Le operazioni militari degli ultimi giorni di Israele in Libano hanno decapitato una parte della leadership di Hezbollah e assestato un colpo gravissimo alla coesione e alle capacità organizzative del “Partito di Dio”. Le potenzialità offensive di Hezbollah restano tuttavia per lo più intatte e, al di là della propaganda sionista e dell’ostentazione di forza del regime terroristico di Netanyahu, gli obiettivi della guerra nel “paese dei cedri”, così come a Gaza, restano lontani dall’essere raggiunti. Se i tempi di risposta di Hezbollah saranno tutti da verificare dopo gli ultimi eventi, sono in pochi a credere che lo stato ebraico possa sottomettere con la sola violenza i propri nemici e stabilizzare a proprio favore gli scenari della regione.

Quasi certamente per dare un segnale di fiducia al movimento e ai suoi seguaci dopo l’assassinio nel fine settimana di Hassan Nasrallah, lunedì il numero due di Hezbollah, Naim Qassem, ha tenuto un acceso discorso pubblico nel quale ha ribadito che i suoi uomini sono pronti a rispondere a un’eventuale invasione di terra israeliana, secondo alcuni media americani ormai imminente o addirittura già iniziata, anche se probabilmente di portata “limitata”. Qassem ha anche annunciato la prossima nomina del successore di Nasrallah, che, secondo quasi tutti gli osservatori, potrebbe essere il cugino di quest’ultimo, Hashem Safieddin, già al vertice del “consiglio esecutivo” di Hezbollah.

Il calcolo di Netanyahu si basa in ogni caso su una valutazione strategica errata, oltretutto già sperimentata in passato sia con la resistenza palestinese sia ancora con Hezbollah. Il prendere di mira una determinata entità, una milizia o i suoi vertici non annulla cioè il “problema” per Tel Aviv, se non tutt’al più per un breve periodo, poiché alla radice della lotta contro Israele non c’è la natura maligna e irriducibilmente anti-sionista della componente di turno della resistenza, quanto la natura illegale, violenta e genocida del progetto sionista e dell’apparato politico e militare che ne è espressione.

Vittorie militari ritenute decisive da parte di Israele o dei suoi alleati, risultano perciò solo parziali o momentanee e l’opposizione all’occupazione finisce per manifestarsi in altri modi. La stessa nascita di Hezbollah negli anni Ottanta fu la conseguenza diretta dell’invasione israeliana del Libano del 1982 e della guerra che ne seguì. Nel 1992, le forze sioniste assassinarono inoltre l’allora leader di Hezbollah, Abbas al-Musawi, la cui morte determinò però l’ascesa di Nasrallah, che avrebbe fatto diventare il movimento sciita una forza formidabile in grado negli anni successivi di umiliare lo stato ebraico.

Ciò non toglie che i fatti delle ultime settimane rischino di creare una situazione rovinosa in Libano, che Israele potrebbe sfruttare per allentare le pressioni interne e internazionali di questi mesi. Le tradizionali divisioni settarie che caratterizzano il paese potrebbero accentuarsi e gli oppositori di Hezbollah cercare di approfittare delle difficoltà del movimento sciita, scatenando una competizione politica e di potere che indebolirebbe ulteriormente il governo e aggraverebbe una situazione economica già drammatica.

La presa di posizione di lunedì del premier libanese, Najib Mikati, sugli scenari nell’area di confine con Israele sembra confermare questa ipotesi. Il capo del governo di Beirut si è detto pronto a fare rispettare la risoluzione ONU 1701, approvata al termine della guerra del 2006 e finora di fatto mai implementata. Mikati scambierebbe cioè una tregua con il dispiegamento dei militari libanesi lungo la frontiera, rimuovendo da questa zona le forze di Hezbollah. Una soluzione di questo genere è da tempo in cima alle richieste israeliane. Netanyahu intende infatti stabilizzare il fronte libanese per consentire il ritorno delle decine di migliaia di coloni evacuati dopo il 7 ottobre scorso e l’inizio dei bombardamenti di Hezbollah.

Un’evoluzione simile appare comunque affrettata. La riorganizzazione di Hezbollah, per cominciare, potrebbe non essere così faticosa come i suoi oppositori sostengono. Il movimento ha una struttura decentrata che rappresenta uno dei propri punti di forza, così che la liquidazione di uno o più leader, per quanto carismatici come Nasrallah, non comporta la paralisi delle operazioni. Il formidabile arsenale bellico di Hezbollah resta poi in larga misura intatto e capace di provocare seri danni a Israele. Alle carenze dal punto di vista della sicurezza dei giorni scorsi, sfruttate dalla tecnologia e dagli “asset” israeliani infiltrati in Libano, sarà ugualmente messo rimedio per limitare ulteriori operazioni catastrofiche del nemico.

L’ambiente libanese, se dovesse essere ordinata un’invasione di terra anche parziale, resta in definitiva estremamente pericoloso per le forze sioniste. Più in generale, l’esito del confronto con Hezbollah dipenderà in buona parte anche dalle mosse degli altri membri della resistenza, primo fra tutti l’Iran. A questo proposito, si sta discutendo animatamente circa il comportamento della Repubblica Islamica di fronte all’escalation israeliana e ai fatti del Libano.

In molti hanno attribuito alla leadership iraniana una parte della responsabilità della morte di Nasrallah e degli altri uomini di vertice di Hezbollah. Teheran, secondo questa interpretazione, avrebbe abbandonato l’alleato a sé stesso, convalidando l’efficacia del deterrente sionista, ovvero la superiorità militare di Israele e degli Stati Uniti. Ci sono pochi dubbi che le iniziative concrete iraniane non abbiano fino ad ora tenuto il passo della retorica anti-sionista, ma sostenere che la leadership della Repubblica Islamica abbia lasciato Hezbollah in balia della barbarie dello stato ebraico non corrisponde alla realtà dei fatti e, ad ogni modo, non tiene conto del contesto più ampio.

È evidente che l’indebolimento di Hezbollah costituisce un attacco all’Iran e ai suoi interessi strategici nella regione. L’appoggio alla resistenza in Libano, come altrove in Medio Oriente, è perciò un elemento fondamentale della politica estera iraniana. Questo dato non è cambiato dopo le operazioni di queste settimane di Israele, ma allo stesso tempo ogni mossa dei vertici della Repubblica Islamica deve essere calibrata in rapporto al quadro generale emerso dopo i fatti del 7 ottobre scorso. Una reazione da parte dell’Iran rischia di trascinare questo paese in una guerra diretta con Israele e, molto probabilmente, con gli Stati Uniti.

Al di là dell’esito del possibile conflitto, questo scenario causerebbe serissimi problemi per un Iran che non ha superato del tutto le sfide economiche e sociali prodotte da decenni di sanzioni occidentali e dal (relativo) isolamento internazionale a cui hanno cercato di costringerlo l’Occidente e lo stesso stato ebraico. Una delle priorità di Teheran, assieme all’appoggio incondizionato all’asse della resistenza, è quindi anche di evitare un conflitto di vasta portata in Medio Oriente ed è per questo motivo che ogni decisione deve essere presa con estrema cautela, nonostante le conseguenze siano spesso drammatiche, come in Libano e a Gaza.

Il nodo cruciale risiede in altre parole nel bilanciare le pressioni per rispondere alla violenza sionista con una strategia che guardi invece al medio e lungo periodo, per favorire un processo di logoramento di Israele basato sulla cooperazione tra tutte le forze della resistenza. In molti ritengono dunque più probabile che l’Iran continui a delegare in larga misura la lotta contro lo stato ebraico e la difesa dei palestinesi ai propri alleati, in modo da evitare un coinvolgimento diretto nel conflitto. Una strategia coerente con le inclinazioni dell’attuale governo del presidente moderato Pezeshkian, impegnato ancora nei giorni scorsi a mandare segnali di distensione all’America e all’Occidente.

Con Netanyahu e le forze ultra-radicali che governano Israele virtualmente fuori controllo e soggette a nessuna autorità o freno, la posizione dell’Iran potrebbe però diventare insostenibile, soprattutto se dovessero verificarsi provocazioni o attacchi diretti contro il proprio territorio. A quel punto, l’esplodere di un conflitto allargato sarebbe quasi inevitabile e la responsabilità interamente degli Stati Uniti, che nulla hanno fatto in passato per risolvere la questione palestinese, né dopo il 7 ottobre per fermare il genocidio.

Anzi, la gestione della crisi ha evidenziato un livello di competenza infimo e un’uguale capacità di persuasione da parte di un’amministrazione Biden capace solo di esprimere vacue preoccupazioni per l’escalation in atto o studiare e riproporre inutili bozze di accordi per arrivare a un cessate il fuoco prima a Gaza e poi in Libano. Lo stesso copione si è ripetuto, secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, anche nei giorni scorsi, quando Nasrallah aveva dato l’OK al governo di Beirut per negoziare il possibile ritiro di Hezbollah dal confine con Israele, implementando la già ricordata risoluzione ONU 1701, nel quadro di una tregua che includesse la striscia.

Sulla base di queste aperture, Netanyahu aveva espresso interesse ai mediatori occidentali, ma, segretamente, stava preparando e autorizzando l’assassinio del suo interlocutore, ovvero Nasrallah, esattamente come aveva fatto con Hamas e Ismail Haniyeh lo scorso luglio. L’amministrazione Biden ha poi fatto circolare sulla stampa americana la notizia della presunta reazione furiosa all’operazione di venerdì a Beirut, della quale la Casa Bianca sarebbe stata informata solo con un brevissimo anticipo.

Che la ricostruzione corrisponda o meno alla realtà, i fatti suggeriscono quanto meno e come spesso accaduto dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza una passività complice da parte americana. La reale attitudine del governo di Washington, che condivide in pieno gli obiettivi strategici dell’alleato sionista, la si vedrà forse nel caso dovesse avere realmente luogo l’invasione di terra del Libano. Una decisione, quest’ultima, che rischia infatti di far saltare tutti i calcoli e mettere fine all’approccio cauto dell’Iran e degli altri membri della resistenza, costringendo gli Stati Uniti a prendere una posizione netta per impedire una catastrofica escalation oppure, più probabilmente, per posizionarsi apertamente e come sempre dalla parte sbagliata della storia.

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