Le proteste di centinaia di migliaia di israeliani e uno sciopero generale, indetto lunedì per paralizzare il paese, non hanno apparentemente cambiato di una virgola l’atteggiamento del premier Netanyahu in relazione a un possibile cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Le operazioni militari, che da alcuni giorni si sono intensificate anche in Cisgiordania, stanno assumendo sempre più l’aspetto di una guerra totale contro la popolazione palestinese, senza nessun riguardo nemmeno per la sorte dei prigionieri israeliani ancora nelle mani di Hamas, né per le conseguenze sugli equilibri strategici regionali.

L’aggravarsi della crisi ha portato alla luce anche il primo vero scontro tra Netanyahu e il presidente americano Biden. L’inquilino della Casa Bianca ha sostenuto lunedì che il primo ministro di Israele non sta facendo abbastanza per mandare in porto l’accordo con Hamas. L’affermazione di Biden, pur rappresentando a dir poco un eufemismo, ha espresso un fatto chiaro a chiunque da parecchio tempo, ma, nel quadro delle dinamiche dei rapporti tra i due alleati negli ultimi mesi, segna il primo caso in assoluto in cui gli Stati Uniti hanno assegnato una qualche responsabilità al regime sionista per la mancata tregua.

 

Da Washington è arrivata comunque la notizia che l’amministrazione Biden starebbe ultimando un’altra proposta di intesa, questa volta “definitiva” e, in caso di ulteriore fallimento, difficilmente ripetibile o modificabile. Non è tuttavia per nulla chiaro come potranno essere superate le resistenze di Netanyahu, ribadite lunedì sera in una provocatoria conferenza stampa dopo la giornata che ha visto una massiccia mobilitazione contro il suo gabinetto per chiedere un accordo sulla liberazione dei prigionieri di Hamas. Com’è noto, nella giornata di domenica erano stati ritrovati i corpi di sei tra quelli ancora a Gaza, uccisi dal fuoco israeliano secondo Hamas e dagli uomini del movimento di resistenza palestinese secondo Tel Aviv. Hamas ha avvertito in seguito che anche i prigionieri ancora in vita faranno la stessa fine se il regime sionista dovesse continuare a rifiutarsi di fermare la guerra.

Netanyahu ha comunque respinto qualsiasi forma di pressione ed escluso compromessi sui negoziati, ribadendo la propria fermezza soprattutto sulle questioni da lui stesso aggiunte alle condizioni accettate nelle scorse settimane dai vertici di Hamas. Per dare la propria approvazione, Netanyahu insiste per garantire alle forze armate israeliane il controllo del corridoio Filadelfia, lungo il confine tra Gaza e l’Egitto, e del corridoio Netzarim, che taglia invece in due la striscia.

Nel primo caso, la richiesta di Netanyahu viene respinta anche dal governo egiziano, a cui è affidato il pattugliamento di quest’area assieme alle forze palestinesi, come previsto dagli accordi di Camp David del 1979. Una modifica per ratificare la presenza militare israeliana nel corridoio, avverte Il Cairo, metterebbe in discussione l’intero trattato, tanto più che l’opinione pubblica egiziana è già in fermento per il genocidio palestinese in corso e ritiene che il regime del presidente al-Sisi non stia facendo abbastanza per fermare la strage.

Netanyahu sostiene che il controllo del corridoio Filadelfia è necessario per impedire l’ingresso di armi a Gaza destinate a Hamas. Per quanto riguarda quello di Netzarim, le forze sioniste resterebbero schierate per ispezionare i palestinesi che, in caso di tregua, transiteranno per tornare alle loro abitazioni, o a ciò che resta di esse, nel nord della striscia. Hamas ritiene inaccettabili entrambe le condizioni aggiunte da Tel Aviv, poiché legittimerebbero di fatto l’occupazione permanente di Gaza da parte dello stato ebraico. Un membro dell’ufficio politico di Hamas ha rivelato inoltre al giornalista americano Jeremy Scahill che Israele intende anche auto-attribuirsi un potere di veto per evitare, nel contesto di un eventuale accordo, di rilasciare detenuti politici palestinesi di alto profilo.

Modificando i termini della bozza di accordo mediata da USA, Qatar ed Egitto, Netanyahu mostra in definitiva di non volere nessuna tregua, anzi di adoperarsi attivamente per boicottare i negoziati. Ciò conferma come il premier israeliano abbia deciso di continuare a puntare sull’alleanza politica interna con gli ambienti ultra-radicali sionisti, anche a rischio di andare incontro a conseguenze gravissime pur di non accettare un cessate il fuoco che, con ogni probabilità, provocherebbe la caduta del suo governo di estrema destra.

Anche sul fronte domestico, la fermezza di Netanyahu viene considerata sempre più come un pericolo. Settimana scorsa, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, aveva criticato la decisione di rendere stabile la presenza dei militari israeliani nel corridoio Filadelfia, perché questa condizione non potrebbe mai essere accettata da Hamas e, di conseguenza, allontanerebbe definitivamente un accordo sulla liberazione dei prigionieri.

Il totale disinteresse di Netanyahu per una tregua è testimoniato d’altra parte dall’operazione militare più massiccia ordinata in Cisgiordania dai tempi della seconda Intifada (2000-2005). L’operazione tuttora in corso conferma come i massacri a Gaza non siano solo una risposta ai fatti del 7 ottobre scorso, ma facciano parte di un piano più ampio, preparato da tempo, per estendere il controllo sionista su tutti i territori palestinesi. Al centro di esso c’è appunto la fazione più estrema della politica e della società di Israele, ben rappresentata nel gabinetto Netanyahu e accostata apertamente al terrorismo anche da esponenti dell’apparato della sicurezza dello stato ebraico, come ha fatto ad esempio di recente lo stesso direttore dell’intelligence dimestica (Shin Bet), Ronen Bar.

Una determinazione, quella evidenziata da Netanyahu e i suoi alleati, che deriva dalla consapevolezza di avere a portata di mano un’occasione storica che potrebbe non ripresentarsi in futuro. Soprattutto, a svolgere un ruolo decisivo, ovvero a ostacolare la fine dell’aggressione a Gaza e in Cisgiordania, è l’impunità garantita a Netanyahu dagli Stati Uniti e dall’Occidente in generale, ma anche dalla passività dei regimi arabi.

L’amministrazione Biden sembra adoperarsi per un accordo, agendo da mediatore tra le due parti ed esprimendo pubblicamente la necessità di arrivare a un cessate il fuoco il prima possibile, ma finora non ha mai adottato quelle misure che sole riuscirebbero a raggiungere questo obiettivo, come lo stop totale al trasferimento di armi a Israele. La realtà è che gli Stati Uniti divergono da Netanyahu solo sul piano tattico e ritengono fondamentale uno sblocco della situazione per ragioni politiche. La Casa Bianca vuole cioè la liberazione dei prigionieri israeliani e l’alleggerimento della crisi umanitaria a Gaza per arrivare alle elezioni di novembre senza la pressione degli ambienti vicini al Partito Democratico più critici del regime sionista.

Il comportamento di Netanyahu continua inoltre ad aggravare il discredito a livello internazionale di Israele e, di riflesso, peggiora l’immagine degli stessi Stati Uniti, così da danneggiare gli interessi di Washington in Medio Oriente, dove la supremazia americana è già oggetto di un’accesa competizione con potenze come Russia e Cina. Su un piano più ampio, però, gli USA appoggiano in tutto e per tutto la condotta israeliana, in primo luogo per le implicazioni che, almeno in teoria, potrebbe avere sul conflitto con le forze dell’asse della Resistenza mediorientale.

Da queste circostanze deriva l’apparente indecisione e le contraddizioni che segnano la gestione americana della crisi in atto. Sempre per queste ragioni, Netanyahu ha potuto fare più volte marcia indietro sui colloqui di pace con Hamas, contraddicendo i propri inviati al tavolo dei negoziati o aggiungendo condizioni inaccettabili ai propri interlocutori. Il tutto, almeno finora, con il sostanziale beneplacito della Casa Bianca.

La stessa risolutezza con cui Netanyahu intende distruggere la resistenza palestinese rischia però di trasformarsi in un boomerang. Un’analisi pubblicata lunedì dalla testata on-line libanese The Cradle ha evidenziato come soprattutto la decisione di allargare il fronte alla Cisgiordania comporti rischi enormi, principalmente per il pericolo di un collasso dell’architettura stabilita dagli Accordi di Oslo. Sotto le pressioni israeliane, la già ultra-screditata Autorità Palestinese potrebbe essere travolta o, come minimo, marginalizzata nel proprio ruolo di modello pacifico (collaborazionista) e alternativo alla lotta armata per la liberazione dall’occupazione sionista.

L’altro soggetto maggiormente in pericolo a causa delle azioni di Israele è la monarchia hashemita che governa la Giordania. Anche qui, l’indignazione popolare per il genocidio palestinese e l’inerzia del sovrano Abdullah II minacciano la stabilità del regno, tanto da metterlo davanti ad alternative tutt’altro che piacevoli, come la denuncia del trattato di pace con Israele, una crescente rivolta interna o un nuovo massiccio afflusso di rifugiati dalla Cisgiordania.

Non molto diversa è la situazione anche dell’Egitto o dei paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele attraverso i cosiddetti Accordi di Abramo promossi da Trump (Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, Sudan). Allo stesso modo, lo scenario odierno rende improbabile la partecipazione a questo processo dell’Arabia Saudita, corteggiata da anni sia da Washington sia da Tel Aviv. L’evoluzione favorevole a Israele degli anni scorsi potrebbe in definitiva cambiare completamente a causa dell’aggressività fuori controllo di Netanyahu, fino a causare un vero e proprio terremoto in grado di rimodellare radicalmente l’ordine geopolitico del Medio Oriente.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy