L’assassinio a Teheran a fine luglio per mano israeliana del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, era stato subito seguito dalla promessa del governo iraniano di mettere in atto una ritorsione adeguata contro lo stato ebraico. Dopo oltre un mese, però, non si è registrata ancora nessuna iniziativa di rilievo. Molti sostengono che la sola attesa di un possibile attacco ha fatto salire enormemente le tensioni in Israele traducendosi in una sorta di punizione, ma l’unica ragione che giustificherebbe un passo indietro della Repubblica Islamica sembra essere una contropartita importante, con ogni probabilità collegata alla guerra a Gaza. La leadership iraniana, in ogni caso, deve valutare con estrema cautela qualsiasi risposta, vista la complessità degli scenari mediorientali odierni e le implicazioni che avrebbe per i propri interessi strategici.

 

Ci sono pochi dubbi che la possibile operazione allo studio a Teheran si incroci con le trattative per arrivare a una tregua permanente nella striscia. Allo stesso modo, l’uccisione di Haniyeh è arrivata, evidentemente non a caso, mentre l’Iran era nel pieno di una transizione istituzionale e politica che ha riportato al governo leader riconducibili agli ambienti “riformisti” o, comunque, meglio disposti a una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente. Haniyeh è stato assassinato mentre si trovava a Teheran per partecipare all’inaugurazione della presidenza di Masoud Pezeshkian, vincitore delle elezioni anticipate di inizio luglio tenute dopo la tragica scomparsa del presidente conservatore Ebrahim Raisi e del suo ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian.

Questi eventi e il riassestamento già in corso da tempo delle priorità strategiche iraniane influiscono quindi in maniera determinante su qualsiasi iniziativa in grado di provocare effetti anche indesiderati, come sarebbe appunto un attacco militare contro Israele o un assassinio mirato di una personalità di spicco dello stato ebraico. Tanto più che la crisi prodotta dall’assassinio del leader di Hamas segue di pochi mesi il primo clamoroso attacco con missili e droni sul territorio israeliano condotto della Repubblica Islamica. Questa operazione era la risposta al bombardamento, sempre da parte di Israele, dell’edificio che ospita gli uffici consolari iraniani a Damasco lo scorso primo aprile, nel quale erano stati uccisi alcuni ufficiali delle Guardie della Rivoluzione.

Per cercare di convincere Teheran a non portare a termine la propria ritorsione contro Israele si sono mobilitati in queste settimane vari alleati di Tel Aviv. L’amministrazione Biden avrebbe chiesto ad alcuni governi, come quello turco e dell’Oman, di fare pressioni sui vertici iraniani per convincerli a usare moderazione. La cancellazione o il rinvio della risposta all’assassinio di Haniyeh semplicemente per accogliere le richieste occidentali avrebbe tuttavia serie ripercussioni sul fronte domestico e in termini di credibilità in relazione ai rapporti con gli alleati regionali.

Piuttosto, la prudenza iraniana è dovuta alla necessità di calibrare le azioni da intraprendere contro Israele senza destabilizzare una situazione già estremamente precaria. Sullo sfondo c’è innanzitutto la questione palestinese. Sia pure tra difficoltà e boicottaggi, le trattative per mettere fine al genocidio in corso a Gaza continuano con la mediazione di USA, Egitto e Qatar. Le prospettive non sono incoraggianti, ma da Washington sono arrivati alcuni timidi segnali in questi giorni di un possibile aumento delle pressioni su Netanyahu per accettare una tregua. È evidente che un attacco contro Israele da parte dell’Iran, ancorché legittimo, metterebbe come minimo in pausa i negoziati.

Soprattutto, l’apertura di un fronte di guerra con Israele farebbe precipitare la situazione in Medio Oriente, probabilmente, quanto meno nel breve periodo, a tutto vantaggio dello stato ebraico, dal momento che Netanyahu avrebbe la giustificazione per sabotare definitivamente il processo diplomatico, mentre si ritroverebbe con la possibilità di compattare attorno al proprio governo un paese spaccato in due dalla guerra a Gaza. Netanyahu avvicinerebbe anche un altro obiettivo che continua a perseguire in questi mesi, ovvero il coinvolgimento diretto nel conflitto degli Stati Uniti, considerato decisivo per avere qualche possibilità di successo contro Hamas e l’asse della Resistenza.

Ci sono poi ragioni legate più strettamente agli interessi economici e strategici di ampio respiro della Repubblica Islamica a suggerire un approccio ponderato alla questione della rappresaglia contro Israele. Negli ultimi anni, la leadership iraniana dell’ayatollah Khamenei ha dato impulso a una serie di iniziative per rompere l’isolamento internazionale del paese e mitigare gli effetti delle sanzioni unilaterali americane. Per fare ciò, Teheran ha guardato inevitabilmente alle dinamiche multipolari in atto nel pianeta, entrando a far parte di organi multilaterali che sono al cuore di questi processi, come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) e i BRICS, ma anche stipulando accordi omnicomprensivi con potenze come Russia e Cina.

Questo nuovo panorama internazionale che vede al centro anche l’Iran predilige il fattore economico, energetico e infrastrutturale, così che pace e stabilità risultano essere elementi cruciali. L’infiammarsi degli scenari mediorientali con una guerra aperta tra Israele e Iran rischierebbe invece di mettere a rischio questi progetti. Oltretutto, il caos innescato finirebbe col favorire gli interessi americani, limitando i progressi in termini di influenza regionale dei partner internazionali di Teheran.

Va anche considerato che alla Casa Bianca potrebbe tornare a breve Donald Trump, le cui inclinazioni anti-iraniane sono ben note fin dalla decisione del 2018 di uscire unilateralmente dall’accordo sul nucleare (JCPOA) sottoscritto dal suo predecessore Obama. Se Trump dovesse vincere le elezioni di novembre e trovarsi di fronte uno stato di guerra tra Iran e Israele, è evidente che avrebbe vita ancora più facile per aumentare le pressioni sulla Repubblica Islamica.

Anche la prolungata attesa nel rispondere all’assassinio di Ismail Haniyeh comporta in ogni caso dei rischi per l’Iran. Gli alleati della Resistenza potrebbero in primo luogo perdere fiducia nella leadership iraniana, giudicata troppo esitante nel colpire il nemico dopo un’azione così clamorosa come quella di fine luglio. In questa prospettiva, l’emergere di forze centrifughe nel fronte anti-sionista potrebbe in teoria compromettere la compattezza dimostrata finora e favorire azioni isolate e meno efficaci.

Le dinamiche all’interno dell’asse della Resistenza sono comunque difficili da decifrare e le varie componenti conservano una certa autonomia di azione senza avere il controllo o la possibilità di influenzare l’operato degli alleati. Resta il fatto che Hamas o Hezbollah, che stanno sopportando il peso maggiore dell’aggressione israeliana, potrebbero in qualche modo risentire di quelle che vengono percepite come esitazioni da parte dell’Iran.

Di ciò non trapela ad ogni modo nulla a livello pubblico. Tuttavia, nei giorni scorsi un giornale kuwaitiano ha scritto di un deterioramento nei rapporti tra Teheran e i partner a causa appunto di Israele e della strategia da adottare contro il regime sionista. Dei fatti descritti non ci sono conferme, ma le tensioni si sarebbero manifestate durante una riunione a Teheran tra i rappresentanti delle varie anime della Resistenza. Hezbollah, in particolare, avrebbe invitato a liberarsi di ogni scrupolo per attaccare frontalmente Israele, colpendo le principali città e anche obiettivi civili per fermare la strage di palestinesi. Vista l’esitazione iraniana, il partito-milizia sciita libanese avrebbe avvertito di essere pronto anche ad agire di propria iniziativa.

Col trascorrere delle settimane, il dilemma per la Repubblica Islamica sembra farsi sempre più pressante, ma la posta in gioco e la priorità di evitare comunque una pericolosissima conflagrazione regionale difficilmente spingeranno i leader di questo paese a optare per decisioni affrettate, al di là delle richieste e delle esigenze dei singoli alleati nel fronte della Resistenza.

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