di Antonio Rei

Tra Berlusconi e Berlusconi, anche stavolta ha vinto Berlusconi. E' questo il sospetto che emerge dallo strano caso La7. Lunedì il Cda di Telecom Italia ha deciso di vendere la rete trattando in esclusiva con l'editore Urbano Cairo (che avrà due settimane di tempo per presentare l'offerta definitiva), un uomo la cui storia professionale è iniziata e proseguita all'ombra del Cavaliere. Il grande sconfitto è il fondo Clessidra di Claudio Sposito, che ha fra i suoi principali investitori - udite e udite - la famiglia Berlusconi. Non è stata nemmeno presa in considerazione, invece, la proposta arrivata lo scorso fine settimana da Diego Della Valle, patron della Tod's, che aveva chiesto più tempo per mettere insieme una cordata italiana.

Ed è proprio il tempo il punto centrale di questa vicenda. Visto che le trattative andavano avanti ormai da otto mesi, per quale ragione il Cda ha deciso di chiudere in fretta e furia proprio questa settimana, guarda caso a sei giorni dalle elezioni?

"Il messaggio che abbiamo voluto dare è che la politica non entra nel Cda di Telecom. Abbiamo preso una decisione prima delle elezioni nel solo interesse dell'azienda", ha spiegato al termine della riunione Tarak Ben Ammar, consigliere indicato da Generali (ovvero da Mediobanca), ma anche ex consigliere di Mediaset e attuale socio di Berlusconi (che attraverso una controllata di Fininvest possiede il 22% della “Quinta Communications” di Ben Ammar).

"La proposta di Della Valle è arrivata tardi - ha spiegato ancora l'imprenditore franco-tunisino -. Aveva la possibilità di farsi avanti da giugno scorso, era stato contattato. Ormai l'interesse non basta, non sarebbe bello, visto che il processo va avanti da otto mesi".

A sentire Ben Ammar sembrerebbe che Della Valle sia stato escluso per una questione di educazione. Una vera assurdità quando si parla di business, anche perché Telecom Italia è strangolata dai debiti e avrebbe avuto tutto l'interesse ad ascoltare quante più offerte possibili prima di prendere una decisione. Se alla fine il signor Tod's avesse messo sul piatto una proposta migliore di quelle arrivate da Cairo e Clessidra? Non lo sapremo mai. Né noi, né i creditori e gli azionisti di Telecom.

Ci sono poi almeno altri due dubbi di cui tenere conto. "La7 sarebbe affidata all'editore Cairo priva delle frequenze che le sono state assegnate dallo Stato (i famosi multiplex, ndr), che resterebbero a Telecom, così come Mtv - si legge in un comunicato congiunto dei giornalisti de La7 e della Federazione nazionale della stampa italiana . Uno spacchettamento anomalo, su cui dovranno pronunciarsi le autorità di vigilanza".

Il secondo interrogativo è legato al primo: perché mai Cairo ha deciso d'impelagarsi in un affare che garantisce solo perdite (La7 è in rosso di 100 milioni l'anno) senza nemmeno puntare ai multiplex, che in prospettiva rappresentano l'unico asset redditizio? Eppure l'editore è già concessionario pubblicitario della rete, quindi nessuno meglio di lui conosce le prospettive fosche del mercato.

Inevitabile quindi sospettare che il vero obiettivo sia spingere La7 - che ha fatto perdere a Mediaset audience e raccolta pubblicitaria molto più della Rai - verso l'area di gravitazione berlusconiana. L'editore ha iniziato la sua carriera come assistente del Cavaliere nel gruppo Fininvest, è stato direttore commerciale e vice direttore generale di Publitalia '80 e amministratore delegato della Arnoldo Mondadori Editore pubblicità. Solo nel 1995 ha fondato il gruppo che da lui prende il nome.

A guardare le cose da questa prospettiva, la fretta del Cda Telecom diventa improvvisamente più comprensibile. Con il cambio di governo, infatti, cambieranno forse anche i vertici delle authority pubbliche a cui è richiesto di controllare l'operazione La7 (Antitrust e Agcom).

Il dubbio deve essere venuto anche al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che ieri ha dato il via a un gustoso siparietto con queste parole: "Siamo in una settimana cruciale e io tendo a ragionare come se fossi già al governo. Devo preoccuparmi che le decisioni vengano prese senza conflitti d'interesse, senza costruire in modo diretto o indiretto posizioni dominanti. C'è un tavolo delle regole e c'è un tavolo industriale. Non so se Cairo sia collegato a Mediaset. Ci sono delle autorità che si occupano di queste cose".

Il Cavaliere non l'ha presa bene: prima ha detto di "non avere più alcun rapporto con Urbano Cairo", poi ha definito quello del leader del Pd "un messaggio, fra virgolette, mafioso, come a dire 'aspettate a vendere perché se andrò al governo La7 varrà di più'. E' il vecchio vizio della sinistra di essere minacciosa con gli avversari". Ma se davvero Berlusconi non ha più nulla a che vedere con Cairo, quali sarebbero gli "avversari" da "minacciare"?

"Non si può dire niente che subito si offende, le regole gli fanno venire l'orticaria - ha controreplicato Bersani - . Ho parlato di regole che riguardano eventuali conflitti d'interesse e posizioni dominanti. Il governo e le authority devono avere gli strumenti per verificare che ogni operazione sia a posto".

Alla fine, però, Berlusconi si è lasciato andare a un inatteso slancio di spontaneità: "Purtroppo per me - ha detto - La7 ha una serie di trasmissioni d'approfondimento politico condotte quasi tutte da personaggi che stanno a sinistra. E quindi con l'avvento di Cairo ho una speranza che diventi meno di sinistra". Non male per uno che accusa gli altri di mafia, "fra virgolette".



di Mariavittoria Orsolato

Benedetto XVI abdicherà ufficialmente al soglio pontificio il prossimo 28 febbraio. La notizia è rimbalzata lunedì mattina grazie ad un tweet che riportava le parole pronunciate dal Papa pochi minuti prima nel Concistoro. Quello di Joseph Ratzinger non è certo il primo abbandono volontario della carica di pontefice, prima di lui lo fecero altri sette papi - in ordine: Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI, Celestino V e Gregorio XII - ma se per queste defezioni non ci esistono cronache celebri (eccezion fatta per La Divina Commedia, in cui Pietro Angelerio viene presumibilmente inserito nel III canto dell'Inferno), la straordinarietà dell'addio di Benedetto XVI risiede nel fatto dell'essere avvenuto in diretta tv.

Com'era prevedibile questa notizia epocale ha stravolto completamente i palinsesti televisivi italiani, già oberati dai doveri di par condicio e dalla campagna elettorale. La tv generalista ha fatto a gara per essere il più possibile sul pezzo e, narcisisticamente, per provare a scrivere un indubbio pezzo di storia in diretta: i primi a buttarsi sulla notizia sono stati il Tg1 e il telegiornale di La7. “E’ evidente che questa notizia cancella tutte le notizie, piccole o grandi di questa campagna elettorale”, commenta Mentana su La7 dando il via a una edizione no-stop del TgLa7.

Tutte le testate televisive hanno dedicato ampio spazio alla notizia, alcuni con edizioni straordinarie come il Tg3 o appunto i due sopra citati, altri invece con lunghissimi speciali come quello del Tg2; mentre la conferenza stampa di Padre Agostino Lombardi, capo ufficio stampa del Vaticano viene seguita in diretta Tg1, Tg3, Studio Aperto, TgLa7 oltre alle all news Rai News 24, TgCom 24 e Sky Tg24.

Lunedì sera è però sera di talk show, in particolare del tabloid per la “gggente” Quinta Colonna su Rete4 e del format “chic” d’inchiesta Piazzapulita su La7. In casa Del Debbio le dimissioni di Joseph Ratzinger sono quindi diventate argomento per le sparate della gente comune sorpresa e stupita messe a confronto (impietosamente) con servizi sul precedente papa, quello che ha resistito fino all’ultimo “perché dalla croce non si scende”, con il sottofondo musicale di “Simply the best” di Tina Turner.

Sull'ammiraglia Rai Bruno Vespa ha imbastito in quattro e quattr'otto uno speciale dal taglio assolutamente “curiale”. Niente a che fare con la frenesia dell’evento in diretta di Mentana, Vespa ha chiacchierato amabilmente con i suoi ospiti facendo ovvi paragoni con i precedenti storici, interventi misuratissimi e non dicendo assolutamente nulla di nuovo, come suo solito.

Da Formigli invece era il retroscena a dover essere approfondito, non certo i brontolii di pancia della gente. Eppure, irrinunciabile, a rappresentare quanti hanno visto nell'abdicare l'ennesimo complotto stava il giornalista d'inchiesta Gianluigi Nuzzi che, nel provare a mettere una pezza ai flame che hanno intasato la rete sulla possibilità che la mossa fosse un favore al centro di Monti-Casini-Fini, ha finito quasi per avallarli.

C'è stata poi la diretta di Grillo (quello che tassativamente non va in tv, ma è sempre in tv senza domande, contraddittorio o difficoltà alcuna) che spiegava come un domani la rete eleggerà il nuovo pontefice grazie a miliardi di IP africani connessi.

Le abitudini d’ascolto degli italiani non sono però state scosse dal sopravvenire delle dimissioni del Papa. Dal momento dell’annuncio fino alle 22.45, quando anche i talk show della sera sono tornati a occuparsi di elezioni, ogni rete ha confermato gli spettatori ottenuti una settimana prima.

Insomma, come sempre la tv l’ha vista chi stava a casa e non c’è nessuno che abbia riprogrammato la sua vita per abbuffarsi di un extra in presenza delle storiche notizie dal Vaticano.

Solo in prime time si è verificato un leggero rigonfiamento della platea a beneficio essenzialmente di Formigli con Piazzapulita su La7, che fa il suo massimo in quella collocazione (7,83%) e per la prima volta supera Quinta colonna su Rete 4.

Qui Del Debbio ha messo assieme un 6,91% mantenendo, salvo poche migliaia, i fedeli di sempre, ma arretrando in share rispetto alla settimana precedente, evidentemente perché fuori dagli interessi e gusti di quel po’ di pubblico extra che è stato reclutato dall’evento dimissioni del Papa. Porta a Porta di prima serata, se la cava con l’11,91% e se la cava limitando a mezzo punto di share le perdite rispetto alla platea della fiction dello scorso lunedì.

A differenza della tv generalista, Sky ha puntato infine sul racconto puro e semplice, con la messa in onda di Habemus Papam di Nanni Moretti, film immediatamente tirato in ballo da molti come indubbiamente “profetico”. Una scelta difforme quella della piattaforma di Murdoch che però ha avuto il raro pregio di permettere di abbandonarsi alla narrazione che tutto spiega e tutto svela.

Una scelta facile ma allo stesso tempo intelligente dal momento che è sicuramente rasserenante pensare ci sia sempre un narratore onnisciente, soprattutto in un momento e in un contesto come questo, tutt'altro che facile da interpretare e comprendere. In fondo, dal 1956, il ruolo che gli italiani hanno dato alla tv nel raccontare la loro storia, è esattamente questo.


di Mariavittoria Orsolato

Se da qui ai prossimi sei mesi i televisori DTV degli italiani dovessero funzionare male, o addirittura non funzionare affatto, la colpa sarà probabilmente da imputare ai cellulari, o almeno alla rete che li tiene interconnessi. Dal primo gennaio infatti, in Italia sono finalmente cominciati i lavori per l'accensione delle reti mobili superveloci 4G sulle frequenze degli 800Mhz liberate dalle emittenti locali, ma la probabilissima sovrapposizione di segnali fra gli smartphone e il digitale terrestre rischia di accecare le trasmissioni tv, rendendo la ricezione impossibile lungo la penisola.

Il problema era già stato rilevato e ampiamente risolto un paio d'anni fa in sede Europea ma in Italia, ca va sans dire, siamo ancora lungi dall'aver trovato una soluzione. Le aziende di telecomunicazioni non sono state infatti in grado di trovare un accordo e, allo stato attuale, l'unico indirizzo per dirimere la querelle interferenze si troverebbe all'interno del decreto Crescita, approvato lo scorso 13 dicembre, che all’art. 14, comma 2-bis stabilisce la costituzione di un generico fondo per gli “Operatori titolari delle frequenze in banda 800 Mhz” che si dovranno occupare dell'assistenza (gratuita) ai cittadini.

Il condizionale è però d'obbligo dal momento che il decreto deve ancora essere emendato ed approvato - i termini scadono a febbraio - e, a concorrere al probabile disastro, arriva il sito Help Interferenze che il Ministero dello Sviluppo Economico ha affidato alla FUB (Fondazione Ugo Bordoni), impegnata dal 1952 nella ricerca sulle TLC.

Pur non essendoci quindi ancora nulla di deciso a livello istituzionale, sul sito internet sono state già pubblicate le regole dettagliate che i cittadini dovranno seguire per segnalare i disturbi al segnale tv. “In caso di disturbi, nella ricezione di uno o più canali o di oscuramento totale della tv - si legge nella home page - l'utente privato o l’amministratore del condominio può registrarsi al sito attraverso l’apposito web form e inviare una segnalazione con la richiesta d’intervento. In presenza dei requisiti tecnici e amministrativi richiesti per l’accesso al servizio, sarà inviato senza alcun costo per il cittadino un antennista...”.

Per “requisiti amministrativi”, il sito voluto dal dicastero di Passera pare però intenda il fatto di essere in regola con il pagamento del canone RAI: a meno che l'imposta non risulti pagata, i filtri anti-interferenza non potranno essere installati a costo zero dalle compagnie di telecomunicazioni.

Ma il problema delle interferenze è soprattutto un problema di accesso ad un servizio pubblico fondamentale, e così Audiconsum, con il suo presidente Paolo Giordano, ha immediatamente chiesto al Ministero per lo Sviluppo Economico che il provvedimento venga rivisto ed emendato per essere così alla portata di tutti. “Non è possibile mischiare il diritto dei consumatori di accedere ad un servizio pubblico essenziale - spiega Giordano al Corriere delle Comunicazioni - con il dovere di pagare la tassa di possesso della tv. Il diritto va garantito e, ove si rilevi che il canone non è stato pagato, lo Stato ha gli strumenti per richiedere il pagamento dello stesso”.

Per altro, così facendo, si escluderebbero dall'assistenza gratuita non solo tutti coloro i quali, ad esempio, abbiano in corso una controversia o una contestazione con la RAI per il pagamento del canone (magari perché non dovuto o perché già versato), ma anche quanti abbiano solo di recente cambiato la propria residenza, o abbiano solo di recente acquistato un immobile come prima casa, e non abbiano ancora  avuto comunicazione per il pagamento del canone RAI.

Dal Ministero per lo Sviluppo Economico fanno comunque sapere che quanto espresso sul sito Help Interferenze “è di natura provvisoria e bisognerà attendere il Regolamento collegato al decreto Crescita per avere le disposizioni definitive”. Si tratterebbe quindi di informazioni generali che, allo stato attuale dei lavori, non avrebbero alcuna natura vincolante ma semplicemente indicativa.

Se per ora il problema rimane nel novero delle disquisizioni tecniche e giuridiche, la situazione è certo destinata a esacerbarsi. Gli operatori mobili stanno estendendo la copertura 4G, che permette applicazioni multimediali avanzate e collegamenti dati a banda larga, proprio in questi giorni. E’ di ieri la notizia che Vodafone ha portato la nuova rete a 40 località sciistiche; raggiungerà 20 città a marzo mentre Telecom Italia ha comunicato invece la settimana scorsa di essere arrivata a 30 comuni. A febbraio partirà anche 3 Italia ed entro giugno la copertura dovrebbe essere attiva lungo tutta la penisola.

Secondo quanto stimato dalla FUB, potrebbero essere circa un milione di abitazioni a registrare problemi nei prossimi sei mesi ma, d’altro canto, è proprio grazie agli 800 MHz che gli operatori potranno coprire una vasta parte dell’Italia con il 4G, implementando un servizio essenziale come la connettività mobile. Al momento hanno evitato di usare queste frequenze, lo faranno nelle prossime settimane e allora il problema delle interferenze scoppierà in tutta la sua evidenza. Alle soluzioni, come sempre, si penserà dopo.


di Mariavittoria Orsolato

Dalla seconda metà degli anni zero, i social network e in generale la rete hanno acquisito un peso specifico crescente negli interessi geopolitici internazionali e sono stati spesso decisivi nelle campagne elettorali. Per fare qualche esempio: se nel 2008 i network di Facebook hanno contribuito a fare di Barack Obama il primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti, solo un anno dopo i cinguettii di Twitter portavano a galla i presunti brogli elettorali in Iran, dando contestualmente avvio alla (abortita) rivoluzione verde.

In molti leggono questa “evoluzione tecnologica” come il chiaro indizio che web e politica sono diventati ormai inscindibili nella pratica democratica; eppure, guardando al nostro depresso stivale, scopriamo che, ancora una volta, l'Italia tiene a imporsi come eccezione piuttosto che come regola. La competizione elettorale cha avrà luogo da qui a quaranta giorni è nel suo vivo ed è innegabile che la sua comunicazione più efficace e inclusiva sia ancora costruita e orientata alla televisione, il medium che per quasi il 90% degli italiani rimane un accesso irrinunciabile al mondo dell’informazione.

E' la televisione a dettare l'agenda, a scandire i tempi, a illuminare col suo occhio di bue questo o quel candidato, spostando consensi e alterando equilibri. Certo non lo può fare a suo completo piacimento e per questo, dal 1975, è tenuta a rispettare il principio della par condicio, secondo cui è necessario garantire parità d'accesso a tutti i partiti e/o movimenti politici in periodo di campagna elettorale. Modificata prima nel 1993 e poi nel 2000, la legge sulla par condicio nasce per assicurare la possibilità di fare politica a chi non dispone di ingenti mezzi personali, disciplina la comunicazione politica durante l'intero anno e in tutte le campagne elettorali e referendarie, inibendo la partecipazione di personalità politiche in trasmissioni non afferenti a testate giornalistiche.

Nella prima fase (fino alla presentazione delle candidature) gli spazi sono divisi tra le forze politiche presenti in Parlamento, da quel momento in poi si fa riferimento a coalizioni e liste. Le tribune politiche devono andare in onda tra le 7 e le 9 e tra le 17 e le 19, mentre le conferenze stampa (in diretta in prime time tra le 21 e le 22.30 delle ultime due settimane precedenti al voto) sono riservate ai capi delle coalizioni e ai rappresentanti di lista e vengono moderate da un giornalista Rai (è previsto fino a un massimo di 5 giornalisti ospiti). I sondaggi inoltre non possono essere divulgati nei 15 giorni prima del voto.

L'Authority per le Comunicazioni e la Commissione di Vigilanza Rai vegliano sulla sua applicazione - la prima per le tv e le radio private, la seconda per il servizio pubblico - ed hanno allo stesso tempo la facoltà di emendare il regolamento od ogni tornata elettorale. Così hanno fatto lo scorso dicembre, estendendo i diritti e i doveri della par condicio anche ai soggetti non candidati, come il premier dimissionario Mario Monti.

Un regalo non da poco al professore che, pur non essendo ancora ufficialmente candidato premier, potrà fare comunque campagna elettorale per la sua coalizione centrista. Dicevamo però che le autorità di controllo sono preposte soprattutto ad ammonire e, nella prima settimana di regime, hanno già provveduto a sanzionare praticamente ogni testata televisiva nazionale rea di essersi sbilanciata a favore di uno o più schieramenti.

L'AGCOM ha infatti rilevato in Studio Aperto e Tg4 un'eccessiva presenza del Pdl, nel TgLa7 una sovraesposizione di Mario Monti e Beppe Grillo di fronte a una sottopresenza di Pd e Pdl, in Tgcom24, invece, una sovraesposizione di Monti a scapito del Pd. Non va meglio per la tv di Stato che, salvo il Tg2, è stata anch'essa ammonita affinché equilibrasse le presenze e il minutaggio dedicato alle diverse liste.

Una novità di questa tornata elettorale è stata poi l'estensione esplicita delle cosiddette “quote rosa” al regime di par condicio: secondo la modifica sottoscritta dalla Commissione di Vigilanza Rai lo scorso 3 gennaio, la tv di Stato è obbligata a fornire agli elettori “un'equilibrata rappresentanza di genere tra le presenze”. Se la Commissione presieduta da Sergio Zavoli ha comunque messo l'obbligo nero su bianco, non è così per l'Authority delle Comunicazioni.

Nelle due delibere che riguardano il comportamento radio-televisivo in periodo elettorale, sia per le elezioni nazionali che per quelle regionali, l'ente non nomina esplicitamente la nuova legge sulle quote rosa ma richiama l'equilibrio di genere in tempi di par condicio. Certo è che nelle giornate che vanno dal 7 al 13 gennaio - le uniche sulle quali è al momento possibile raccogliere dati - giornalisti e intervistatori della televisione pubblica hanno dato la parola a 278 politici uomini e soltanto a 12 donne: uno sparuto 4,3%. Non proprio una par conditio..


di Mariavittoria Orsolato

Si parlava ottimisticamente di un epilogo estivo, poi si sperava in una soluzione entro fine legislatura eppure i nodi sul mercato televisivo italiano sono ancora intricatissimi e ben lungi dall'esser sciolti. Le dimissioni del premier Monti e la fine anticipata della legislatura, tra i tanti progetti di riforma, hanno infatti abortito anche l'asta per le frequenze digitali. Presentato come uno dei punti imprescindibili del programma di risanamento del governo tecnico, l'assegnamento dei multiplex di trasmissione avrebbe dovuto far incassare allo Stato la bellezza di 1,2 miliardi di euro (secondo le stime di Mediobanca).

Eppure, così come la norma “pro-startup”, anche il capitolo delle frequenze di trasmissione dovrà essere rubricato come un sonoro fallimento del ministro per lo Sviluppo Economico Corrado Passera e in generale del governo Monti che, di fatto, si è pronunciato in materia solo due volte: la prima, nel dicembre del 2011, per sospendere il beauty contest voluto dal quarto governo Berlusconi; la seconda, nell'aprile di quest'anno, per annullarlo ufficialmente.

L'empasse sulle regole dell'asta unita alla timidezza dell'AGCOM e dei suoi garanti, prima Calabrò e poi Cardani, verso il mostro a due teste del broadcasting nazionale - quel duopolio Rai-Mediaset che dalla distribuzione gratuita del beauty contest avrebbe avuto tutto da guadagnare - hanno dilazionato, i tempi nonostante il ministro Passera avesse puntualizzato di voler chiudere tassativamente l'asta « entro la fine della legislatura ».

Dubitando fortemente che l'asta venga decisa e indetta in campagna elettorale, è chiaro che la patata bollente passerà nelle mani dell'Esecutivo che uscirà dalle urne il prossimo 24 febbraio, ma i problemi per la millantata “rivoluzione digitale italiana” paiono non essere finiti. Sulle pagine di Repubblica, si segnalano infatti controversie internazionali proprio sulle antenne e sul segnale di trasmissione che interferirebbe, non senza disagi, con quello di Stati a noi vicini. Nello specifico, il segnale dei ripetitori Rai per le regioni adriatiche starebbe invadendo il territorio croato, del Montenegro e quando va male della Slovenia; dall'altro lato, i ripetitori di Mediaset e Telecom Italia per la Sicilia disturbano le trasmissioni della vicina Malta.

Probabilmente conscia del fatto che ulteriori migliaia di spettatori avrebbero guardato la tv nazionale senza pagare il canone, viale Mazzini si è appellata al Tar contestando l'inadeguatezza delle frequenze attuali e reclamandone di nuove proprio dal paniere che Passera avrebbe ancora intenzione di mettere all'asta. In prima battuta, i giudici amministrativi regionali hanno dato ragione alla Rai in prima battuta e hanno congelato le frequenze incriminate in attesa dell'evolversi dell'affaire assegnazioni.

La posizione di Mediaset e Telecom Italia di fronte alle contestazioni d'oltremare sono poi della Rai: i due gruppi televisivi sono disponibili a spegnere i ripetitori che disturbano le trasmissioni maltesi, chiedono però che il Garante e il governo assegnino loro frequenze migliori, sempre da sottrarre ai multiplex in attesa di essere messi all'asta. Secondo quanto scrive il quotidiano di Ezio Mauro, il ministero dello Sviluppo Economico non ha la minima intenzione di venire incontro alla richiesta della tv di Stato, del Biscione e di Telecom ma  propone semplicemente di depotenziare i segnale incriminati.

Una soluzione che non soddisferà di certo i nostri vicini mediterranei che si sono già rivolti agli organi di giustizia competenti. Prima fra tutte Malta che ha mandato i suoi legali prima davanti al Radio Spectrum Policy Group (braccio tecnico della Commissione Ue a Bruxelles), poi all'Unione internazionale delle telecomunicazioni (l'ITU) ed ora davanti al nostro Garante per le Comunicazioni. Prima di scrivere le regole generali dell'asta l'AGCOM ha quindi aperto le porte a chiunque volesse dire la sua sul tema e, com'era ovvio, Malta e la Croazia hanno depositato pesanti faldoni carichi di contestazioni al nostro sistema di broadcasting.

L'ultima versione della bozza del sopracitato schema di provvedimento è ora nelle mani dell'Unione europea, che dovrebbe approvarlo e rispedirlo al mittente a metà gennaio. Il condizionale è d'obbligo in quanto non bisogna dimenticare che l'Italia del piccolo schermo rimane un'osservata speciale a Bruxelles, dove è ancora aperta una procedura di infrazione che prevede una multa da 350.000 euro al giorno a causa dell'impianto della legge Gasparri. Multa che rimarrà tale finché l'asta non verrà effettuata e il mercato televisivo nostrano verrà giudicato sufficientemente concorrenziale in sede comunitaria. E, allo stato attuale delle cose, è abbastanza inutile sottolineare che continueremo a pagare.



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