacurati
Soggetto: Carlo Mazzacurati
Sceneggiatura: Carlo Mazzacurati, Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello
Produttore: Domenico Procacci
Casa di produzione: Fandango e Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Clelio Benevento, Paolo Cottignola
Musiche: Carlo Crivelli
Scenografia: Giancarlo Basil

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Decisamente suggestivo e ricco di rimandi surrealisti il nuovo film di Wes Anderson, Grand Budapest Hotel. Cast stellare per la pellicola che trae ispirazione dalle opere di Stefan Zweig. Il film che ha aperto la 64ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, si è aggiudicato il Gran premio della giuria.

La storia è quella del concierge del Grand Budapest Hotel, Gustave H (Ralph Fiennes), amatissimo dalle sue illustri e attempate clienti, a cui regala qualche ora d’amore e una nuova “giovinezza”, e del suo giovane aiutante, Zero Moustafa, che saprà cogliere dagli insegnamenti del suo mentore utili consigli per la vita. I due dovranno custodire un dipinto rinascimentale inestimabile, eredità lasciata a Gustave da Madame D.

Ma la coppia di amici dovrà vedersela con il perfido figlio (Adrien Brody) dell'anziana donna e con il suo scagnozzo (Willem Dafoe), che faranno di tutto per riappropriarsene, anche ricorrendo all’omicidio.

Sullo sfondo la guerra, il richiamo ai totalitarismi e al razzismo, che emergono in ogni istante, quasi come monito a non dimenticare quello che è stato. E Zero, in un certo senso, racchiude nel suo volto e nella sua storia, il vissuto di alcuni popoli durante le dittature e che in taluni casi continuano a vivere ancora oggi. Anderson, però, gli dà una speranza. Quella di cambiare la propria vita e, anzi, di ribaltare completamente la propria condizione sociale.

Quello che piace è la capacità del regista di usare storia e immagini per parlare del reale, senza attingervi più di tanto. I diversi linguaggi messi in campo, che pescano anche dall’onirico e dal grottesco, richiamano figure di chapliniana memoria, che attraverso una ironia agrodolce veicolano sentimenti profondi.

La mente corre al Grande Dittatore, anche per i richiami all’olocausto e al nazismo che sono contenuti nel lavoro di Anderson: dalle divise della polizia in stile SS al nome dell’hotel che è scritto sull’ingresso con caratteri simili a quelli dell’Arbeit macht frei che campeggiava entrando ad Auschwitz. Sentimenti diversi, quindi, si alternano sullo schermo e nell’animo degli spettatori. 

Grand Budapest Hotel (Usa 2014)

Regia: Wes Anderson
Soggetto: Wes Anderson, Hugo Guinness
Sceneggiatura: Wes Anderson
Produttore: Wes Anderson, Jeremy Dawson, Steven M. Rales, Scott Rudin
Casa di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions, Studio Babelsberg
Distribuzione: 20th Century Fox
Fotografia: Robert Yeoman
Montaggio: Barney Pilling
Musiche: Alexandre Desplat

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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