Se si considera la guerra in Siria non un avvenimento a sé stante, bensì l’esito d’un conflitto mondiale durato un quarto di secolo, è d’obbligo interrogarsi sulle conseguenze della fine delle ostilità, ormai prossima. L’epilogo di questa guerra segna la disfatta di un’ideologia, quella della globalizzazione e del capitalismo finanziario. Le nazioni che non l’hanno capito, soprattutto dell’Europa occidentale, si emargineranno da sole dal resto del mondo.Le guerre mondiali non finiscono semplicemente con un vinto e un vincitore: il loro esito traccia i contorni di un nuovo mondo.

 

La prima guerra mondiale si è conclusa con la sconfitta degli imperi tedesco, russo, austroungarico e ottomano. La fine delle ostilità è stata suggellata dalla nascita di un’organizzazione internazionale, la Società delle Nazioni (SDN), incaricata di eliminare la diplomazia sotterranea e di regolare i conflitti tra gli Stati membri per mezzo dell’arbitraggio.

 

La seconda guerra mondiale si è conclusa con la vittoria dell’Unione Sovietica sul Reich nazista e sull’Impero del Giappone dell’hakkō ichi’u [1], cui ha fatto seguito una rincorsa degli Alleati per occupare le spoglie della Coalizione vinta. Ne è nata una nuova struttura, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), incaricata di prevenire nuove guerre impostando il diritto internazionale attorno a una duplice legittimazione: l’Assemblea Generale, dove ogni Stato conta uno, indipendentemente dalle dimensioni, e il Consiglio di Sicurezza, direttorio formato dai cinque principali vincitori.

 

La guerra fredda non è stata la terza guerra mondiale. Non si è conclusa con la sconfitta, bensì con l’implosione dell’Unione Sovietica. Non ha dato origine a nuove istituzioni e gli Stati dell’ex Unione Sovietica sono stati assorbiti da organizzazioni preesistenti.

 

La terza guerra mondiale è iniziata in Jugoslavia, è proseguita in Afghanistan, Iraq, Georgia, Libia, Yemen, e ora sta per concludersi in Siria. Il campo di battaglia è stato circoscritto ai Balcani, al Caucaso e a quello che ormai viene chiamato Medio Oriente Allargato. È costata la vita a tante popolazioni mussulmane e cristiano-ortodosse, senza troppo dilagare nel mondo occidentale. Dopo il vertice Putin-Trump di Helsinki, questo conflitto mondiale ora sta finendo.

 

Le profonde trasformazioni che hanno modificato il mondo negli ultimi 26 anni hanno trasferito parte del potere dei governi ad altre entità, amministrative e private, e viceversa. Si è visto, per esempio, un esercito privato, Daesh, proclamarsi Stato sovrano. Nonché il generale David Petraeus organizzare, quando era a capo della CIA, il più vasto traffico d’armi della storia e, dopo le dimissioni, proseguirlo in nome d’una società privata, il fondo speculativo KKR.

 

Questa situazione può essere descritta come scontro tra una classe dirigente transnazionale, da un lato, e governi responsabili di fronte ai governati, dall’altro.

Diversamente da quel che vuol far credere la propaganda, che addossa le cause delle guerre a circostanze contingenti, i conflitti hanno radici in rivalità e ambizioni profonde e d’antica data. Occorrono anni prima che gli Stati si ergano gli uni contro gli altri. È spesso è solo con il tempo che possiamo comprendere i conflitti che ci divorano.

 

Per esempio, pochissimi hanno capito quel che stava accadendo con l’invasione giapponese della Manciuria (1931); ci è voluta l’invasione tedesca della Cecoslovacchia (1938) per comprendere che le ideologie razziste avrebbero condotto alla seconda guerra mondiale. E sono rari quelli che hanno capito sin dalla guerra di Bosnia-Erzegovina (1992) che l’alleanza tra NATO e islam stava per aprire la via alla distruzione del mondo mussulmano.

 

Nonostante i lavori di storici e giornalisti, ancor oggi molti non hanno preso coscienza dell’enormità della macchinazione di cui tutti siamo stati vittime. Costoro si rifiutano di ammettere che la NATO coordinava truppe ausiliarie saudite e iraniane sul continente europeo. Eppure, è un fatto incontestabile. Si rifiutano anche di ammettere che al Qaeda, accusata dagli Stati Uniti di aver compiuto gli attentati dell’11 settembre, ha combattuto poi agli ordini della NATO in Libia e Siria. Eppure, è un fatto incontestabile.

 

Il piano iniziale, che prevedeva di far ergere il mondo mussulmano contro il mondo ortodosso, si è modificato strada facendo. Lo «scontro di civiltà» non c’è stato. L’Iran sciita si è rivoltato contro la NATO, di cui era al servizio in Jugoslavia, e si è alleato alla Russia ortodossa per salvare la Siria multiconfessionale.

 

Dobbiamo aprire gli occhi sulla storia e prepararci all’alba di un nuovo sistema mondiale dove alcuni amici di ieri potrebbero diventare nostri nemici, e viceversa.

A Helsinki, l’accordo con la Federazione di Russia non è stato concluso dagli Stati Uniti, bensì dalla Casa Bianca: il nemico comune di Putin e di Trump è un gruppo transnazionale che esercita un potere negli Stati Uniti. Ritenendo di essere lui, e non il presidente eletto, il rappresentante degli USA, questo potentato non ha esitato ad accusare immediatamente il presidente Trump di tradimento.

 

Questo gruppo transnazionale è riuscito a convincerci che le ideologie sono morte e che la Storia è finita. Ha presentato la globalizzazione, ossia la dominazione anglosassone per mezzo della diffusione della lingua e dello stile di vita americano, come conseguenza dello sviluppo delle tecniche di trasporto e di comunicazione. Ci ha assicurato che un sistema politico unico, la democrazia (ossia il «governo del Popolo, da parte del Popolo, per il Popolo»), sarebbe stato ideale per tutti gli uomini e che era possibile imporlo ovunque con la forza. Infine, ha presentato la libera circolazione delle persone e dei capitali come la soluzione di tutti i problemi di manodopera e d’investimento.

 

Tuttavia, queste asserzioni, che noi tutti accettiamo nella vita di ogni giorno, non resistono un solo minuto alla riflessione. Dietro queste menzogne, questo gruppo transnazionale ha sistematicamente eroso il Potere degli Stati e accaparrato ricchezze.

 

Lo schieramento che sta per uscire vincitore da questa lunga guerra difende invece l’idea che, per scegliere il proprio destino, gli uomini devono organizzarsi in Nazioni, definite in nome di un territorio, di una storia o d’un progetto comune. Sostiene quindi le economie nazionali contro la finanza transnazionale.

Abbiamo appena assistito alla Coppa del Mondo di calcio. Se l’ideologia della globalizzazione avesse vinto, avremmo dovuto sostenere non solo la squadra della nostra nazione, ma anche quella di altri Paesi, in ragione dell’appartenenza a strutture sovranazionali comuni.

 

Per esempio, belgi e francesi avrebbero dovuto sostenersi reciprocamente, agitando bandiere dell’Unione Europea. Ma a nessun tifoso è venuta l’idea di farlo. È un indice che serve a misurare il fossato che separa, da un lato, la propaganda che ci propinano e che ripetiamo, e, dall’altro, il nostro comportamento spontaneo. Nonostante le apparenze, la vittoria superficiale dell’ideologia della globalizzazione non ha modificato quello che davvero siamo.

 

Non è evidentemente un caso che la Siria, dove migliaia di anni fa fu pensata e attuata l’idea di Stato, sia la terra su cui questa guerra si conclude. Ed è perché sono sostenuti da un vero Stato, che mai ha smesso di funzionare, che Siria, popolo siriano, esercito, e suo presidente hanno potuto resistere alla più gigantesca coalizione della storia, formata da 114 membri delle Nazioni Unite.

 

fonte: www.voltairenet.org

E’ un sandinista della prima ora, Denis Moncada Colindres, ministro degli Esteri del Nicaragua. Ha partecipato al movimento di liberazione e poi alla rivoluzione che, nel 1979, ha posto fine alla dittatura di Anastasio Somoza dando il potere al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), che ha governato fino al 1990. Moncada è sempre rimasto nella direzione dell’FSLN, congedandosi con il grado di Generale di Brigata. In seguito, ha lavorato per il ritorno di Daniel Ortega al governo del paese.

 

Dopo la vittoria elettorale del Fronte sandinista, nel 2006, è stato per otto anni ambasciatore all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), poi assessore del presidente per le questioni internazionali e, da due anni, è ministero degli Esteri. Lo abbiamo incontrato a Roma in occasione del suo viaggio in Vaticano, compiuto con l’intento di ridar vita al processo di dialogo per riportare la pace nel paese dopo le violenze scoppiate ad aprile. “Al di là dell’incarico che si ricopre nelle diverse condizioni storiche, quel che conta - dice - è la lotta per portare avanti un progetto di emancipazione popolare”.

 

Secondo alcuni ex dirigenti, voi avete abbandonato il vero sandinismo. Una posizione condivisa anche da una parte della sinistra internazionale, che appoggia l’opposizione al governo Ortega. Cosa risponde?

Nei giorni scorsi, il presidente Ortega ha fatto riferimento a questo tema specifico, al perché alcuni di quelli che hanno avuto incarichi nel governo sandinista, siano passati all’opposizione quando si sono perse le elezioni. In questi anni abbiamo imparato a rispettare il parere di tutti, ma quando certe posizioni finiscono per coincidere con quelle del campo avverso, diventa inaccettabile. Il nostro progetto, la nostra visione, riguardano la vita dei settori popolari. Abbiamo lottato nel movimento di liberazione nazionale per conquistare la libertà politica, l’indipendenza economica integrale: per combattere la povertà, che è il nostro nemico principale, insieme all’assenza di istruzione, di sanità pubblica, di espressione artistica per quella maggioranza della popolazione tradizionalmente esclusa.

 

Purtroppo, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il pensiero degli intellettuali di sinistra è diventato molto fluttuante. C’è una crisi della sinistra mondiale. Più che guardare alla complessità della situazione e della lotta di classe in questo contesto globale, certi intellettuali si esercitano in elucubrazioni con cui è difficile interloquire. Il mondo non è un letto di rose, non siamo più in una fase di trionfo, ma quando si definisce una prospettiva che indichi un cammino di giustizia sociale, anche se si incontrano ostacoli inediti non ci si deve fermare. Certo, ci sarà un tempo per discutere di tutto e ascoltare il parere di tutti in merito alla direzione politica, al metodo e allo stile. In questo momento, però, la priorità è riportare la stabilità e la pace nel paese.

 

Qual è la posta in gioco in Nicaragua?

Siamo di fronte a un tentativo di rompere l’ordine costituzionale per far cadere un governo progressista che, pur tra mille difficoltà, ha portato avanti politiche a favore del popolo, come mostrano tutti gli indicatori economici. Perché si vorrebbe ridurre tutto questo a una parentesi da cancellare? Perché ciò che per noi è un buon esempio da seguire, per i settori della destra, nel paese e fuori, è un cattivo esempio da evitare.

 

Si vuole evitare che si consolidi un esperimento che ha saputo coniugare la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta e partecipativa per migliorare la condizione delle grandi masse. Un esempio tanto più pericoloso perché poggia su antecedenti storici che hanno portato alla rivoluzione del 1979 che ha sconfitto la dittatura di Somoza, una delle più feroci dell’America Latina, e ha tolto agli Stati Uniti una pedina fondamentale in Centroamerica.

 

Quella rivoluzione ha ripreso il messaggio del generale Sandino che, negli anni 1920-’30 del secolo scorso, ha sconfitto l’ingerenza armata nordamericana. Il Frente sandinista, con Daniel Ortega continua a nutrirsi di quegli ideali anche nella realizzazione dei programmi attuali, e per questo rimane un cattivo esempio. Attraverso l’attacco al Nicaragua, si vogliono colpire i progetti di integrazione regionale che hanno preso forma grazie alla convergenza dei governi di sinistra con la vittoria di Hugo Chavez in Venezuela, e che cercano una seconda indipendenza per il continente: l’Alba, la Unasur, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, che comprende 33 paesi americani tranne Usa e Canada. Si vuole colpire la Celac, che è stata dichiarata zona di pace, per far spazio ad altri poli come quello del Gruppo di Lima, composto da paesi governati dalle destre.

 

L’Osa, che Fidel Castro ha definito il “ministero delle colonie”, continua ossessivamente ad attaccare il Venezuela e ora il Nicaragua. Qual è la vostra risposta sul piano diplomatico?

Abbiamo invitato la Commissione interamericana per i diritti umani, rappresentanti della Unione Europea e altri organismi a venire in Nicaragua per constatare la situazione dei diritti umani. L’Osa ha però deciso di convocare il Consiglio permanente per una serie di riunioni con un chiaro intento di ingerenza negli affari interni del Nicaragua. In questo siamo stati molto chiari, anche con gli organismi invitati: il Nicaragua non è territorio di nessuno, ma uno stato libero che ha le proprie istituzioni legittime. Non siamo un paese a sovranità limitata, non permetteremo a nessuno di metterci sotto tutela. I problemi che ci sono, si risolvono all’interno del nostro paese.

 

Riproposizione del Nica Act, fondi della Cia erogati per “difendere la democrazia” in Nicaragua, appoggio esplicito all’opposizione interna da parte degli anticastristi presenti nel congresso Usa. Contro il Nicaragua sembra riproporsi lo stesso copione messo in atto per far cadere il governo Maduro in Venezuela. Fin dove può arrivare tutto questo?

I meccanismi utilizzati dagli Stati Uniti per sottomettere o debilitare governi che vogliono essere indipendenti, sono sempre gli stessi: pressione sugli organismi di cooperazione internazionale, blocco economico e cospirazione prolungata come stiamo vedendo nei confronti del Venezuela. E’ noto che gli Usa si considerano i più grandi paladini dei diritti umani: come in Iraq, in Libia, in Siria… Noi dobbiamo fare l’impossibile per evitare che si arrivi a quelle estreme conseguenze, all’instaurazione di governi di destra, da sempre alleati degli Usa. Il nostro sforzo principale è il dialogo nazionale, essenziale per riportare la stabilità e quindi la pace.

 

A quali condizioni e con quali mediatori? L’opposizione vuole che Ortega se ne vada e che si indicano elezioni anticipate.

Il dialogo si è arenato anche per l’azione di alcuni settori della Conferenza Episcopale, che hanno parteggiato apertamente per l’opposizione. Il dialogo si deve ristrutturare con quella parte dei vescovi che ha mantenuto un atteggiamento equanime. Anche per questo ci siamo recati in Vaticano. Dobbiamo trovare la via migliore per definire un nuovo dialogo e risolvere la situazione interna, senza ingerenze internazionali. La grande macchina mediatica, certi organismi per i diritti umani, certe istituzioni internazionali hanno creato l’immagine di un governo repressivo, mettendo sul conto della “repressione” anche i morti per incidenti stradali, per infarto, per errore medico…

 

Un atteggiamento irresponsabile che non aiuta certo a risolvere una situazione complessa in cui ogni morte pesa, e le cui cause stiamo indagando nella Commissione per la verità. In questa visita, ci sembra che abbiamo ottenuto ascolto, che abbiamo potuto spiegare le nostre ragioni. L’Onu ha promesso di accompagnarci in questo nuovo tentativo. Ovviamente tutto deve avvenire nel pieno rispetto della costituzione, si deve ripristinare la stabilità, riportare la pace e il rispetto per la vita delle persone, poi si può discutere di come rafforzare la democrazia, di come far avanzare le cose nel modo migliore.

 

Il progetto di riforma della previdenza è stato ritirato. Nel nuovo progetto di dialogo, la questione è ancora sul piatto?

La riforma dell’Istituto di Sicurezza Sociale (INSS) viene considerata la causa scatenante delle proteste violente, e quel progetto è stato ritirato. La questione, però, non è mai emersa nel tentativo di dialogo che si è arenato e in cui la posta in gioco era evidentemente politica: togliere di mezzo il governo sandinista calpestando la costituzione, che impedisce di cancellare la vita sociale ed economica basata sul progresso dei settori popolari.

 

Da tempo, gli argomenti di alcuni settori molto minoritari vengono usati e diffusi in modo strumentale: come la questione dell’incendio della Riserva Biologica Indio Mais. In quell’occasione si è accusato il governo di non aver fatto abbastanza per spegnere l’incendio: per spianare la strada a interessi legati alla costruzione del Canale. Invece, è stato fatto tutto il possibile fin da subito, e si è riusciti a spegnere l’incendio anche con la collaborazione dei governi del Messico, del Salvador e dell’Honduras.

 

Il progetto del Canale ha contato su molti e titolati studi di impatto ambientale, con tutte le garanzie e ha come obiettivo quello di sostenere la domanda commerciale e internazionale e quella di un’adeguata circolazione degli scambi. Una situazione che il canale di Panama non è in grado di sostenere. Il Canale è parte del futuro e non colpisce né la vita del lago, né la sicurezza dell’ambiente.

 

Quello che non viene detto è che il Nicaragua procede da tempo nel cambiamento del modello produttivo dando la preminenza alle energie alternative. Grazie all’apporto economico di paesi solidali come il Venezuela, ma anche all’intervento di imprese private, per esempio europee, e di un finanziamento della Banca Mondiale, le stiamo impiegando all’80%. E contiamo di arrivare presto al 90%.

 

fonte: www.farodiroma.it

Gli attacchi contro Donald Trump si moltiplicano. L’ultima bordata è arrivata da un violentissimo articolo sul New York Times di Thomas Friedmann, il super falco democratico e neocon (ormai impossibile distinguere i due termini), che addirittura accusa il presidente americano di essere “un asset dello spionaggio russo”.

 

Non c'è nessun precedente di questo genere nell'intera storia americana. Bisognerebbe rileggere "Impero" di Gore Vidal, per capire il livello di violenza e di cinismo nelle lotte politiche al vertice degli Stati Uniti. Ma mai un presidente è stato accusato di essere un "agente del nemico". Da noi si direbbe un "traditore della patria". È in corso negli USA la preparazione di eventi di grande rilievo, in un contesto ormai assai simile a un colpo di stato.

Rivelato da Le Monde, il caso Benalla lascia intravvedere quel che accade dietro le quinte dell’Eliseo. Un collaboratore di Emmanuel Macron è un mascalzone che, spacciandosi per poliziotto, il 1° maggio scorso, con una fascia da poliziotto al braccio e una radio interna della polizia, è andato a pestare due manifestanti.

 

Era entrato in un giro di «amicizie malsane», secondo il prefetto Michel Delpuech: un aspetto della vicenda ora oggetto di un’inchiesta giudiziaria, che vede inquisite cinque persone. All’inchiesta della magistratura se ne affianca una amministrativa, dell’Ispettorato Generale della Polizia Nazionale (IGPN).

 

Ebbene, questo farabutto, lungi dall’essere un non ben precisato collaboratore, altro non era che «il vicedirettore dell’ufficio del presidente della repubblica». Scortava Macron in molte occasioni, pubbliche e private, e possedeva un duplicato delle chiavi della residenza secondaria del presidente. Per la sua funzione (quale esattamente?) gli era stato concesso un porto d’armi permanente.

 

Gli era stata assegnata una macchina di servizio con super lampeggianti (da chi?). Aveva un badge d’accesso all’emiciclo dell’Assemblea Nazionale, un passaporto diplomatico e poteva accedere a documenti confidenziali dello Stato (Secret Défense) (perché?). Benché tutti lo abbiano visto scortare ovunque il presidente della repubblica, Alexandre Benalla non era affatto responsabile della sicurezza di Emmanuel Macron. Ma allora, che ruolo svolgeva?

Vorrei cogliere l'occasione per riflettere su quattro importanti questioni che ci chiamano ad essere preoccupati per l'argomento che ci riguarda oggi. Da qualche tempo, abbiamo notato una crisi del modello democratico nella nostra America.

 

Dal momento che apparve come una forma di convivenza politica, la democrazia è stata concepita come una democrazia basata sulla maggioranza, in cui, se la gente dà ad un partito il 50 per cento più un voto in libere elezioni, questi ha ottenuto la legittimazione a governare in nome dell'intera società, compresi tutti coloro che non hanno votato a favore.

 

Così, le minoranze erano grandi o piccole, a seguito del gioco democratico, in attesa delle successive elezioni per poter diventare maggioranza e passare ad essere - attraverso di esse - il partito di governo.

 

Ma negli ultimi anni abbiamo osservato che alcune minoranze non vogliono accettare questo processo democratico e, senza la legittimità del voto della maggioranza, vogliono giungere al potere utilizzando qualsiasi errore per trasformarlo in crisi, quindi passare dalla crisi al caos, per poi chiedere al governo di dimettersi o, in alternativa, le elezioni anticipate, con un colpo di stato costituzionale tramite il Parlamento o un colpo di stato militare o estero. Ho definito questa situazione politica "la crisi delle minoranze disperate".

 

Quasi sempre queste minoranze non sono disposte ad aspettare il periodo di governo che assegna la Costituzione e, con il sostegno di minoranze economiche, clericali, sociali, militari etc., con  l’appoggio dei social network, delle forze esterne e dei media, violando il gioco democratico e dando la falsa impressione di una maggioranza che è però solo mediatica, cercano di destabilizzare per vedere se possono arrivare al potere, non importa se questo cancellerà la democrazia di maggioranza.


Ovviamente, avendo raggiunto la maggioranza, non si concede al governo eletto una licenza per imporre un programma governativo impopolare o per schiacciare le minoranze solo avendo vinto un'elezione con il voto a maggioranza. La maggioranza è legittimata solo dal consenso e dalla negoziazione costanti, altrimenti corre il rischio di essere legale ma non legittima.


Il secondo concetto su cui voglio riflettere oggi è la crisi del modello di associazione degli stati contro la cosiddetta società civile. Come tutti sappiamo, questa organizzazione è stata creata come un'associazione di Stati per difendere i loro interessi, per assicurare la pace, la convivenza e il benessere delle nostre nazioni. Per questo, abbiamo assunto una serie di impegni economici, politici e internazionali. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a un'influenza preoccupante nell'OSA delle cosiddette ONG o gruppi della società civile.


Se alcuni di questi gruppi sono combattenti di nobili cause sociali, molti altri sono organizzazioni politiche di minoranza con maschera di società civile, che mimetizzandosi da ONG e sostenute da forze straniere, cercano di utilizzare qualsiasi crisi per pescare nel torbido e spodestare le maggioranze democraticamente elette.

 

Questa influenza della società civile nell'OSA è andata così avanti che a volte non sappiamo se alcune istanze della nostra Istituzione parlano o agiscono a nome di queste organizzazioni. Il che non solo vìola il principio di associazione, dove deve prevalere la voce e la difesa dei nostri interessi come nazioni, ma può essere vista come un tradimento dei veri leader dell'OSA, che sono i suoi stati membri.


Quindi, con un'organizzazione che non crede ai suoi membri o alle sue istituzioni, con quali incentivi gli Stati dovrebbero finanziare, difendere o rimanere in un'istituzione che preferisce difendere gli interessi esterni e non i propri?


Il terzo concetto su cui voglio riflettere oggi è la crisi e il discredito in cui la diplomazia multilaterale sta cadendo nella cosiddetta società dell'informazione. Questa crisi si verifica quando si tenta di prendere decisioni o iniziative basate sui media o sui social network e non su indagini serie, libere da pregiudizi e contaminazione ideologica.


Chiamo questa forma di azione multilaterale "spettacolo diplomazia o diplomazia farandulera", perché proprio come l'intrattenimento si basa sulla ricerca di notorietà e fama a qualsiasi prezzo, usando frivolezza, superficialità e imprecisione per raggiungere gli scopi proposti.


La diplomazia basata su twit, ritaglio di giornali e comodi rumors è una distorsione di un multilateralismo serio, che deve basarsi su ricerche, conferme scientifiche e prove indiscutibili. Consentire a questa forma di diplomazia distorta di penetrare nella nostra istituzione sarebbe un atto irresponsabile che finirebbe per danneggiare l'immagine di un'organizzazione che, come l'OSA, ha già attraversato così tanti problemi di credibilità con i nostri popoli.


E infine, voglio riferirmi a una realtà in cui viviamo tutti, ma nessuno vuole accettare o affrontare con il coraggio e l'equilibrio che il momento richiede. Mi riferisco all'OSA come a un campo di battaglia tra sinistra e destra nella sua lotta per raggiungere l'egemonia continentale.


Questa lotta tra queste due forze storiche non è nuova, l'unica cosa che è cambiata è la correlazione delle forze, perché quando le destre governano e concentrano la ricchezza e generano disuguaglianza, i popoli abbracciano la sinistra alla ricerca dell'ideale di giustizia sociale. Ma quando la sinistra in nome dell'equità diventa populista e genera squilibri economici e mancanza di produttività, allora la gente gira di nuovo verso destra in cerca di progresso e stabilità.

 

Quindi la domanda è: come far coesistere queste due forze in un'organizzazione la cui missione è raggiungere la convivenza e la pace? La prima cosa da fare non è incoraggiante da questa organizzazione posizioni ideologiche inflessibili che impediscono il dialogo e l'accordo, dal momento che, per definizione, l'OAS non deve essere né destra né a sinistra.


La parzialità della OSA come istituzione e l'inclinazione all’attivismo fazioso di alcuni dei suoi portavoce può stimolare scontri ed estremismi, il che ci si trasformerebbe in un'entità di divisione e non di unità, in un ente parziale e non equilibrato e in un'organizzazione attivista e non mediatrice. E se è così, quale disservizio faremmo al continente e ai nostri popoli!


Penso, signori, che queste riflessioni possano aiutarci a capire il tempo in cui viviamo nella nostra regione e la necessità di adottare importanti, urgenti e sostenibili misure correttive, se vogliamo raggiungere l'ideale dei nostri liberatori che sognavano un'America cui la gente era veramente libera di vivere in una vera democrazia e godere di un'ampia prosperità economica e di una piena giustizia sociale.

 

* Intervento di Gedeor Santos, ambasciatore della Repubblica Dominicana presso l'OSA (Organizzazione degli stati americani) nel corso della discussione sulla situazione in Nicaragua.


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