Nuovi rapporti di forza e un recente equilibrio stanno con discrezione affermandosi nella vallata del Nilo, in Levante e nella penisola arabica. La situazione del Golfo Persico è invece bloccata. Questo notevole e coordinato mutamento riguarda diversi conflitti, in apparenza non collegati fra loro. È frutto del paziente e discreto lavoro della diplomazia russa nonché, in alcuni casi, della buona volontà statunitense. A differenza degli Stati Uniti, la Russia non cerca d’imporre la propria visione del mondo. Parte invece dalla cultura degli interlocutori per modificarla con interventi lievi.
Arretramento degli jihadisti e dei mercenari kurdi in Siria
Tutto è cominciato il 3 luglio: uno dei cinque fondatori del PKK, Cemil Bayik, ha pubblicato una libera tribuna sul Washington Post in cui chiedeva alla Turchia di aprire un negoziato facendo uscire dall’isolamento il prigioniero più celebre del partito, Abdullah Öcalan. A un tratto sono state nuovamente autorizzate le visite in prigione al leader dei kurdi autonomisti di Turchia, vietate da quattro anni. Un’apertura immediatamente considerata un tradimento dal Partito Repubblicano del Popolo, che non ha risposto all’appello del 23 giugno a Istanbul, infliggendo una severa sconfitta elettorale al candidato del presidente Erdogan.
Simultaneamente sono ripresi i combattimenti nella zona occupata da Al Qaeda nel nord della Siria, il governatorato di Idlib. Questo Emirato Islamico non ha amministrazione centrale, bensì cantoni assegnati a diversi gruppi di combattenti. La popolazione è nutrita da “ONG” europee, affiliate ai servizi segreti dei Paesi dell’Unione, e l’esercito turco dissuade gli jihadisti dal tentare la conquista del resto della Siria. Trattandosi di una situazione inconfessabile, la stampa filo-NATO presenta l’Emirato Islamico di Idlib come pacifico rifugio degli «oppositori moderati alla dittatura di Assad». Improvvisamente, Damasco, con il sostegno aereo russo, ha ripreso a riconquistare terreno e l’esercito turco ha iniziato a ritirarsi in silenzio. I combattimenti causano innumerevoli morti, innanzitutto nelle fila dell’esercito della repubblica siriana. Ciononostante dopo alcune settimane l’avanzata è rilevante a tal punto che l’intera provincia potrebbe essere liberata a ottobre.
Il 15 luglio, in occasione del terzo anniversario del tentativo di attentato alla sua vita e dell’improvvisato colpo di Stato che ne è seguito, Erdogan ha annunciato una ridefinizione dell’identità turca, non più su base religiosa, bensì nazionale. Ha anche rivelato che l’esercito turco sta per spazzare via dalla Siria le forze del PKK e trasferire parte dei rifugiati siriani in una zona frontaliera larga 30-40 chilometri. Questa zona corrisponde all’incirca a quella dove il presidente Hafez al-Assad nel 1999 autorizzò le forze armate turche a contenere eventuali attacchi dell’artiglieria kurda. Dopo l’annuncio che il Pentagono non poteva abbandonare gli alleati kurdi, emissari statunitensi si sono recati ad Ankara e, approvando il piano turco, hanno agito in senso contrario.
È appurato che, come abbiamo sempre sostenuto, i capi del “Rojava” - pseudo-Stato autonomo kurdo in territorio siriano - sono quasi tutti di nazionalità turca. Occupano perciò la regione in cui hanno fatto pulizia etnica e sono stati costretti a inviare emissari a Damasco per chiedere protezione al presidente Bashar al-Assad. Ricordiamo che i kurdi sono una popolazione nomade, sedentarizzata agli inizi del XX secolo. Secondo la Commissione King-Crane e la conferenza internazionale di Sèvres (1920), il Kurdistan può essere legittimamente collocato soltanto nell’attuale territorio turco.
È poco probabile che Francia e Germania consentiranno alla Siria di riconquistare l’intero Emirato Islamico di Idlib, abbandonando il sogno di un Kurdistan situato in un qualsiasi Paese - Turchia, Iran, Iraq o Siria - ma certamente non in Germania, benché lì risiedano oltre un milione di kurdi. Potrebbero però esservi costrette.
È altrettanto improbabile che, nonostante le attuali discussioni, in caso di decentralizzazione la Siria accorderebbe la benché minima autonomia alla regione in precedenza occupata da kurdi turchi.
Dopo diversi anni di stallo, la liberazione del nord della Siria poggia ora soltanto sul cambiamento di paradigma turco, frutto degli errori statunitensi e alla lungimiranza russa.
Spartizione di fatto dello Yemen
In Yemen, in attesa di poter sfruttare le riserve petrolifere della zona a cavallo del confine yemenita-saudita, Arabia Saudita e Israele sostengono il presidente Abdrabbuh Mansur Hadi. Questi deve far fronte al sollevamento degli adepti dello zaydismo, una scuola sciita. Nel corso del tempo i sauditi hanno ottenuto l’appoggio degli Emirati, gli zaiditi quello dell’Iran. Questa guerra fomentata dagli Occidentali sta causando la più grave carestia del XXI secolo.
Tuttavia, nonostante la composizione degli schieramenti, il 1° agosto la Guardia Costiera degli Emirati ha firmato un accordo di cooperazione transfrontaliera con la Polizia delle Frontiere dell’Iran. Lo stesso giorno il capo della milizia yemenita, finanziata dagli Emirati (chiamata Consiglio di Transizione del Sud, o Cintura di Sicurezza, o “separatisti”), Abu Al-Yamana Al Yafei, è stato ucciso dai Fratelli Mussulmani del partito Islah, finanziato dall’Arabia Saudita.
Evidentemente l’alleanza tra i due principi ereditari dell’Arabia e degli Emirati, Mohammed bin Salman (MBS) e Mohammed bin Zayed Al Nahyan (MBZ), naviga in cattive acque.
L’11 agosto la milizia sostenuta dagli Emirati ha preso d’assalto ad Aden il palazzo presidenziale nonché diversi ministeri, sebbene l’Arabia Saudita sostenga il presidente Hadi, da molto tempo rifugiatosi a Riad. Il giorno successivo MBS e MBZ si sono incontrati alla Mecca, alla presenza di re Salman. Hanno entrambi disconosciuto il colpo di Stato e invitato ad Aden le rispettive truppe per mantenere la calma. Il 17 agosto la milizia filo-Emirati abbandonava ordinatamente la sede del governo.
Durante la settimana in cui i “separatisti” occupavano Aden, gli Emirati controllavano di fatto le due rive del molto strategico stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano. Ora che Riad ha avuto salvo l’onore dovrà concedere una contropartita ad Abu Dhabi.
Su questo campo di battaglia il cambiamento è dovuto ai soli Emirati che, dopo aver pagato un caro prezzo, traggono lezione da una guerra che non può essere vinta. Si sono dapprima prudentemente riavvicinati agli iraniani, poi hanno assestato quest’ammonimento al vicino e potente alleato saudita.
Gioco delle sedie musicali in Sudan
In Sudan, dopo che il presidente Omar al-Bashir (Fratello Mussulmano dissidente) è stato rovesciato per le manifestazioni dell’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento (ALC) e che l’aumento del prezzo del pane è stato annullato, il potere è passato a un Consiglio Militare di Transizione. In sostanza la rivolta sociale e alcuni miliardi di pretro-dollari, all’insaputa dei manifestanti, hanno fatto transitare il Sudan dalla tutela del Qatar a quella dell’Arabia Saudita.
Il 3 giugno il Consiglio Militare di Transizione ha soffocato nel sangue una nuova manifestazione dell’ALC. I morti sono stati 127. La condanna internazionale ha costretto il Consiglio militare a venire a patti con i civili. Il 4 agosto è stato trovato un accordo, firmato il 17: per un periodo di 39 mesi il Paese sarà governato da un Consiglio Supremo composto da sei civili e cinque militari, i cui nomi non sono però precisati nell’accordo; il Consiglio sarà controllato da un’Assemblea di 300 membri, nominati non eletti, dei quali il 67% sarà costituito da rappresentanti dell’ALC. Un’intesa niente affatto democratica, sebbene nessuna delle parti in causa protesti.
Primo ministro sarà l’economista Abdallah Hamdok, ex responsabile della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite. Hamdok dovrebbe riuscire a ottenere la rimozione delle sanzioni contro il Sudan e il reintegro del Paese nell’Unione Africana. Farà giudicare l’ex presidente al-Bashir in Sudan, evitandogli l’estradizione all’Aia e il conseguente giudizio da parte del Tribunale Penale Internazionale.
Il vero potere sarà detenuto dal “generale” Mohammed Hamdan Dagalo (detto Hemetti), che non è generale e nemmeno soldato, bensì capo della milizia usata da MBS per domare la resistenza yemenita. A questo gioco delle sedie musicali la Turchia – che dispone di una base militare sull’isola sudanese di Suakin, utile per l’accerchiamento dell’Arabia Saudita – non ha partecipato.
Di fatto la Turchia accetta di perdere a Idlib e in Sudan in cambio della vittoria contro i mercenari filo-statunitensi kurdi. Solo quest’ultima questione è vitale per Ankara. Ci sono volute molte discussioni perché la Turchia si rendesse conto di non poter vincere contemporaneamente su tutti i fronti e dell’opportunità di stabilire un ordine di priorità.
Gli Stati Uniti contro il petrolio iraniano
Come settant’anni fa, ancora oggi Londra e Washington sono concorrenti per il controllo del petrolio iraniano. Come al tempo di Mohammad Mossadeq, la Corona Britannica vuole stabilire da sola quel che è di sua proprietà in Iran. Washington invece non vuole che le guerre in Afghanistan e Iraq (conseguenza della dottrina Rumsfeld/Cebrowski) vadano a profitto di Teheran; ambisce perciò al controllo del prezzo mondiale dell’energia (dottrina Pompeo).
Queste due strategie si sono violentemente scontrate con il sequestro della petroliera iraniana Grace I nelle acque della colonia britannica di Gibilterra. L’Iran ha fermato a sua volta due petroliere britanniche nello stretto di Ormuz, affermando che – insulto supremo – la più grande delle navi trasportava «petrolio di contrabbando», ossia petrolio sovvenzionato iraniano, acquistato da Londra al mercato nero. Quando il primo ministro di nuova nomina, Boris Johnson, si è reso conto che il Paese era andato troppo oltre, ha avuto la “sorpresa” della decisione della giustizia “indipendente” della colonia di liberare Grace I. Immediatamente Washington ha emesso un mandato per sequestrare nuovamente la petroliera iraniana.
Dall’inizio della vicenda sono gli europei a fare le spese della politica statunitense, sebbene protestino senza grandi risultati. Soltanto i russi difendono non l’alleato iraniano, bensì il diritto internazionale, come hanno fatto in Siria: la loro linea politica è perciò coerente.
In questa vicenda l’Iran ha dimostrato grande caparbietà. Nonostante l’elezione nel 2013 dello sceicco Hassan Rohani abbia rappresentato una svolta clericale, il Paese si sta riorientando verso la politica del laico Mahmud Ahmadinejad. L’orchestrazione delle comunità sciite in Arabia Saudita, Bahrein, Iraq, Siria e Yemen potrebbe trasformarsi in semplice sostegno. Anche in questo caso, grazie alle lunghe discussioni di Astana, ciò che era evidente agli uni lo è diventato anche agli altri.
Conclusione
Con il tempo ciascuno dei protagonisti ha gerarchizzato i propri obiettivi, sicché le posizioni si sono precisate.
Conformemente alla tradizione, la diplomazia russa, a differenza di quella statunitense, non cerca di ridisegnare frontiere e alleanze. Tenta di sbrogliare i contraddittori obiettivi dei partner: ha aiutato l’ex Impero Ottomano e l’ex Impero Persiano ad allontanarsi da una definizione religiosa – i Fratelli Mussulmani nel primo caso, lo sciismo nel secondo – per tornare a una definizione nazionale post-imperiale. Un’evoluzione evidente in Turchia, ma che in Iran per attuarsi ha bisogno di una trasformazione di punti di vista. Mosca non cerca di “cambiare i regimi”, bensì di mutare, alcuni aspetti delle mentalità.
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