di Roberta Folatti


Della serie “tutto il mondo è paese”...

Quando un comico è in grado di fare discorsi più comprensibili e immediati di quelli dei politici “consumati”, rendendosi interprete di bisogni reali, vuol dire che il meccanismo della democrazia e della rappresentanza si è intoppato. La gente non si sente rappresentata, tra la politica e il mondo reale aumenta l’abisso. Se un comico riesce a esprimere lo scontento, l’esigenza di chiarezza, l’allergia agli atteggiamenti ipocriti, catturando la fiducia delle persone, vuol dire o che siamo in Italia e quel comico è Beppe Grillo o che siamo negli Stati Uniti ma dentro un film...

di Betta Bertozzi


Ieri sera, dal mio divano rosso, ho visto una grande, una grandissima televisione.
Ho visto quella televisione che noi tutti predichiamo, e che non razzoliamo più, per un sacco di ragioni. Un po’ perché i programmi non c’è più il tempo di scriverli o di pensarli, un po’ perché i programmi costano e le spese si tagliano, un po’ perché le buone idee, come l’erba voglio, non crescono nemmeno nel giardino del re. Figurati nei programmi..
Ieri sera mi sono goduta Fazio. Un Fazio inedito, sorprendente, vitale e vivo, un Fazio che pugna e lotta insieme a noi, come ai bei tempi. Come quando Telekabul era un pochettino più possibile dell’isola che non c’è e per farla non ti servivano Peter Pan e la polverina magica, ma solo una buona idea, e di quelle ce n’erano a bizzeffe.

di Roberta Folatti


Un incontro tra mondi che si guardano con sospetto
Non è un documentario, non è una fiction, è un mix riuscito di entrambi i generi - forse qualcosa di nuovo nel panorama del cinema italiano – con uomini e donne reali che diventano i protagonisti di una storia avvincente e tenera. Vita vissuta, che ha sorpreso e catturato lo stesso regista.

di Betta Bertozzi


Per una settimana è stato il mio tiggì. Per sette giorni, ogni sera alle sette, mi sono seduta attenta sul mio divano, in attesa del verbo. Ho atteso il verbo mentre si sproloquiava, in un certo qual modo molto borghese, molto “abbiamo-sempre-fatto-le-vacanze-a-capri”, di politica internazionale. Ho atteso il verbo mentre le Meteorine (che non sono ragazze affette da quel brutto disagio per cui ti ritrovi aria in eccesso nella pancia, che non possiamo nominare in un telegiornale per bene, ma semplici “attrici” del meteo) ridacchiavano compiacenti su cirri, stratocumuli e temperature in rialzo. Ho atteso il verbo anche nell’abituale gesto di riassetto dei fogli che contraddistingue il finale del Tiggì di Fede. Ho così tanto atteso il verbo, che soltanto dopo una settimana di Tiggì 4 ho capito che stavo sbagliando: dovevo aspettare il nome.

di Roberta Folatti


Cia: la religione del sospetto

Un altro film di spie, questa volta dalla prospettiva opposta. Se “Le vite degli altri” si focalizzava sulla Stasi operante nella Germania dell’Est fino alla caduta del muro, The good shepherd racconta la Cia attraverso al figura di un suo gelido rappresentante che sacrifica vita, emozioni ed affetti al “bene” del suo paese, gli Stati Uniti. Che cosa corrisponda davvero a questo “bene” è ciò che si domanda Robert De Niro, che ha deciso di concretizzare la sceneggiatura di Eric Roth da molti considerata irrealizzabile: troppo costosa e intricata.


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