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Vorrei cogliere l'occasione per riflettere su quattro importanti questioni che ci chiamano ad essere preoccupati per l'argomento che ci riguarda oggi. Da qualche tempo, abbiamo notato una crisi del modello democratico nella nostra America.
Dal momento che apparve come una forma di convivenza politica, la democrazia è stata concepita come una democrazia basata sulla maggioranza, in cui, se la gente dà ad un partito il 50 per cento più un voto in libere elezioni, questi ha ottenuto la legittimazione a governare in nome dell'intera società, compresi tutti coloro che non hanno votato a favore.
Così, le minoranze erano grandi o piccole, a seguito del gioco democratico, in attesa delle successive elezioni per poter diventare maggioranza e passare ad essere - attraverso di esse - il partito di governo.
Ma negli ultimi anni abbiamo osservato che alcune minoranze non vogliono accettare questo processo democratico e, senza la legittimità del voto della maggioranza, vogliono giungere al potere utilizzando qualsiasi errore per trasformarlo in crisi, quindi passare dalla crisi al caos, per poi chiedere al governo di dimettersi o, in alternativa, le elezioni anticipate, con un colpo di stato costituzionale tramite il Parlamento o un colpo di stato militare o estero. Ho definito questa situazione politica "la crisi delle minoranze disperate".
Quasi sempre queste minoranze non sono disposte ad aspettare il periodo di governo che assegna la Costituzione e, con il sostegno di minoranze economiche, clericali, sociali, militari etc., con l’appoggio dei social network, delle forze esterne e dei media, violando il gioco democratico e dando la falsa impressione di una maggioranza che è però solo mediatica, cercano di destabilizzare per vedere se possono arrivare al potere, non importa se questo cancellerà la democrazia di maggioranza.
Ovviamente, avendo raggiunto la maggioranza, non si concede al governo eletto una licenza per imporre un programma governativo impopolare o per schiacciare le minoranze solo avendo vinto un'elezione con il voto a maggioranza. La maggioranza è legittimata solo dal consenso e dalla negoziazione costanti, altrimenti corre il rischio di essere legale ma non legittima.
Il secondo concetto su cui voglio riflettere oggi è la crisi del modello di associazione degli stati contro la cosiddetta società civile. Come tutti sappiamo, questa organizzazione è stata creata come un'associazione di Stati per difendere i loro interessi, per assicurare la pace, la convivenza e il benessere delle nostre nazioni. Per questo, abbiamo assunto una serie di impegni economici, politici e internazionali. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a un'influenza preoccupante nell'OSA delle cosiddette ONG o gruppi della società civile.
Se alcuni di questi gruppi sono combattenti di nobili cause sociali, molti altri sono organizzazioni politiche di minoranza con maschera di società civile, che mimetizzandosi da ONG e sostenute da forze straniere, cercano di utilizzare qualsiasi crisi per pescare nel torbido e spodestare le maggioranze democraticamente elette.
Questa influenza della società civile nell'OSA è andata così avanti che a volte non sappiamo se alcune istanze della nostra Istituzione parlano o agiscono a nome di queste organizzazioni. Il che non solo vìola il principio di associazione, dove deve prevalere la voce e la difesa dei nostri interessi come nazioni, ma può essere vista come un tradimento dei veri leader dell'OSA, che sono i suoi stati membri.
Quindi, con un'organizzazione che non crede ai suoi membri o alle sue istituzioni, con quali incentivi gli Stati dovrebbero finanziare, difendere o rimanere in un'istituzione che preferisce difendere gli interessi esterni e non i propri?
Il terzo concetto su cui voglio riflettere oggi è la crisi e il discredito in cui la diplomazia multilaterale sta cadendo nella cosiddetta società dell'informazione. Questa crisi si verifica quando si tenta di prendere decisioni o iniziative basate sui media o sui social network e non su indagini serie, libere da pregiudizi e contaminazione ideologica.
Chiamo questa forma di azione multilaterale "spettacolo diplomazia o diplomazia farandulera", perché proprio come l'intrattenimento si basa sulla ricerca di notorietà e fama a qualsiasi prezzo, usando frivolezza, superficialità e imprecisione per raggiungere gli scopi proposti.
La diplomazia basata su twit, ritaglio di giornali e comodi rumors è una distorsione di un multilateralismo serio, che deve basarsi su ricerche, conferme scientifiche e prove indiscutibili. Consentire a questa forma di diplomazia distorta di penetrare nella nostra istituzione sarebbe un atto irresponsabile che finirebbe per danneggiare l'immagine di un'organizzazione che, come l'OSA, ha già attraversato così tanti problemi di credibilità con i nostri popoli.
E infine, voglio riferirmi a una realtà in cui viviamo tutti, ma nessuno vuole accettare o affrontare con il coraggio e l'equilibrio che il momento richiede. Mi riferisco all'OSA come a un campo di battaglia tra sinistra e destra nella sua lotta per raggiungere l'egemonia continentale.
Questa lotta tra queste due forze storiche non è nuova, l'unica cosa che è cambiata è la correlazione delle forze, perché quando le destre governano e concentrano la ricchezza e generano disuguaglianza, i popoli abbracciano la sinistra alla ricerca dell'ideale di giustizia sociale. Ma quando la sinistra in nome dell'equità diventa populista e genera squilibri economici e mancanza di produttività, allora la gente gira di nuovo verso destra in cerca di progresso e stabilità.
Quindi la domanda è: come far coesistere queste due forze in un'organizzazione la cui missione è raggiungere la convivenza e la pace? La prima cosa da fare non è incoraggiante da questa organizzazione posizioni ideologiche inflessibili che impediscono il dialogo e l'accordo, dal momento che, per definizione, l'OAS non deve essere né destra né a sinistra.
La parzialità della OSA come istituzione e l'inclinazione all’attivismo fazioso di alcuni dei suoi portavoce può stimolare scontri ed estremismi, il che ci si trasformerebbe in un'entità di divisione e non di unità, in un ente parziale e non equilibrato e in un'organizzazione attivista e non mediatrice. E se è così, quale disservizio faremmo al continente e ai nostri popoli!
Penso, signori, che queste riflessioni possano aiutarci a capire il tempo in cui viviamo nella nostra regione e la necessità di adottare importanti, urgenti e sostenibili misure correttive, se vogliamo raggiungere l'ideale dei nostri liberatori che sognavano un'America cui la gente era veramente libera di vivere in una vera democrazia e godere di un'ampia prosperità economica e di una piena giustizia sociale.
* Intervento di Gedeor Santos, ambasciatore della Repubblica Dominicana presso l'OSA (Organizzazione degli stati americani) nel corso della discussione sulla situazione in Nicaragua.
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Il partito di governo, il FSLN, e la sua formula presidenziale, sono nel mirino di chi dice che l'attuale modello di governo è sconfitto e che si tratta di una dittatura; si sentono con il diritto e la forza non solo per rovesciarlo, ma per farlo con una rivoluzione che mira a finire e spazzare via tutto ciò che il Sandinismo rappresenta.
E’ da poco più di tre mesi fa che il paese è regredito, con l'inizio di un incubo che è iniziato il 18 aprile. Abbiamo visto molti antisandinisti in marcia per le strade, gridando odi che in seguito hanno dato luogo alla vendetta e ha reso il crimine organizzato lo strumento fondamentale per liberare il terrore e quindi sottomettere il paese in nome della "democrazia e libertà" che offre uno stato di morte e paura senza precedenti nella nostra storia.
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- Scritto da Alberto Negri
Come si diceva un tempo i nodi vengono al pettine. E il nodo sono gli opposti interessi tra gli Usa, i partner della Nato e dentro la stessa Alleanza. Ma questa situazione la dobbiamo anche a Londra e Parigi che hanno sostenuto i piani americani in Medio Oriente per favorire Arabia saudita e Israele e distrutto nel 2011 la Libia, la nostra pompa di benzina.
Non è un caso che il regno wahabita sia il più importante acquirente di armi americane e francesi, i due maggiori esportatori bellici del mondo: a Bruxelles Trump, per ragioni di equità, avrebbe dovuto chiedere non alla Germania ma ai francesi un aumento delle spese per la Nato perché al momento sono loro, e gli inglesi, che ci guadagnano di più a stare nell’Alleanza.
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- Scritto da Max Blumenthal
Mentre alcuni media corporativi hanno ritratto il violento movimento di protesta che intrappola il Nicaragua come un movimento progressista di base, gli stessi studenti del paese hanno dimostrato il contrario. All'inizio di giugno, un piccolo gruppo di attivisti dell'opposizione dal Nicaragua si è recato a Washington, DC, con la testa del gruppo di difesa dello Stato americano di destra, Freedom House.
Il gruppo di opposizione, noto come M19, era lì per chiedere aiuto a Donald Trump e ad altri funzionari di destra del governo degli Stati Uniti per aiutarli nella loro lotta contro il presidente nicaraguense Daniel Ortega.
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- Scritto da Thierry Meyssan
Durante la campagna elettorale per le presidenziali in USA, abbiamo mostrato come la rivalità tra Hillary Clinton e Donald Trump non risiedesse tanto nella differenza di stile quanto nella diversa cultura. L’outsider metteva in discussione il dominio dei puritani e reclamava il ritorno al compromesso originario del 1789 — quello del Bill of Rights — tra i rivoluzionari che si battevano contro re Giorgio e i grandi proprietari terrieri delle 13 colonie.
Non proprio così inesperto di politica, Trump già aveva palesato la propria opposizione al sistema il giorno stesso degli attentati dell’11 settembre e, in seguito, nella polemica sul luogo di nascita del presidente Obama.
Analogamente, non abbiamo interpretato la ricchezza di Trump come un chiaro indizio del suo schieramento a servizio dei più ricchi, bensì come segno dell’intenzione di difendere il capitalismo produttivo contro il capitalismo speculativo.
Abbiamo rimarcato che, sul fronte esterno, i presidenti George W. Bush e Barack Obama hanno intrapreso le guerre di Afghanistan, Iraq, Libia e Siria mettendo in atto la strategia dell’ammiraglio Cebrowski: la distruzione delle strutture statali in tutti i Paesi del «Medio Oriente Allargato» . Abbiamo altresì rilevato come questi stessi presidenti abbiano, sul piano interno, sospeso il Bill of Rights. La combinazione di queste due politiche ha portato allo svilimento e all’impoverimento del ceto medio [«petits blancs»].
Trump invece non si è mai stancato di denunciare l’Impero Americano e di annunciare il ritorno ai principi repubblicani, richiamandosi ad Andrew Jackson (1829-37) e ricevendo l’investitura dagli ex collaboratori di Richard Nixon (1969-1974).
La sintesi del suo pensiero in politica interna era lo slogan «Make America Great Again!» [Letteralmente: Facciamo l’America di nuovo grande! ndt]: smettiamo di inseguire la chimera imperiale e facciamo ritorno al «sogno americano» dell’arricchimento personale. E il compendio della sua concezione della politica estera era lo slogan «America First!», che noi abbiamo interpretato, non nel senso attribuitogli durante la seconda guerra mondiale, bensì nel senso originario. Dunque, non abbiamo visto in lui un neo-nazista, ma un politico che rifiuta di mettere il proprio Paese al servizio delle élite transnazionali.
Fatto ancora più sconcertante: ritenevamo impossibile che Trump potesse giungere a un accordo culturale con la minoranza messicana e abbiamo preconizzato che, alla fine, avrebbe favorito una separazione in via amichevole: l’indipendenza della California (CalExit).
La nostra lettura degli obiettivi e del metodo Trump lasciava tuttavia aperta la questione della capacità di un presidente statunitense di modificare la strategia militare del Paese.
Scrivendo per due anni in contrasto con la totalità dei commentatori, siamo stati a torto etichettati partigiani di Trump. Il senso del nostro lavoro è stato travisato. Non siamo elettori statunitensi, quindi non sosteniamo alcun candidato alla Casa Bianca. Siamo analisti politici e ci sforziamo unicamente di comprendere i fatti e di anticiparne le conseguenze.
A che punto siamo oggi?
- • Dobbiamo concentrarci sui fatti ed eliminare dal nostro modo di ragionare le distorsioni mediatiche della comunicazione del presidente Trump. • Dobbiamo distinguere ciò che è proprio di Trump da ciò che è la continuità con i suoi predecessori e da ciò che appartiene alle tendenze del momento.
Sul piano interno
A Charlottesville Trump ha sostenuto una manifestazione di suprematisti bianchi e il diritto, anche dopo il massacro di Parkland, di portare armi. Posizioni interpretate come un appoggio alle idee di estrema destra e alla violenza. Al contrario, si è trattato per Trump di promuovere i «Diritti dell’uomo» versione USA, quali sono enunciati nei due primi emendamenti del Bill of Rights.
Indubbiamente si può dire tutto il male possibile della definizione statunitense dei «Diritti dell’uomo» - e noi non cessiamo di criticarla nella tradizione di Thomas Paine - ma si tratta di tutt’altra questione.
Per mancanza di mezzi, il completamento del Muro alla frontiera messicana, costruito dai predecessori di Trump, è lungi dall’essere terminato. È ancora troppo presto per trarne conclusioni. Lo scontro con quegli immigrati ispanici che si rifiutano di parlare inglese e di adeguarsi al compromesso del 1789 non è ancora avvenuto. Donald Trump si è per il momento limitato a sopprimere il servizio in spagnolo dei comunicati della Casa Bianca.
Sulla questione delle modificazioni del clima, Trump ha respinto l’Accordo di Parigi non per indifferenza all’ecologia, ma perché quest’accordo impone un regolamento finanziario che avvantaggia unicamente i responsabili delle Borse dei diritti di emissione del CO2.
In materia economica Trump non è riuscito a imporre la propria rivoluzione: esentare le esportazioni e tassare le importazioni. Ha tuttavia ritirato gli Stati Uniti dai trattati di libero scambio non ancora ratificati, come l’Accordo di Partenariato Transpacifico. Poiché la Border Tax è stata respinta dal Congresso, Trump sta tentando di aggirare i parlamentari e istituire tasse proibitive sull’importazione di alcuni prodotti, provocando lo stupore degli alleati e la collera della Cina.
Anche il lancio del programma rooseveltiano di costruzione di infrastrutture langue: Trump ha reperito solo il 15% dei finanziamenti. E non ha ancora lanciato il programma per arruolare cervelli stranieri e rilanciare l’industria americana, benché l’abbia annunciato nella Strategia Nazionale per la Sicurezza.
In conclusione, il poco che Trump ha già portato a termine è stato sufficiente a rilanciare produzione e lavoro negli Stati Uniti.
Sul piano esterno
Per liquidare l’Impero americano, Trump aveva annunciato l’intenzione di cessare il sostegno agli jihadisti, di sciogliere la NATO, di abbandonare la strategia di Cebrowski e di rimpatriare le truppe di occupazione. È evidentemente molto più difficile riformare la prima amministrazione federale, cioè le forze armate, che cambiare per decreto le regole economiche e finanziarie.
Il presidente Trump ha prioritariamente piazzato a capo del dipartimento della Difesa e della CIA personaggi fidati, in modo da scongiurare tentativi di ribellione. Ha riformato il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, riducendo il ruolo del Pentagono e della CIA. Ha immediatamente messo fine alle “rivoluzioni colorate” e agli altri colpi di Stato che avevano contraddistinto le amministrazioni precedenti.
Trump ha poi convinto i Paesi arabi, tra i quali l’Arabia Saudita, a cessare il sostegno agli jihadisti. Le conseguenze non hanno tardato a manifestarsi: la caduta di Daesh in Iraq e in Siria. Contemporaneamente, Trump ha rinviato lo scioglimento della NATO, accontentandosi di annettervi un compito anti-terrorismo. Nel contempo, nello scenario della campagna britannica contro Mosca, l’Alleanza sviluppa alacremente il proprio dispositivo anti-Russia.
Trump ha conservato la NATO solo per controllare i vassalli degli Stati Uniti. Ha deliberatamente screditato il G7, costringendo gli smarriti alleati a prendere atto delle proprie responsabilità.
Per interrompere la strategia Cebrowski nel Medio Oriente Allargato, Trump sta preparando la riorganizzazione della zona, incentrandola sul ritiro americano dagli accordi con l’Iran (JCPoA e accordo bilaterale segreto) nonché sul suo piano per regolare la questione palestinese. Il progetto, che Francia e Regno Unito stanno tentando di sabotare, ha poche possibilità di riuscire a ristabilire la pace nella regione, tuttavia permetterà di paralizzare le iniziative del Pentagono, i cui ufficiali superiori si preparano peraltro a mettere in atto la strategia Cebrowski nel “bacino dei Caraibi”.
L’iniziativa di risoluzione del conflitto coreano, ultimo vestigio della Guerra Fredda, dovrebbe permettere a Trump di mettere in discussione la ragion d’essere della NATO. Gli alleati si sono impegnati in quest’organizzazione solo per prevenire in Europa una situazione analoga a quella della guerra di Corea.
Alla fine, le Forze armate USA non dovrebbero più essere utilizzate per schiacciare piccoli Paesi, bensì esclusivamente per isolare la Russia e per impedire alla Cina di sviluppare le “Vie della seta”.
Fonte: Voltairenet.org