di Mariavittoria Orsolato

Il decreto Gelmini è ora ufficialmente legge. Lo ha stabilito ieri mattina il Senato con 162 voti a favore, 134 contrari e 3 astenuti, mentre tra i banchi dell’opposizione si parlava già di referendum abrogativo con relativo striscione. Non sono quindi valsi a nulla gli appelli lanciati durante le centinaia di cortei e manifestazioni organizzati da studenti, docenti e genitori: la schiacciasassi del governo Berlusconi IV passa con la solita arroganza anche sulla scuola pubblica. Il ricorso dell’opposizione al referendum è stato confermato poche ore più tardi da Walter Veltroni, che in una conferenza stampa ha spiegato come il Pd, pur avendo chiara la necessaria parsimonia con cui misurarsi con l’istituto referendario, ritiene importantissima la materia scolastica; da qui l’urgenza di fermare la schifezza della Gelmini appena approvata. Il disegno di conversione è arrivato a Palazzo Madama dopo il maxiemendamento approvato alla Camera con lo strumento della fiducia ma, in sostanza, non una virgola è stata cambiata in merito ai tagli preannunciati sul personale e sui costi.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Geopolitica e geoeconomia in movimento, con la Russia che alza il livello dello scontro con Bush nei campi del settore nucleare e in quello energetico. Decidendo, in primo luogo, di non modificare il suo atteggiamento verso il programma nucleare iraniano e respingendo, di conseguenza, le sanzioni che gli Usa vorrebbero imporre alla “Rosoboroneksport”, cioè all’organizzazione di Stato che gestisce l’esportazione di armi. In tal senso si pronuncia il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, il quale sottolinea che la decisione (“ricattatoria”) del Dipartimento di Stato non renderà la Russia “più docile” nella questione dei contatti con Teheran. “Riteniamo – sottolinea Lavrov – che ciò sia assolutamente inaccettabile perchè tutta la nostra collaborazione con l’Iran si realizza in completo accordo con il diritto internazionale”. Ma ora c’è di più.

di Eugenio Roscini Vitali

La politica americana è più complessa di quanto si possa credere. Anche se gli ultimi sondaggi sul voto del 4 novembre danno Barak Obama in netto vantaggio (per i più pessimisti sono quattro i punti a suo favore), i giochi non sono ancora fatti. McCain spera sempre nel pieno appoggio dell’elettorato “religioso”, quella parte dell’America repubblicana che rimane una delle componenti più importanti nella corsa alla Casa Bianca, un elemento che in molte elezioni si è rivelato fondamentale, così come lo fu nel 2004 quando i temi etici ebbero un impatto decisivo sull’esito del voto. I repubblicani hanno sempre investito molto su questo tipo di elettorato e fino al mese scorso la così detta “destra religiosa” si era sempre dimostrata una base sociale solida e ben organizzata, guidata da personaggi che vanno dai cattolici più conservatori ai protestanti evangelici dell’America bianca: padre Richard Neuhaus, difensore di questioni che vanno dalla libertà religiosa alla difesa della vita; l’Arcivescovo Charles Caput, voce emergente di una politica moralmente rigorosa; Charles Colon, leader del protestantismo evangelico contemporaneo. Ora però l’appoggio sembra venir meno e i sondaggi parlano di un preoccupante calo di consensi. Il motivo? Secondo gli esperti il problema ha un nome e cognome: Sarah Palin.

La redazione del The New York Times

L'iperbole è la moneta delle campagne presidenziali, ma quest'anno il futuro della nazione è veramente in gioco. Gli otto anni di fallimentare guida del Presidente Bush stanno facendo sprofondare gli Stati Uniti. Bush sta caricando sulle spalle del suo successore due guerre, un'immagine internazionale sfregiata e un governo sistematicamente deprivato della sua capacità di proteggere i propri cittadini, stiano essi scappando dalle inondazioni di un uragano o cercando un'assistenza sanitaria alla propria portata o lottando per tenersi la propria casa, il proprio lavoro, i propri risparmi o la pensione, nel mezzo di una crisi finanziaria che si poteva prevedere e prevenire. Ma anche se i tempi sono difficili, la scelta di un nuovo presidente è facile. Dopo quasi due anni di una campagna brutta e rancorosa, il Senatore dell'Illinois Barack Obama ha dimostrato di essere la scelta giusta per il 44esimo presidente degli Stati Uniti.

di Mario Braconi

Crescita della disoccupazione, inasprimento della sperequazione economica, esplosione del debito pubblico e del deficit della bilancia commerciale: dopo sette anni di Bush, l’economia americana è in grave difficoltà. Quando i repubblicani sbandierano la crescita del prodotto interno lordo durante i due mandati Bush, dimenticano che tale crescita è stata causata dalla politica monetaria espansiva e dalla bolla immobiliare (che peraltro il governo non ha tenuto sotto controllo come avrebbe dovuto fare). Quando Bush è stato eletto, nel gennaio del 2001, ha ereditato un avanzo di bilancio di oltre il 2% del PIL; dopo i primi quattro anni di governo, grazie alle guerre per il petrolio e a due ondate di tagli fiscali inutili quanto iniqui, il surplus si è volatilizzato, sostituito da un disavanzo del 3,6%. Per quanto riguarda le avventure belliche americane, l’unica “sicurezza” per il Paese è il gran numero di vite americane perse in Afghanistan e in Iraq (oltre 4.000); molto difficile invece sapere quanto la guerra costerà in termini monetari.


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