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Cristiano Ronaldo ha pianto due volte ieri sera. La prima a 20 minuti dall’inizio della finale contro la Francia, la seconda al 120esimo. Contro ogni pronostico, il suo Portogallo si aggiudica questi Europei 2016, conquistando il primo trofeo della sua storia. E lo fa nel modo più incredibile: senza vincere nemmeno una partita entro i 90 minuti fino alla semifinale, andando a giocare la partita decisiva a Parigi, nel giardino di casa dei super-favoriti galletti.
A decidere la gara, al quarto minuto del secondo tempo supplementare, è un attaccante sconosciuto ai più: tale Èder, l’anno scorso allo Swansea, che inizia la finale dalla panchina e la finisce da eroe, scaricando in porta un destro imprevedibile da 25 metri, su cui hanno più di una responsabilità sia i difensori sia il portiere Lloris.
Ma la notizia ancora più incredibile è che il Portogallo raggiunge questo risultato senza l’unica stella della sua formazione, nonché unico superstite di quella sciagurata finale europea del 2004 persa in casa contro la Grecia. Stavolta Cristiano Ronaldo guarda quasi tutta la gara dalla panchina, costretto a uscire per infortunio a nemmeno metà del primo tempo dopo un fallo di Payet.
La stella del Real lascia il campo in lacrime e a quel punto per i francesi sembra davvero una passeggiata. Viene da pensare abbia ragione François Hollande, che prima della gara aveva distillato una perla con la proverbiale umiltà francese: “Gliene facciamo tre”.
In effetti, almeno nei 90 minuti, i bleu potrebbero farne tranquillamente almeno quattro. Sennonché devono fare i conti con una serata memorabile di Rui Patrìcio, che si rivela insuperabile. Il portiere portoghese, a mani basse il migliore in campo, salva su un colpo di testa di Griezmann e su una botta ravvicinata di Sissoko (il migliore dei suoi) nel primo tempo, mentre nella ripresa si supera su Giroud lanciato a rete e su un’altra fucilata di Sissoko, stavolta da lontano.
I francesi, però, ci mettono del loro. Al di là degli errori sotto porta (clamorosi il colpo di testa sbagliato da Griezmann nella ripresa e il palo da un metro preso da Gignac al 91esimo), i padroni di casa non costruiscono gioco. Pesano alcune mosse tattiche incomprensibili di Deschamps, in particolare la scelta di tagliare fuori dal gioco Pogba parcheggiandolo davanti alla difesa.
Quanto al Portogallo, è riuscito a vincere l’ennesima partita giocando più o meno a caso, ma rimanendo sempre compatto in fase difensiva, dove a spaventare gli avversari c’è un cane da guardia del calibro di Pepe. Ma l’uomo in più della finale, oltre al portiere, è Joao Mario, che corre davvero tanto e consente ai suoi di alleggerire a più riprese la pressione dei francesi. Poi, a scrivere la morale della favola, ci pensa il destro da fuori di un Carneade alto un metro e 90.
Si chiude così un’edizione degli Europei francamente brutta, caratterizzata da un tasso tecnico particolarmente basso e da un’organizzazione ai limiti del ridicolo, capace di produrre il tabellone post-gironi più sbilanciato che la storia ricordi. Eppure, la finale a sorpresa lascia a tutti i non-francesi la sensazione di aver ascoltato una piacevole favola della buonanotte, simile a quella scritta un paio di mesi fa dal Leicester in Premier League.
L’immagine iconica è senz’altro quella di Ronaldo che, zoppicante e con il ginocchio fasciato, barcolla per l’area tecnica incitando i suoi con una partecipazione emotiva che raramente si vede nelle star più patinate del calcio. Ora lui e Pepe, freschi di vittoria in Champions League con il Real, sono campioni d’Europa in tutti i sensi possibili.
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“Non credevi mica che sarebbe stato facile, vero?”, diceva Lucy Liu a Uma Thurman in Kill Bill Volume I. La Germania ha battuto l’Italia ai quarti degli Europei 2016, ma non ha avuto vita semplice. Dopo tante sconfitte contro gli azzurri, i tedeschi sono riusciti a prevalere soltanto al termine di una lunga e bruttissima serie di rigori. I campioni del mondo li hanno battuti male, noi malissimo. Questa è stata l’unica differenza.
Nel resto della gara, l’Italia è riuscita a tenere testa alla squadra più forte del pianeta per 120 minuti. Lo ha fatto peraltro con una formazione più che rimaneggiata: oltre alle assenze strutturali di Marchisio, Verratti e Montolivo, c’era da fronteggiare gli infortuni di De Rossi e Candreva, senza contare la sciagurata squalifica di Thiago Motta. Al centro della linea mediana giocavano perciò Sturaro e Parolo, due gregari non proprio abituati a simili palcoscenici. Eppure i nostri blasonati avversari non hanno trovato spazi.
La partita di Bordeaux è stata equilibratissima: la Germania è passata, ma sa di aver rischiato grosso, molto più di quanto avrebbe immaginato alla vigilia. Alla fine, il tema tattico principale è stato l’annullamento dell’avversario, prima ancora che l’imposizione di uno stile di gioco. Sono riusciti a passare solo al 65esimo con un gol di Ozil piuttosto casuale, frutto di uno sfortunato rimpallo su una chiusura di Bonucci. Lo stesso difensore centrale azzurro ha poi pareggiato i conti al 77esimo, trasformando un rigore sacrosanto per un ingenuo fallo di mano di Boateng in area di rigore.
Certo, il divario tecnico era evidente e lo strapotere fisico e di corsa dei tedeschi altrettanto; arrivavano sempre primi sul pallone e mostravano una aggressività a noi sconosciuta, visto che gli azzurri preferivano chiudere i corridoi dei passaggi ed obbligarli all’orizzontalità della manovra. Ma benché oltre l’80 per cento del match si sia disputato nella nostra porzione di campo, mai i tedeschi hanno dato impressione di poterci colpire agevolmente e, dopo il pareggio di Bonucci, è stato un difetto di ambizione ad impedire alla squadra di Conte di attaccare tentando il colpaccio.
Dal pareggio in avanti la partita ha avuto poco da dire fino ai rigori. È francamente inutile soffermarsi sulla cronistoria dei penalty: basti dire che per noi hanno sbagliato Bonucci, Pellè, Zaza e Darmian, mentre fra i tedeschi hanno fallito Ozil, Schweinsteiger e Muller. Insomma, per loro hanno sbagliato tre campioni, per noi tre giocatori su quattro (escludendo il centrale juventino) non abituati a questi livelli, né a questa pressione. Si può certamente recriminare sui rigori battuti con un atteggiamento poco congruo in termini di concentrazione soprattutto da Pellè e Zaza, ma visti i valori in campo, in fondo, è stato giusto così.
“Dispiace uscire in questo modo, ma non posso rimproverare nulla ai ragazzi - ha detto il CT Antonio Conte - che hanno dimostrato coraggio, orgoglio, passione e attaccamento alla maglia, hanno dato tutto quello che avevano e per questo non posso recriminare su nulla. Abbiamo superato ostacoli enormi e per poco non ci scappava un’impresa straordinaria”.
Quello che rimane è un Europeo di cui andare orgogliosi. Ci siamo presentati probabilmente con la formazione meno blasonata di sempre, eppure abbiamo battuto il Belgio e la Spagna, superando di gran lunga le aspettative della vigilia. Il merito, bisogna riconoscerlo, è dell’organizzazione tattica che Conte ha saputo imporre alla squadra, ma anche all’umiltà e allo spirito di sacrificio dei nostri giocatori. Purtroppo oltre al cuore e alla tattica nel calcio si gioc con i piedi e quella di questi europei è stata la nazionale meno tecnica degli ultimi 40 anni, ma quanto a grinta e solidità di gruppo non può che essere elogiata.
“Il mio non è un addio ma un arrivederci” ha detto ancora Conte. “Resta comunque il fatto che ho dovuto fare la guerra da solo, con me c’era solo il presidente Tavecchio, ma anche lui poteva arrivare fino a un certo punto. Avrei voluto rimanere ma non ho potuto soprassedere su alcuni fatti, ad ogni guidare l’Italia è stato un grandissimo onore, mi ha lasciato emozioni indelebili”.
Ai tifosi ha lasciato invece una sensazione strana, ma da tenere a mente nei prossimi anni (che non si preannunciano semplici): anche con una formazione mediocre, è possibile giocare da grande squadra.
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Per tanti anni l’Italia del calcio ha avuto piedi ottimi ma poca testa, ora ha piedi modesti ma un grande carattere. Al di là dell’organizzazione tattica, è questa la caratteristica che ha permesso agli azzurri di battere la Spagna 2-0 agli ottavi di finale di questi Europei 2016. Una rivincita insperata, contro la squadra che ci aveva eliminato dalle ultime due edizioni di questo torneo (nel 2012 con un umiliante 0-4 in finale).
La gara inizia subito bene per l’Italia, che aggredisce alti gli avversari e riesce spesso ad arrivare in area con giocate in velocità sulle fasce. Nella prima frazione le occasioni sono tutte azzurre. Prima De Gea si supera con una grande parata su un colpo di testa da distanza ravvicinata di Pellè, poi però il portiere iberico sbaglia su una punizione potente di Eder. Giaccherini tocca il pallone anticipando il recupero di Piqué e consentendo a Chiellini un comodo tap in di ginocchio. Prima dell’intervallo lo stesso Giaccherini si esibisce in un dribbling con tiro a giro dal vertice dell’area che De Gea devia sul fondo in bello stile.
Nella ripresa, gli azzurri ricominciano da dove avevano finito nella prima frazione, dimostrando ancora grande aggressività. Una bella combinazione di prima lancia Eder da solo verso la porta spagnola, ma l’attaccante dell’Inter, dopo un bello scatto, spara ancora addosso al portiere avversario. Di lì in avanti, la tenuta atletica degli italiani cala sempre più.
Gli 11 di Conte si abbassano progressivamente, non riescono più a ripartire e soffrono l’arrembaggio dei Campioni d’Europa in carica. De Rossi deve uscire prima del solito dal campo per un dolore muscolare alla coscia: al suo posto il diffidato Thiago Motta, che trova il modo di farsi ammonire per una sciocca reazione a centrocampo. Il pareggio spagnolo però non arriva, grazie alla solita organizzazione difensiva del blocco juventino e a un paio di prodezze di Buffon, che si supera in particolare su una girata al volo da pochi metri di Piqué, involontariamente servito da un colpo di testa di Barzagli.
Nel finale, la mossa vincente è l’ingresso di Insigne al posto di Eder. In pieno recupero, quando tutti si aspettavano che perdesse tempo in prossimità della linea di bordocampo, il fantasista napoletano inventa un’apertura improvvisa per Darmian (a sua volta subentrato a Florenzi). Il terzino del Manchester riesce in qualche modo a buttarla al centro, dove Pellè scaraventa in porta il punto della sicurezza, esattamente come aveva fatto nella partita d’esordio contro il Belgio.
A essere onesti, non si può negare che i nostri blasonati avversari abbiano deluso le aspettative. Questa Spagna non è più la corazzata invincibile capace di portare a casa in 6 anni due Europei e un Mondiale. A fare la differenza è il pensionamento di due geni del calcio come Xavi e Xabi Alsono, la cui eredità non è stata raccolta da giocatori dello stesso livello. È rimasto Iniesta, che inventa ancora giocate come poesie, ma non più con la brillantezza di cinque anni fa, anche perché intorno a lui non ha più compagni in grado di comprendere al volo le sue intuizioni. Problemi anche in attacco, dove Aduriz è evanescente e Morata viene praticamente annullato dagli ex compagni di squadra juventini, che lo conoscono bene.
A livello tattico, le invenzioni migliori di Conte hanno a che fare ancora una volta con due giocatori chiave nel modulo: Giaccherini e Pellè. Il primo, come al solito più che generoso, gira intorno a Piqué praticamente per tutta la partita, impedendo agli spagnoli di iniziare l’azione con calma, dai piedi del loro miglior difensore in fase d’impostazione. Più muscolare ma altrettanto efficace l’interdizione di Pellè su Busquez.
Adesso, ancora una volta, gli azzurri trovano sulla propria strada la Germania. Un’altra finale, e siamo solo ai quarti. È certamente l’avversario più temibile che potesse capitare a questo punto del torneo. Sulla carta, gli undici di Loew, campioni del mondo in carica, sono decisamente favoriti. Non resta che sperare nel cuore e nella grinta di questa Italia. Del resto, il calcio non si gioca sulla carta.
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L’unica buona notizia è che Leonardo Bonucci, diffidato, non è stato ammonito. Per il resto, non c’è davvero nulla da salvare nella terza partita in questi Europei dell’Italia, sconfitta meritatamente 1-0 dall’Irlanda. A decidere l’incontro è Brady, per distacco il migliore in campo, capace di beffare a pochi minuti dalla fine la line difensiva italiana incocciando di testa un cross dalla trequarti.
La Nazionale di Conte affronta gli avversari con nervosismo, senza personalità né una pallida idea di gioco. Come contro la Svezia, anche stavolta i nostri avversare riescono a soffocare la nostra organizzazione pressandoci alti e costringendoci a saltare sistematicamente il centrocampo con i lanci di Bonucci. Stavolta, però, a raccogliere il pallone in attacco ci sono Zaza e Immobile.
L’attaccante della Juve perlomeno riesce a fare qualche sponda, mentre quello del Torino manca ogni controllo e sbaglia perfino i movimenti, dimostrando di essere sostanzialmente inutile quando la squadra non riesce a giocare in contropiede. A un quarto d’ora dalla fine entra Insigne, e il confronto è impietoso: in pochi minuti un assist chirurgico e un’azione personale terminata con un palo a portiere battuto.
Quanto al centrocampo, Thiago Motta distribuisce qualche buona apertura, ma come al solito non corre ed è costantemente fuori dal gioco. Male anche Sturaro e Bernardeschi: dal primo ci si aspettava agonismo, dal secondo qualche bagliore di talento. Entrambi hanno deluso le aspettative, in preda a un’evidente confusione sul ruolo da svolgere e sulla zona di campo da coprire. Florenzi ha dimostrato maggiore impegno, ma anche il suo tasso d’imprecisione è stato molto più alto del solito.
A voler trovare delle giustificazioni, ce ne sarebbero tante. Gli azzurri hanno iniziato questa gara già certi del primo posto nel girone e sapendo che lunedì, agli ottavi, dovranno giocare contro la Spagna. Per questa ragione, la squadra messa in campo da Conte era diversa per otto 11esimi da quella scesa in campo contro la Svezia. Con un turn over del genere, è evidente che saltano tutte le idee, gli automatismi e gli schemi di gioco. Era però lecito aspettarsi perlomeno un atteggiamento migliore da parte di quei gregari che hanno avuto l’insperata opportunità di giocarsi una partita da titolari.
Ci sono poi altri due fattori da considerare: le condizioni ignobili del campo, responsabile di molti errori, e lo spirito indomito degli irlandesi. I nostri avversari hanno affrontato questa gara mettendo in campo tutto quello che avevano: 4-4-2 scolastico, furibonda aggressività celtica, palla lunga e pedalare. Dovevano vincere per passare agli ottavi e ce l’hanno fatta. Semplicemente commoventi.
A questo punto, cerchiamo di prendere questa partita per quello che è: un passo falso che non pregiudica niente. Come non eravamo favoriti dopo le prime due vittorie, non siamo già fuori dopo questa sconfitta. È vero, il cosmo non sembra favorevole agli 11 di Conte: il Belgio, arrivato dietro l’Italia, se la gioca agli ottavi contro l’Ungheria, mentre a noi toccano i campioni in carica.
La Spagna ha eliminato gli azzurri dalle ultime due edizioni degli Europei (l’ultima volta con un feroce 4-0 in finale) e anche quest’anno è superiore all’Italia. Rispetto al 2012, però, è meno brillante. Non partiamo battuti, ma se vogliamo avere una speranza dobbiamo recuperare lo spirito di squadra messo in campo contro il Belgio. Giocare con umiltà, determinazione e cuore. Chissà che la lezione irlandese, alla fine, non torni utile.
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Partita minima, risultato massimo. Dopo il sorprendente esordio contro il Belgio, l’Italia vince anche la seconda partita di questi Europei 2016, battendo 1-0 la Svezia e staccando così il pass per gli ottavi di finale. A decidere l’incontro è un bel destro dal limite di Eder, che a due minuti dalla fine raccoglie una sponda di Zaza (subentrato a Pellè), supera in velocità un paio di difensori (per la verità lentissimi) e scarica in porta come non faceva da mesi.
Sulla falsariga di Giaccherini contro il Belgio, anche stavolta l’uomo partita è uno dei giocatori che meno ci si attendeva di vedere in questa nazionale. Molti hanno storto il naso per la mancata convocazione di Pavoletti, ma Conte non ha sentito ragioni: ha puntato su Eder fin dall’inizio, è riuscito a riportarlo a una condizione atletica buona e a dargli un ruolo preciso in campo. E ora si gode il riscatto del suo pupillo, che la scorsa stagione ha segnato con il contagocce.
A essere onesti, però, bisogna ammettere che la Svezia ha messo in difficoltà gli azzurri più di quanto abbia fatto il Belgio e forse il pareggio sarebbe stato il risultato più giusto. Nella prima frazione i gialloblu tengono in mano il gioco, con gli italiani schiacciati fisicamente nella propria metà campo. Gli svedesi non sono dei fenomeni nel palleggio ma la dinamicità che ci mettono rende difficile anticiparli e, data l’impossibilità di imporre il fisico per superarli, le cose per gli azzurri non sono semplici.
Ibra e gli altri 10 occupano bene il campo e rendono sterile il nostro tentativo di allargarlo come con il Belgio. Giocano stretti dietro, consci che la rapidità difensiva non è l’arma migliore di cui dispongono, ma diversamente da noi il loro secondo o terzo passaggio in uscita è già un lancio per le punte e un problema da risolvere per la difesa italiana.
Peraltro, nella squadra di Conte continua la saga degli errori di misura negli scambi e nelle vericalizzazioni. Loro invece giocano con lanci lunghi, Ibrahimovic è destino finale ed incrocio per ogni loro giocata ma spesso è Guidetti che va sulla prima palla mentre Ibra prova ad aggirare i nostri centrali. Che però svolgono il loro compito con la consueta efficacia, ma è in mezzo al campo che soffriamo, perché viene regolarmente scavalcato dall’abbondanza di lanci lunghi. E anche con il gioco a terra non ci va meglio. La fine del primo tempo è buona notizia.
Dopo la strigliata di Conte nello spogliatoio, gli azzurri tornano in campo nella ripresa con più convinzione e maggior dinamismo. È vero, sembrano tutti più preoccupati di non subire gol piuttosto che di costruire gioco, ma l’ingresso di Zaza, combattivo come al solito, riesce a far scattare una scintilla in più anche in fase offensiva. Da segnalare anche la traversa colpita di testa da Parolo su splendido assist di Giaccherini.
“Abbiamo fatto più fatica nel primo tempo - ha commentato Conte ai microfoni della Rai subito dopo la fine della partita - loro erano bravi a chiudere tutti gli spazi e arrivavano sempre prima di noi sulla palla, noi siamo stati meno bravi nel fare le scelte giuste in attacco - continua Conte - però bisogna sottolineare che noi non abbiamo mai concesso niente né nel primo né nel secondo tempo. Anzi, le occasioni le abbiamo avute solo noi e non ci sono mancate quelle con le quali potevamo anche raddoppiare. Abbiamo preso una traversa, abbiamo fatto il gol e potevamo anche fare un altro gol. E' stata una partita tosta, ma lo sapevamo”.
Alla fine, a fare la differenza è stata ancora una volta l’organizzazione tattica imposta proprio da Conte, oltre all’umiltà e allo spirito di sacrificio di questa nazionale operaia. A centrocampo la diga di Parolo e De Rossi ha retto (anche atleticamente) e buone sono state le proiezioni sulle fasce di Candreva e Florenzi (che ha convinto più di Darmian).
Il vero apporto decisivo è stato però quello della difesa, dove il collaudato blocco juventino (i tre “bastardi senza gloria”, citazione tarantiniana della Bbc) è riuscito a imbrigliare Ibrahimovic. Il campione svedese, già poco ispirato di suo, non ha potuto inventare nulla ed è riuscito a sparare in curva un pallone che bastava appoggiare in rete a un metro dalla linea di porta (era fuorigioco, ma l’errore rimane clamoroso). Un dato su tutti evidenzia comunque la legittimità del risultato: nel corso dell'intera partita, gli svedesi non hanno fatto un tiro in porta.
A questo punto viene da chiedersi a cosa possano aspirare gli azzurri. “Intanto, iniziamo a chiederci chi si aspettava che l'Italia sarebbe passata agli ottavi di finale - ha detto ancora Conte - e questa è già una risposta che abbiamo dato”.