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di Mariavittoria Orsolato
Se l'ormai annosa guerra tra Sky e Mediaset si potesse descrivere con termini sportivi, potremmo dire che in sede giudiziaria per Murdoch è sempre Cappotto. Il teatro dell'ultima sfida in questione - in termini di tempo - è la sede del collegio arbitrale di Parigi, a cui l'azienda della famiglia Berlusconi si è rivolta per accusare il rivale Murdoch di aver violato gli impegni presi con l'Unione Europea al tempo della fusione tra Stream e Telepiù.
Nella disputa c'è però anche altro, una sfida nella sfida per imporre la leadership dei network. Per quanto riguarda la pay per view, infatti, le uniche due vere realtà nel mercato della nostra penisola sono rappresentate dal digitale terrestre Mediaset e dalla piattaforma satellitare Sky. La loro é una storia di corteggiamenti e sgambetti che dura da almeno 8 anni e che pare destinata ad inasprirsi ulteriormente. Ma andiamo per ordine.
Nel 2008 Sky Italia acquista dalla Rai un pacchetto comprendente i Mondiali di calcio del 2010 e del 2014, le Olimpiadi invernali di Vancouver e i Giochi Olimpici che si svolgeranno quest'anno a Londra: il tutto per la modica cifra di 130 milioni di euro. Un colpaccio per la squadra di Murdoch, che porta a casa l'esclusiva, e un affarone anche per mamma Rai, cui viene comunque concessa la possibilità di trasmettere in chiaro le 25 gare più importanti del Mondiale, comprese quelle della nazionale di calcio.
L'intesa rischia però di stritolare Mediaset che in extremis prova a convincere Sky Italia a concedere anche al Biscione l'autorizzazione per mandare in onda le partite sui canali pay del digitale terrestre. La risposta, ovvio, è un no secco e senza margini di trattativa. Un rifiuto giustificato anche e soprattutto dalla situazione di grande tensione che si respirava al tempo per alcune mosse del governo Berlusconi, mal digerite dal network satellitare del tycoon australiano: dall'aumento dell'Iva deciso dal governo Berlusconi pochi giorni prima del Natale 2009, all'ingresso di Murdoch sul digitale rallentato dall'allora ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani.
Ed allora via all'ennesima battaglia legale, con Mediaset agguerrita e pronta a rivolgersi alla corte di Parigi per chiedere che i diritti sui megaeventi sportivi fossero resi disponibili anche ad altri operatori televisivi prima dell'inizio dei Mondiali. Al tempo stesso i legali del Biscione provavano comunque a raccattare le briciole e avanzavano la richiesta di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata trasmissione dei Campionati del Mondo di calcio nell'ambito della propria offerta a pagamento Mediaset Premium.
Ma le cose (ahiSilvio!) non sono andate nel verso sperato, e la conferma è arrivata nei giorni scorsi. Ad essere accolta è stata infatti la tesi di Sky: gli arbitri, infatti, hanno negato che i diritti di trasmettere i Mondiali possano ricadere nell'ambito applicativo degli impegni presi con l'Ue perché riguardano un evento non essenziale per la competitività di un operatore televisivo concorrente, dal momento che si svolgono in poche settimane ogni quattro anni. Quindi niente partite e, ovviamente, niente risarcimento.
L'ennesimo duro colpo per la tv di Cologno Monzese che, dopo aver legiferato indisturbata pro domo sua, una volta di fronte ad organismi giudiziari internazionali si è sempre vista rigettare i ricorsi man mano intentati contro la mega corporation di Murdoch. Le basi dell'accusa che Mediaset rivolge a Sky Italia sono sempre le stesse e risalgono al 2003, anno in cui venne siglata la fusione di Stream e Telepiù in un unico network controllato dalla Newscorp di Murdoch.
Poiché il nuovo concorrente conquistava da subito una posizione di monopolio per l’offerta satellitare e pay per view, il dipartimento per l'antitrust della Commissione Europea subordinò l’accordo a una serie di limitazioni che, di fatto, obbligavano la Newscorp ad offrire la pay tv soltanto su satellite (mentre non poteva mantenere o acquisire frequenze in digitale terrestre) e ovviamente a non partecipare a gare d'asta sui diritti di eventi sportivi mondiali, solitamente riservati al broadcasting di Stato ma dal 2005 venduti al miglior offerente.
Stando ai documenti, l’accordo e il conseguente limite al concentramento di Sky avrebbe cessato di essere valido il 31 dicembre 2011, ma nel novembre 2009 il network ha chiesto alla Commissione di essere sollevata dall'impegno relativo alla piattaforma digitale, in modo da poter partecipare alla futura gara per l'aggiudicazione di cinque nuovi multiplex, cioè le frequenze che singolarmente consentono la radiodiffusione di uno o due canali in alta definizione e dai quattro agli otto canali in definizione standard.
Nel luglio del 2010 la Commissione Europea da il via libera all'ingresso di Sky sulla piattaforma digitale e, pur vincolandola per cinque anni alle sole trasmissioni in chiaro su un unico canale, rigetta l'esposto di Mediaset secondo cui le limitazioni imposte a Sky nel 2003 erano ancora validissime. Da 4 anni infatti il satellitare non è più il regno esclusivo di Murdoch e con l'avvento di TivuSat - la piattaforma su parabola alternativa al digitale, imposta oltretutto dalla legge Gasparri - le condizioni concorrenziali sono decisamente mutate. Se esiste dunque un karma anche nella giustizia, il gruppo RTI sta sicuramente scontando le colpe del patrono.
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di Mariavittoria Orsolato
Arrivato alla sessantaduesima edizione, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo sembra sempre più un malato terminale desideroso di vedere staccata la spina che lo tiene ostinatamente in vita. Un anziano malconcio, e sofferente nel vedere che la sua ragione di vita - la canzone, la musica appunto - è stata ridotta a lezioso corollario di una continua polemica. Perché sebbene il festival duri solo cinque giorni, i prodromi e lo strascico sono puntualmente conditi dagli starnazzanti commenti di mezza Italia.
Si potrebbe infatti fare un esperimento e, a ritroso, andare a vedere la struttura degli ultimi 20 anni di festival: si scoprirebbe che, autoreferenziale ai limiti dell'inverosimile, Sanremo è da lungo tempo costruito proprio su un'architettura di polemiche. Di quelle becere, che non entrano nel merito delle questioni ma si soffermano sempre sui tre elementi portanti di quella che tutto è, fuorché una gara canora: gli ospiti, le vallette e il sistema di voto.
Si comincia di solito con gli esosi cachet degli ospiti, su come quelli sono soldi pubblici che potrebbero essere meglio spesi e sul fatto che ciò rappresenti - per concomitanza di calendario - uno dei ragionevolissimi motivi per cui non pagare il canone Rai. L'anno scorso era Benigni, quest'anno è toccato ad Adriano Celentano (volutissimo dal direttore artistico Mazzi che ha strappato ad una Rai riluttante il sì e i 300.000 euro per farlo esibire) che nel suo monologo ha inveito contro la stampa cattolica, invocando la chiusura di Avvenire e Famiglia Cristiana, rea di occuparsi più del temporale che dello spirituale. Uno “scandalo” che ha spinto la direttrice generale Lorenza Lei a commissariare il festival per la prima volta nella sua storia, inviando a Sanremo il vicedirettore generale per l'offerta, Antonio Marano, a coordinare con potere di intervento i lavori.
Una pezza che è servita a poco dal momento che già la sera seguente, con l'arrivo del duo comico Mandelli-Biggio, è scappata la gaffe sul mondo gay. I Soliti Idioti - questo il nome d'arte dei due vj di mtv - hanno infatti messo in scena uno sketch sull'omofobia cogliendo al volo l'occasione offerta dall'ennesima panzana di Giovanardi sulle coppie omosessuali. L'intenzione era probabilmente quella di denunciare, ma il risultato - ahiloro e ahiRai - è stato quello di fare incazzare pressoché tutte le associazioni per i diritti LGBT, che hanno visto nello sketch il compendio dei peggiori luoghi comuni sulla galassia gay.
Ci sono poi le vallette, accusate puntualmente di rappresentare lo stereotipo della donna oggetto: bellissime alla vista ma assolutamente inutili, anzi spesso controproducenti (viste le gaffes), ai fini della conduzione. Per la sessantaduesima edizione la squadra Mazzi-Morandi è riuscita addirittura a scovarne una con gli attacchi di panico, che si è presentata sul palco dell'Ariston solo alla seconda serata e che ha costretto a richiamare in tutta fretta il duo Canalis-Belen, madrine della scorsa edizione.
Proprio quest'ultima ha acceso i riflettori su un argomento che, eclissate le varie Brambilla e Minetti, speravamo di non dover nuovamente affrontare: scendendo dalle gradinate dell'Ariston la Rodriguez, con spacco più che inguinale, ha mostrato la farfalla tatuata in prossimità della sua “farfallina” e - a sua detta volontariamente - ha innescato il dubbio sul fatto che portasse o meno le mutande. Una querelle cui nemmeno le testate più autorevoli si sono sottratte e che ha tenuto banco sulla rete e sulla bocca degli italiani per un'intera giornata.
Quanto al sistema di voto, già dalla prima serata è stato un disastro. Se ogni anno arriva pronto lo scoop di Striscia sugli inciuci che, leggenda vuole, designano il vincitore di Sanremo prima ancora che il festival cominci, quest'anno in Rai sono riusciti a fare di meglio. O di peggio. Il sistema di votazione elettronica va in tilt e la prima serata del Festival di Sanremo si conclude senza eliminazioni. Gianni Morandi annuncia quindi che la gara è sospesa e che i 14 artisti si riesibiranno tutti nella seconda serata, alla fine della quale ne saranno eliminati 4.
Una decisione, come spiega Morandi, presa “in deroga al regolamento del Festival” da Rai Uno e dalla direzione artistica ma che ha mandato su tutte le furie la giuria demoscopica ammucchiata sulla piccionaia dell'Ariston. Sventolando i fogli di valutazione - in Rai, al posto dei pad, si usano ancora gli A4 - i giurati popolari hanno inscenato una protesta, servendo al co-conduttore Rocco Papaleo l'unica battuta riuscita del Festival: “Occupy l'Ariston!”.
In questo walzer di astio populista e banalità d'avanspettacolo, il Festival della Canzone Italiana è rimasto dunque da tempo orfano della sua ragion d'essere: la musica - bistrattata da artisti abituati al playback - diventa semplice pretesto e per fare share (e raccolta pubblicitaria conseguente) e la Rai e la direzione artistica del Festival sono costrette a puntare sulla chiacchiera da cortile.
Anche perché, a voler essere pignoli, di buona musica a Sanremo se ne vede poca e molto raramente. Con la colonizzazione coatta degli artisti da talent show e il recupero di cariatidi della lirica nostrana, il livello musicale del festival è in caduta libera da tempo. Per questo forse sarebbe meglio piantarla li.
Staccare la spina a questo moloch agonizzante che succhia risorse e fondi dal seno afflosciato di mamma Rai e non ha ragion d'essere nemmeno davanti ai risultati di share, puntualmente deludenti. Sanremo soffre per una miriade di motivi. Decretiamone perciò il fine vita e cambiamo canale.
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di Mariavittoria Orsolato
Mentre a viale Mazzini fervono i preparativi per il moloch sanremese, dalla pagina Facebook di Roberto Saviano arriva una bomba pronta a scuotere le fondamenta Rai. Il 29 dicembre del 2010, spiega lo scrittore antimafia, su Rai2 é andata in onda la trasmissione Canzoni e Sfide, una delle tante che affollano i palinsesti nei giorni a cavallo di Capodanno, con auguri, canzoni e voci bianche ad allietare le feste.
A condurre il programma Lorena Bianchetti che, a un certo punto della serata, ha chiamato sul palco una bambina di 12 anni, Mary Marino, poi esibitasi (senza particolare talento) in una canzone dedicata al padre. Fin qui nulla di sconcertante, se non fosse che il papà - su cui la presentatrice ha richiamato l'attenzione, invitando la ragazzina ad andare a dargli “un bacino” - è Gaetano Marino, meglio conosciuto come McKay.
Un boss di camorra, racconta Roberto Saviano, ai vertici degli Scissionisti usciti vincitori della guerra interna al cartello dei Di Lauro. Gaetano, infatti, è “fratello di Gennaro Marino, promotore militare della faida. Sono detti i McKay perché il padre Crescenzo (ucciso dai Di Lauro come vendetta) somigliava a un vecchio personaggio di una serie televisiva western”, ha spiegato l'autore di Gomorra. “Incredibile. Mi domando: perché questo omaggio?” si è chiesto Saviano. “Perché il Politeama di Catanzaro ha tenuto Gaetano Marino come ospite d'onore in prima fila? Perché la Rai ha messo in scena questa celebrazione?”.
All'epoca del “fattaccio” il direttore della seconda rete era Massimo Liofredi che, interpellato tempestivamente dalla stampa sulla questione, ha risposto che la trasmissione fu il risultato di un'acquisizione di diritti da un produttore esterno. La classica acquisizione di un format insomma, i cui contenuti e ospiti erano decisi dalla produzione esterna e non dallo staff Rai. Stando alla ricostruzione pubblicata su Lettera43, il produttore esterno di Canzoni e Sfide è Dino Vitola, personaggio influente nel mondo della musica pop italiana e proprietario della Teulada Television srl, società di produzione tv con sede legale a Cosenza che alla Rai, nel coso degli anni, ha piazzato ben più di un solo programma.
Una produzione esterna dunque, che però, per la messa in scena, aveva richiesto il supporto di tecnici e operatori della tv pubblica tra cui il regista, il professionista di lungo corso Giancarlo Nicotra, attivo sia in Rai che a Mediaset. A selezionare ospiti, concorrenti e pubblico, e a decidere che Mary non sarebbe stata solo una delle cantanti in gara ma la star della serata alla quale bisognava riservare anche la sigla, è stata però la Teulada Television, ovvero Vitola. Ma sul perché l'azienda pubblica televisiva abbia deciso di comprare per una sola trasmissione Canzoni e Sfide, un format dallo share irrilevante e per di più neanche “chiavi in mano”- visto che viale Mazzini ha dovuto metterci tecnici, operatori e regia - non ci è dato sapere.
Per ora in Rai nessuno ha voluto sbilanciarsi, fonti interne all'azienda di stato dicono l'acquisizione fosse un affarone: 60.000 euro al massimo di costi e un appeal per il pubblico assicurato dalla presenza di artisti del calibro di Zucchero. Ufficiosamente una mossa al risparmio, ma le stesse voci, riportate sempre da Lettera43, dicono che per sponsorizzare il format di Vitola si sia mossa più di una persona. Non solo il giornalista calabrese Fabrizio Cerqua - ideatore del programma, scomparso lo scorso 5 dicembre - ma anche “un consigliere di amministrazione cui pare piacesse molto e che l'ha segnalato al direttore di Rete e alla direzione acquisti”, salvo poi decidere di non ripetere l'acquisto l'anno successivo.
E mentre la Fondazione Politeama, responsabile del teatro di Catanzaro, ha tenuto a precisare che si era limitata a concedere l'uso dello spazio per il programma, il quale non appartiene, né direttamente, né indirettamente alla programmazione ufficiale del teatro, le risposte dei politici in merito alla presenza del boss camorrista sono state tante.
“È inconcepibile”, ha tuonato il capogruppo dell'Italia dei Valori in commissione di Vigilanza, Pancho Pardi: “Senza dover chiedere la fedina penale a chi siede nel parterre delle trasmissioni com’è stato possibile che la figlia di un camorrista, peraltro minorenne, abbia potuto cantare una canzone dedicata proprio al padre seduto in platea?” ha concluso Pardi, annunciando un'interrogazione in commissione. Anche dalle file del Partito Democratico è stata annunciata un'interrogazione per chiedere di avviare un'inchiesta in merito, diretta al ministro Corrado Passera, come ha affermato Pina Picierno: “È una vicenda che non può passare inosservata e bene ha fatto Saviano a denunciarla online”.
C'è però un ulteriore retroscena, e stavolta il protagonista è proprio il blindatissimo scrittore partenopeo. Sul suo profilo Facebook, Saviano aveva esordito dicendo che questa incresciosa situazione era passata “inosservata” e, così scrivendo, si era bellamente compiaciuto di aver portato la notizia alla ribalta delle cronache dopo oltre un anno di “omertoso” silenzio. Peccato che invece la notizia fosse stata data, in modo assolutamente tempestivo, dal quotidiano napoletano Il Giornale di Napoli e che il glabro scrittore l'avesse semplicemente ripresa, senza però fare il minimo accenno alla fonte. Per la serie: basta che se ne parli.
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di Mariavittoria Orsolato
A guardarla da qualsiasi angolatura, anche quella più indulgente e nostalgica, sembra ormai assodato che la Rai sia diventata letteralmente un colabrodo. Oltre a perdere pezzi in Consiglio di amministrazione e tra i big del servizio pubblico - Santoro e Dandini in testa - viale Mazzini potrebbe privarsi a breve di quello che è a tutti gli effetti un pilastro fondamentale della domenica italiana. Stiamo parlando della storica trasmissione 90° minuto che, dalla prossima stagione, rischia seriamente di chiudere i battenti a causa delle aste sui diritti tv per le partite del campionato maggiore.
L'offerta della Rai per i diritti in chiaro, giunta venerdì alla sede milanese della Lega Calcio, è stata respinta in quanto troppo bassa dai presidenti di serie A: circa 10 milioni, quando la Lega ne chiedeva almeno 25 a stagione, e qualcuno l'ha definita addirittura "ridicola". La cosa non ha però rappresentato una novità dal momento a viale Mazzini, in fatto di diritti calcistici, si è cominciato a tirare il freno già 7 anni fa, quando la tv di stato si fece clamorosamente soffiare gli highlights da Mediaset.
La Rai perciò, anche quest'anno, aveva già rinunciato a fare un'offerta al bando d'asta, e adesso, nella trattativa privata, ha proposto meno della metà della cifra che spende oggi. Quasi un’offesa per i presidenti delle grandi squadre di serie A che hanno deciso di indire subito un’assemblea per venerdì prossimo, nella quale si stabilirà di aprire una nuova asta con i diritti spacchettati, cioè per fascia oraria. Da quello che si è potuto leggere e capire finora, la direzione Lei vorrebbe almeno provare a salvare la Domenica Sportiva - altro appuntamento canonico del palinsesto domenicale Rai dedicato al calcio - ma per fare ciò sarebbe costretta a sacrificare l'appuntamento che da 42 anni riunisce i tifosi italiani davanti al televisore.
Sì perché per l'italiano il giorno da santificare è sempre stato la domenica del pallone, quella fatta di orari e rituali, di appuntamenti fissi e di leggende da bar che fanno tanto folklore. I nostalgici ricorderanno bene quei pomeriggi attaccati alla radiolina a pendere dalle labbra dei cronisti di Tutto il Calcio minuto per minuto; poi alle 18 e 10 era la volta di dare un volto ai gol raccontati alla radio sintonizzandosi su Rai1 per 90° minuto, quindi Domenica Sprint, con annesso secondo tempo di una delle partite clou della giornata, e poi si chiudeva con la Domenica Sportiva, l’approfondimento della seconda serata.
Cosa è rimasto di questa routine tanto cara ai calciofili del Belpaese? Le tv, o meglio le pay-tv, hanno modificato la geografia televisiva e il modus vivendi del pallone nostrano, con approfondimenti in tempo reale, immagini e replay fino alla nausea, interviste prima, durante e dopo, gol propinati in successione e in tempo reale ed ora, con l'HD, possiamo pure gustarci sputi e sudore in altissima definizione come se fossimo in campo.
Dormiente sugli allori di un monopolio sportivo praticamente incontrastato, mamma Rai non ha retto l'urto dell'apertura alle pay tv e dal 1993 - anno in cui Lega Calcio e Telepiù introdussero in Italia l'istituto giuridico anglosassone dei diritti criptati - il problema era, ed è, sempre quello: Sky e Mediaset Premium sono cannibali, dettano le regole, offrono tutto e subito. Oggi 90° minuto sconta inevitabilmente (purtroppo, c'è da dire) la sua maturità e, pur vivendo dei fasti del passato, incolla allo schermo ormai pochissime persone. Trasferitosi su Rai2, il buon Franco Lauro non può quasi nulla contro i cali d’ascolto e, in seno a Viale Mazzini, l’idea di tagliare la trasmissione non appare un’eresia se in fondo si tratta solo di auditel e di introiti pubblicitari. Così dopo 41 anni l’idea di mandarla in soffitta - che a molti suona blasfema ma che in tempi di austerity risulta crudelmente razionale - solletica il cinismo dei vertici Rai.
Chiudere 90° minuto significa però dire addio ad una trasmissione di culto che veramente, all'epoca di quel calcio che sembra lontano ma che era solo ieri, arrivava a tenere davanti al video quasi la metà del Paese, con una platea di quasi 20 milioni di spettatori a puntata. Voluta da Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci, fu legata per quasi 20 anni al volto di Valenti. Tutte le partite di serie A e B in circa un'ora di trasmissione, soltanto gol, azioni e niente chiacchiere: un'evidente mancanza di modernità, se si considera che ormai il calcio é commentato alla stregua della politica, ma per gli aficionados delle 18 e 10 era proprio questo il suo appeal.
Se effettivamente dovesse arrivare a celebrarsi, il funerale del pomeriggio sportivo Rai non rappresenterebbe solo una perdita in termini affettivi ma anche l'ennesima sconfessione del ruolo di servizio pubblico che la Rai, anche se ormai recalcitrante, si assume come tv di stato. Per chi non ha la pay tv e paga il canone - quei pochi che ancora si degnano di farlo nonostante i rincari e la caduta libera della qualità dei contenuti - bisognerà infatti aspettare fino alla tarda sera di domenica per vedere i tanto sospirati gol in chiaro e, in questo modo, quasi 16 milioni di famiglie rischiano di essere seriamente penalizzate. Dopo aver perso le Olimpiadi e, dalla prossima stagione, anche la Champions League, ora la Rai potrebbe rendere gli italiani orfani anche del loro indiscusso e praticatissimo culto domenicale. Altroché “di tutto, di più”.
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di Mariavittoria Orsolato
Gennaio, si sa, è da sempre un mese di bufere per viale Mazzini. Alla scadenza dei termini per il pagamento dell'odiatissimo canone Rai - tassa maldigerita da una larghissima fetta della popolazione - si aggiunge la sempiterna polemica sui cachet a cinque zeri del Festival di Sanremo e, a dimostrazione di come in Italia non esista nessuna discontinuità rispetto al passato recente, arriva puntualmente l'ennesima polemica, in questo caso tutta politica. Nella serata dello scorso martedì, il consiglio di amministrazione si è riunito per decidere le nomine di due ghiotte e importanti poltrone, dando il via libera alla nomina di Alessandro Casarin ai Tg regionali e a quella di Alberto Maccari alla guida del Tg1.
Un'operazione dovuta dopo l'allontanamento di Minzolini - rinviato a giudizio con l'accusa di peculato per la storiaccia delle carte di credito aziendali, usate con nonchalance per pagare conti personalissimi - ma che in sostanza conferma l'interim dato lo scorso dicembre all'ex direttore della Tgr, rimasta anch'essa con la direzione vacante. Due nomine che in realtà non cambiano nessuna carta in tavola dal momento che entrambi sono stati confermati nella loro attuale posizione, ma la polemica si concentra sulla modalità con cui i due giornalisti sono stati designati: per la prima volta nella storia della Rai, la carica di direttore di testata è stata decisa e avallata solo da una parte del Consiglio di amministrazione, in questo caso dal centrodestra.
Guglielmo Rositani, Angelo Maria Petroni, Giovanna Bianchi Clerici, Alessio Gorla e Antonio Verro hanno votato a favore, quest'ultimo addirittura dimettendosi da parlamentare Pdl per evitare le accuse di incompatibilità con la carica ricoperta in Rai. Hanno invece votato contro sia il presidente Paolo Garimberti che i consiglieri di centrosinistra (Nino Rizzo Nervo e Giorgio van Straten) e il consigliere di area Udc, Rodolfo de Laurentiis, rendendo un quadro che vede la Lega e il Pdl in sostanziale accordo nonostante i ripetuti pubblici strali.
Nonostante la direttrice generale Lei rivendichi “piena autonomia” sulle proprie scelte, Casarin diventa direttore in quota Lega mentre Maccari, vicino all'area berlusconiana, ha dribblato il pensionamento previsto proprio per il 31 gennaio e si è visto rinnovare il contratto fino al 31 dicembre 2012; questo sebbene il codice di autoregolamento del Cda, ratificato poco meno di due anni fa, vieti esplicitamente di affidare direzioni a dipendenti prossimi alla pensione.
Il primo a protestare è stato il presidente Garimberti che, nonostante il 6 dicembre avesse votato a favore dell'interim di Maccari, sperava in un blitz che portasse a Saxa Rubra il direttore del Messaggero Mario Orfeo, oppure l’editorialista della Stampa Marcello Sorgi. Un piano, secondo alcune voci, condiviso con il consigliere in quota Pd Nino Rizzo Nervo che, a seguito della votazione, si è dimesso clamorosamente dal Consiglio di amministrazione.
Nervo ha annunciato le sue dimissioni con due lettere: una a Garimberti e una al presidente della Commissione di Vigilanza Sergio Zavoli. Al presidente Rai ha scritto: “Giudico quanto è avvenuto l’ultimo scriteriato atto di una gestione aziendale condizionata da logiche di parte che sta spingendo l’azienda verso un rapido declino.
Ho più volte denunciato - si legge nel testo - anche in Consiglio la gravità della situazione e ti do atto degli sforzi che hai compiuto in questi anni per preservare l’autonomia delle decisioni e per tutelare gli interessi aziendali. Auguro alla Rai di poter presto riconquistare l’autorevolezza e la credibilità perdute”.
Insomma anche in quella che dovrebbe essere la rinnovata era Monti, il detto che per capire qualcosa della politica nostrana bisogna guardare in Rai, si conferma in tutta la sua poco consolatoria semplicità. Nonostante tutto il folclore padano, le pernacchie di Bossi e i distinguo di Maroni, appare chiarissimo che Pdl e Lega sono ancora alleati di ferro, e che non appena sarà archiviata l'esperienza del governo tecnico si ripresenteranno insieme alle elezioni politiche (ma probabilmente già dalle prossime amministrative l'alleanza verrà riproposta).
Non era difficile da intuire, e stupisce che tanti elettori del Nord non se ne siano ancora resi conto: la Lega è un cane che abbaia ma non morde; soprattutto non morde il potente, per quanto ormai defilato, padrone di Arcore.
Resta poi ancora da capire se il premier Monti darà seguito a quanto annunciato in una delle sue ormai ubique apparizioni televisive. Nonostante poco prima avesse definito la questione Rai come non prioritaria per l'azione del Governo, ospite di Fabio Fazio dieci giorni fa, aveva ventilato possibili azioni di riforma a viale Mazzini nel prossimo futuro.
Che queste vengano incontro alla richiesta di eliminare per lo spoil system di bandiera che da anni inevitabilmente ammorba l'amministrazione e la qualità della tv di Stato potrebbe anche essere possibile, ci si augura solo che al posto dei politici non subentrino i tecnocrati perché, come si è ormai avuto modo di constatare, tra le due figure, in termini di risultati, non passa molta differenza.