di Stefania Pavone


Ha rifiutato di prestare il servizio militare nell’esercito israeliano, addestrato a compiere il massacro dei palestinesi, il noto pacifista ebreo Michel Warshawski, in visita a Roma nella redazione del settimanale Carta davanti ad una platea attenta e giovane. E del suo paese dice: “Nel caso dell’operazione Piombo Fuso, per la prima volta è mancata la voce di opposizione della sinistra israeliana, il consenso popolare al sionismo è stato totale”. Parla un ottimo francese Warshawski e tiene l’attenzione del pubblico con un discorso lungo e toccante, che si è snodato per una buona mezz’ora lungo i nodi critici della guerra perenne tra lo stato di Israele e la Palestina, cartina di tornasole delle mutazioni che l’imperialismo mondiale impone alla geografia politica del Medio Oriente.

di Fabrizio Casari

El Salvador, l’ultimo bastione della destra genocida dell’America Centrale, domenica scorsa ha voltato pagina. Il Frente Farabundo Martì para la Liberacìòn Nacional (FMLN), nato all’inizio degli anni ottanta dalla fusione di cinque gruppi rivoluzionari, alleatisi poi con la socialdemocrazia, dopo 30 anni di guerriglia, accordi di pace e lotta politica, ha finalmente avuto ragione. Sembrava imbattibile la destra dal volto ignobile che da quasi trent’anni continuava a governare sulla strada apertale dalla guerra e dall’appoggio incondizionato di Washington. Governavano i civili vestiti da militari e comandavano i militari vestiti da civili. Ma l’FMLN non si é mai dato per vinto ed oggi, la vittoria del suo candidato, Mauricio Funes, apprezzato per l’indipendenza e l’obiettività dei suoi servizi giornalistici da giornalista della CNN prima e per la sagacia politica con la quale ha condotto la campagna elettorale poi, è stata, da ogni punto di vista, una vittoria storica per il piccolo paese centroamericano. Con la vittoria dell’FMLN, El Salvador si aggiunge al Nicaragua sandinista e all’Honduras governato dal centrosinistra del Presidente Zelaya nel mandare definitivamente in soffitta l’idea del Centroamerica quale “giardino di casa” degli Usa.

di Eugenio Roscini Vitali


Di solito la Papua occidentale si associa all’immagine di luoghi remoti e selvaggi, aspre montagne ricoperte da una giungla fitta e rigogliosa e grandi isole circondate da straordinari arcipelaghi. Una diversità sopravvissuta all’evoluzione dei tempi, un mondo a parte ricco di simboli e tradizioni, dove la cultura si mescola con la magia e gli spiriti degli antenati influenzano le sorti dell’uomo. In realtà i 421 mila chilometri quadrati che costituiscono il settore occidentale dell’isola della Nuova Guinea, quello diviso nella provincia autonoma di Irian Jaya Barat e nella Papua occidentale, la parte conosciuta come provincia indonesiana di Irian Jaya, sono un territorio prevalentemente montuoso, in gran parte coperto da una folta foresta pluviale che in molte zone arriva addirittura ad essere impenetrabile: habitat ideale per una sorprendente varietà di specie vegetali ed animali ma anche rifugio dei gruppi indipendentisti che da quasi mezzo secolo lottano contro Jakarta per il diritto all’autodeterminazione.

di Mario Braconi


Secondo Yazid Sabeg, uomo d’affari francese nato in Algeria chiamato da Sarkozy a dirigere la Commissione per la diversità e le pari opportunità, “al giorno d’oggi, [in Francia] le discriminazioni basate su pretesti etnici hanno raggiunto un livello intollerabile. Occorre a questo punto misurarle per poterle meglio combattere”. Sabeg, per domare il mostro del razzismo, potrebbe essere utile rimozione del veto che attualmente impedisce alle rilevazioni demografiche francesi di acquisire dati sulla fede religiosa e sull’origine etnica dei cittadini. Dal punto di vista scientifico, l’idea non è inaccettabile: in fondo si tratta di un principio illuministico, coerente con una visione del mondo in cui il progresso scientifico è la base su cui costruire il progresso sociale.

di Michele Paris


Il colpevole silenzio dell’amministrazione Obama ha accompagnato il recente ritiro della candidatura a guidare il Consiglio Nazionale di Intelligence da parte dell’ex ambasciatore americano in Arabia Saudita, Charles W. “Chas” Freeman. Un’inerzia aggravata dal fatto che a far naufragare la candidatura dello stimato diplomatico sono state le reazioni stizzite di influenti lobby pro-Israele e di parlamentari di entrambi gli schieramenti, inquietati dalle posizioni anti-israeliane espresse dallo stesso Freeman. Se il nuovo inquilino della Casa Bianca non è stato in grado di fronteggiare i falchi di Washington per difendere una voce critica della politica statunitense in Medio Oriente, sembrano più che legittimi i dubbi sollevati da più parti circa le effettive possibilità del presidente di imporre il proprio punto di vista nei confronti del nascente governo israeliano di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman.


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