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di Fabrizio Casari
Chi si attendeva una grande prova degli azzurri, al loro esordio al mondiale, è stato deluso. La squadra di Lippi ha certamente tenuto bene il campo, controllato relativamente il gioco (possesso palla 52 a 48, non l’abbiamo certo incartata agli avversari, ecco) e dimostrato quanto le critiche all’assetto ed alle scelte del suo CT non siano campate per aria.
Sarà bene ricordarsi che non avevamo di fronte il Brasile, l’Argentina, la Spagna o l’Inghilterra. Avevamo di fronte l’onesto e modesto Paraguay. Una squadra sufficientemente solida e vocata all’agonismo, con qualche discreto interprete e diversi podisti, nulla di più.
Siamo riusciti a prendere gol su un calcio piazzato da 30 metri, con la difesa piazzata male. Era troppo addosso alla porta, mentre ci si deve posizionare alti per impedire che un tocco qualunque diventi imprendibile e per facilitare la messa in fuorigioco degli avversari, oltre che dare metri sufficienti al portiere per uscire o leggere la traiettoria. De Rossi ha ammesso la sua colpa, ma trattasi di generosità nobile. In realtà il centrocampista della Roma non è andato sull’anticipo proprio perché cannavaro era davanti al giocatore paraguayano. Anzi, il mancato salto di Cannavaro ha reso inutile la presenza dello stesso De Rossi alle spalle di Alcaraz.
Mai pericolosa l’Italia. Non si capiscono fondamentalmente tre cose: cosa fa Marchisio, dove va Iaquinta e perché s’insiste con Gilardino. Una discreta difesa ( ma proprio appena sufficiente) un buon centrocampo, con De Rossi e Montolivo i migliori, un attacco inesistente. Pepe, che ha tanta corsa ma piede marmoreo, ha senso solo se può appoggiare ad un trequartista. Ma la fascia la regge bene, non è lui il problema, né si può pretendere che di colpo diventi Cristiano Ronaldo. Iaquinta invece punta la fascia senza saper stringere al centro, né saltare l’uomo e diventa così un giocatore superfluo. Gilardino, che non segna un gol da Marzo, si candida al più a spizzare di testa i palloni inutili; ma non vede la porta nemmeno con gli occhiali in 3D. E Marchisio non si capisce dove giochi, in che ruolo. Si capisce però che, quali che siano i suoi compiti, non li svolge. Dovrebbe cantare di meno e giocare di più. Sarà bene inserire Pazzini al centro e mettere Pepe e Di Natale sulle fasce per tentare di vedere la porta degli avversari in momenti diversi dai calci d’angolo. In attesa del rientro di Pirlo che, con Montolivo e De Rossi, in un centrocampo a tre, potrebbe mettere quaell’aggiunta di fosforo e tecnica davvero indispensabili.
Lippi e i giocatori dicono però che l’Italia è un bel gruppo. Il gruppo. Parola magica, ormai evocata in ogni rappresentazione sportiva che non sia uno sport individuale. Di per sé, vorrebbe dire che c’è unità d’intenti, solidarietà e sforzo comune, in un collettivo che cerca, sempre e comunque, di arrivare al risultato. In realtà, decodificando questa sorta di Mantra, gruppo diventa tutto questo in assenza di amalgama, di gioco. Sostanzialmente, gruppo diventa alternativa a squadra.
Nel gruppo, infatti, sono uno per tutti e tutti per uno e ognuno corre in soccorso delle difficoltà dell’altro; nella squadra, invece, non serve - se non nell’emergenza - correre tutti per uno e uno per tutti, perché ognuno sa qual’é il suo compito, la sua posizione in campo, la parte degli schemi di cui deve farsi interprete e anche cosa non deve fare per non sovrapporsi e generare equivoci o confusione nell’architettura del gioco. Nella squadra c’è chi difende, chi imposta, chi rifinisce e chi realizza, anche quando la fantasia degli schemi porta ad invertire ruoli in determinati momenti. Il gruppo si fa sentire, la squadra impone il suo gioco.
L’Italia è appunto un gruppo, non è una squadra. Sta bene di gambe, ha corsa, ha carattere, ha volontà, una discreta tenuta psicologica, ma non gioca al calcio. Improvvisa e qualche volta riesce a costruire azioni in velocità, ma non è mai pericolosa. Non c’è chi rifinisce e chi realizza, essendo a casa, in infermeria o in panchina quelli capaci. La definizione classica che sembra adeguarsi a quanto visto ieri sera è quella di squadra operaia. Ma il mondiale rischia di somigliare a Pomigliano.
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di Fabrizio Casari
Quando il Sudafrica era solo il sudafrica, quando Mandela era un prigioniero e gli afrikaners erano al governo, il calcio era lontano da Città del Capo. Nelle scuole e nelle strade per bianchi si giocava a golf, a cricket. Il rito del the alle cinque era l’unico momento nel quale uomini e donne del regime somigliavano ad esseri umani.
Lo sport era quello dei colonizzatori: occhi chiari e capelli biondi, reyban rigorosamente a specchio e modi da schiavisti, era difficile trovare qualcuno correre dietro a un pallone. Preferivano semmai lo sport nazionale, quello della caccia al nero, sostituto locale della caccia alla volpe. Nei ghetti di Johannesburg, come nel paese in generale, la polizia del regime segregazionista brindava a sangue per ogni giorno di sopravvivenza dell’apartheid.
Lo sport che andava per la maggiore non era lo sport della maggioranza; quello era semmai la sopravvivenza, come fosse il remake quotidiano di “Fuga per la vittoria”. Morivano come mosche sotto la repressione della polizia nazista al servizio di Pick Botha, ma non indietreggiarono di un millimetro. Fino a quando venne il tempo buono, quello in cui, grazie alle guerre di liberazione in Africa e grazie al contributo dei cubani, l'Africa passò ad essere degli africani e il sudafrica divenne Sudafrica.
Il regime segregazionista, che aveva già perso da molto tempo la decenza ed il rispetto, cominciò a perdere quota e, un giorno, perse anche il potere. Il virus della libertà si era propagato dall’Angola al Mozambico, dallo Zimbawe alla Namibia. Il Sudafrica era l’ultima tappa di un viaggio durato persino troppo a lungo. Quando il sudafrica era l'apartheid, il suo confine era Capo di Buona Speranza; quando divenne Sudafrica il confine divenne ogni luogo del mondo.
Quando il sudafrica divenne Sudafrica, fu il giorno della fine del regime, che preferì, obbligato dalla realtà ma non per vocazione, cedere il potere senza combattere. De Klerk si dimostrò abile, scambiando dominio con sopravvivenza, apartheid con collaborazione. Venne allora il giorno di Mandela, tra le figure più belle della storia del ventesimo secolo.
Ribelle, guida di tutto un popolo, figura indomabile di combattente. Questo è stato ed è Nelson Mandela. Nessuna prigione lo trasformò mai in un detenuto: fu prigioniero, ostaggio non collaborativo, simbolo e guida della rivolta della maggioranza. La sua detenzione era inutile, perché è inutile tentare di imprigionare lo spirito di un uomo libero e, meno che mai, di un popolo che vuole diventarlo.
Tra poche ore si apriranno le celebrazioni del campionato mondiale. Coreografie a parte, tifo escluso, sarà una celebrazione diversa da tante altre. Celebrerà, prima e oltre il campionato del mondo di calcio, l’ingresso del Sudafrica nel mainstream, come fosse un atto di nascita dell’identità internazionale di un paese. Un paese che si definisce “Rainbow Nation”, arcobaleno, per descrivere un territorio libero da discriminazioni razziali.
Per questo non leggerete ora pronostici e previsioni, discussioni tecniche sulle diverse squadre e allenatori. Siamo seriamente occupati a gustarci con gli occhi gli abitanti del Sudafrica divenuti padroni del loro paese. Per la prima volta, gli stranieri sono ospiti paganti, non occupanti.
Prosit.
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di Fabrizio Casari
Non è certo stata una partita felice, quella disputata ieri sera con il Messico dalla nazionale italiana. Vero che si trattava di un’amichevole a fine preparazione, vero che al mondiale mancano ancora dieci giorni e vero anche - almeno si spera - che nella competizione l’Italia saprà trovare energie e stimoli d’altro tipo. Lo staff tecnico e i giornalisti embedded sostengono che è tradizione non disputare partite eccellenti prima della competizione, anche nel 2006 successe.
Però perdere con i discendenti degli atzechi non è consuetudine per una squadra europea, meno ancora se questa risulta essere campione del mondo in carica. Non a caso, le altre grandi del calcio - europee o sudamericane - hanno comunque vinto le amichevoli disputate e, in generale, dato segnali migliori sul loro stato di forma. Tanto per fare un esempio, lo stesso Messico che ieri ci ha fatto penare, aveva subito da pochi giorni una sconfitta dall’Olanda che pure era priva dei suoi 4 migliori giocatori.
Ieri sera, invece, il film ha avuto un racconto diverso. Due gol (ma potevano essere tre, visto un rigore negato al Messico per un fallaccio di Zambrotta in area) e tante preoccupazioni per gli azzurri. Il Messico non è certo in vetta alla top ten del calcio, ma gioca abbastanza bene al calcio ed ha tre o quattro elementi di valore sicuro. Tatticamente tutt’altro che perfetti, i chicanos hanno però una buona corsa, una discreta tecnica individuale e una più che sufficiente amalgama tra i reparti. L’Italia è apparsa pesante sulle gambe e Lippi ha sostenuto essere conseguenza della preparazione intensiva in montagna, dove ci si è recati per abituarsi all’altura nella quale si giocherà in Sudafrica.
Ma quello che più fa pensare è che non dovrebbe servire - almeno in teoria - una squadra di fondisti e velocisti per contenere e battere una squadra come quella messicana. La tecnica e la tattica, il palleggio e la disposizione in campo, dovrebbero risultare sufficienti per aver ragione di un match con avversari di quel livello.
Semmai, oseremmo dire, il problema non pare essere solo quello della tenuta atletica a valle della preparazione. L’Italia, se vogliamo dirla tutta, ha evidenziato ben altri problemi. L’assenza di una chiara fisionomia di squadra e di un gioco collettivo. Il modulo scelto da Lippi sull'esempio dell'inter di Mourinho non funziona; pensare che Marchisio si reinventi Sneijder è come credere alle favole. E chi dovrebbero essere le controfigure di Eto'o e Pandev? Iaquinta e Di Natale? Abbiate pietà per i cuori deboli.
A questo va aggiunto che l’assenza di “piedi buoni”, che possono con le loro giocate cambiare di colpo le sorti di una partita, risulta un ulteriore handicap per gli azzurri, già zavorrati da una età media non eccellente. Idee in campo non ce ne sono e colpi di classe che possono determinare cambi di marcia improvvisi, che servono a costruire la superiorità numerica nelle zone vitali del campo, nemmeno l’ombra.
Per avere tutto ciò, sarebbero serviti i (pochi) talenti di cui disponiamo, che invece vedranno il Sudafrica solo nei documentari di Discovery Channel. Tenere fuori dalle convocazioni Cassano e Balotelli, che con Pazzini avrebbero formato un autentico pericolo per chiunque, e portare invece i fantasmi di Iaquinta (pure ieri non pessimo) e Camoranesi, risulta comprensibile solo allo spirito juventino del mister.
Aggiungete poi che il capocannoniere del campionato, Di Natale, viene spostato e defilato sulla fascia per far posto a Gilardino, che di gol non ne segna nemmeno la metà dell’attaccante dell’Udinese, e scoprirete che quello di Fatima non è l’unico mistero in voga.
Ma l’allarme più serio riguarda la difesa, sia come singoli che come reparto. Bruciata senz’appello in entrambe le azioni da gol, troppo sbilanciata in avanti sul secondo e troppo poco reattiva sul primo, sembrava partecipasse a una partita tra scapoli ed ammogliati. Vedere Cannavaro solo parente irriconoscibile di quello che fu, Zambrotta che ci propone costantemente l’interrogativo sul perché sia ancora in campo in quelle condizioni, con Buffon che ha smesso da tempo di occultare con i suoi miracoli i difetti difensivi, aiuta la formazione di nuvole dense su quello che ci aspetta quando dovessimo incrociare formazioni di ben altro spessore tecnico e fantasia.
Per ora nessuna condanna, ma dubbi decisamente superiori alla speranza.
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di Fabrizio Casari
In una conferenza stampa dal tono soft, avara di sorrisi ed orfana di battute memorabili, José Mourinho si è presentato al Bernabeu. Grande affetto per la squadra milanese che ha condotto al triplete e pochissime informazioni circa la sua nuova squadra e le strategie di mercato che dovranno parzialmente trasformarla. Ma il cammino spagnolo è cominciato e, nostalgia reciproca a parte, il dopo-Mourinho riguarda l’Inter molto più di quanto il dopo-Inter riguardi Mourinho.
A Milano, infatti, il toto-allenatore imperversa. In fondo è una situazione originale, anche se poco piacevole per i nerazzurri: non si ricorda, infatti, una squadra italiana che abbia vinto tutto in un anno, certo; ma nemmeno di una società così titolata e squadra così forte che non trovi un allenatore all’altezza pronto a sbarcare ad Appiano Gentile.
L’incertezza sul successore dello special one nasce da alcune considerazioni tutt’altro che banali: la consapevolezza che il migliore di tutti sia andato va bene solo per le premesse del ragionamento. A Corso Vittorio Emanuele si valutano invece le difficoltà di un’eredità quasi impossibile e, da qui, il convincimento che il nuovo allenatore della Beneamata non possa essere un uomo qualsiasi.
Le ipotesi sono quelle che si leggono sui giornali e possiamo passarle al setaccio per tentare d’individuare la strada che si percorrerà. Capello e Guardiola sono i big, mentre Benitez, Hiddink, Spalletti o Mihajlovic sembrano scelte subordinate. Ma, principali o subordinate che siano, tutte queste scelte hanno un loro coefficiente di difficoltà. Capello ha un contratto con la nazionale britannica e, alla vigilia del mondiale, difficilmente potrebbe dare un annuncio di fine corsa all’11 luglio.
Né lo farebbe la federazione, che rifiutandogli il rinnovo automatico otterrebbe solo di vedersi addossare la responsabilità di un mondiale che dovesse finir male; perché se l’Inghilterra vincesse, è chiaro, sarebbe merito di Don Fabio. Capello, però, che pare intenzionato comunque a godersi la pace di Londra e della sua casa spagnola di Marbella, vorrebbe con sé anche Baldini. Ma Branca è un fuoriclasse, è il regista di tutte le operazioni più importanti del mercato interista degli ultimi 5 anni (da quando cioè ha cominciato a vincere) ed incarna il nuovo andazzo di palazzo Saras: parametro zero o affari in plusvalenza; le campagne sciupone e perdenti sono di un’altra epoca.
C’è poi da aggiungere che Capello non raccoglie consensi unanimi a Corso Vittorio Emanuele: juventino dell’era Moggi e berlusconiano doc, é uomo di ferme promesse, ma incline a non rispettarle. Proprio per questo bisognerà attendere l’ultimo minuto utile per vedere.
Benitez, che comunque ha ancora un contratto con il Liverpool, è un grande tecnico e (cosa non secondaria) parla un’ottimo italiano. Considerato un uomo più da Champions che da campionato, ha il limite di pretendere di portarsi una pletora di collaboratori che all’Inter non ritengono necessari. Ma non é detto che, alla fine, non possa essere lui a sedere sulla panchina nerazzurra del Meazza. Stesso discorso per Spalletti. Lo Zenit non pensa affatto ad un suo prematuro addio alla Russia, ma...
Guardiola è un discorso a parte: campione in campo e in panchina di valore assoluto, è un’insegnante di calcio. Amico di Roberto Baggio (legato all’Inter e a Moratti, che vorrebbe vederlo con un incarico societario) avrebbe il favore di tutto lo spogliatoio. Guardiola é il Top e, non avesse fatto l’errore di scambiare Eto’o con Ibrahimovic, il Barcellona avrebbe avuto un’altra annata. Ma è legatissimo al Barcellona e appare difficile che il nuovo presidente dei bleugrana possa dargli il benservito. Ma se Guardiola, che con il Barca ha solo un’impegno verbale, dovesse dare la sua disponibilità ad andare all’Inter, verrebbe accolto a braccia aperte.
Hiddink è comunque legato alla nazionale turca e non pare che ad Ankara vedano con piacere andarlo via. Certo, potrebbe tenere entrambi gli impegni (Inter e Turchia), come già avvenne quando sedeva sulla panchina del Chelsea. E Mihajlovic? In teoria sarebbe il prossimo allenatore della Fiorentina, però a Firenze hanno alzato una polemica velenosa contro di lui. Sotto accusa le sue opinioni politiche sulla guerra nella ex-Jugoslavia. Tra l’inutile Della Valle e il fuggitivo Prandelli, ai viola mancavano solo le polemiche stupide. Il serbo potrebbe anche decidere, se l’Inter chiamasse, di mandare a quel paese la viola e i suoi intellettuali. La difficoltà è rappresentata dalla sua inesperienza e dai rapporti difficili con parte della società (Branca) e dello spogliatoio.
E allora? Si ritiene che in questo mazzo Moratti dovrà scegliere il nuovo allenatore e ha ripetuto, anche nelle ultime ore, di non avere fretta. Ma se invece la sua scelta non cadesse su nessuno di questi? Sarebbe curioso vedere, ad esempio, cosa risponderebbe Van Gaal ad una sollecitazione proveniente dai campioni d’Europa…
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di Fabrizio Casari
Speciale, non c'è che dire. Speciale nell'abilità di tecnico e di motivatore, certo, ma speciale anche nel cattivo gusto. L'addio di Josè Mourinho dall'Inter, va detto, ha deluso quanti ritenevano - e ritengono - che proprio agli esseri speciali tocchi un comportamento speciale. Invece no. Mourinho ha esposto una sorta di bancarella del cattivo gusto e di bugie sulle sue scelte che certo non gli permettono di lasciare Milano con tutti gli onori.
Mourinho ha dato tanto all'Inter e una grande parte del triplete nerazzurro é merito suo; ma anche l'Inter ha dato molto a Mourinho: una grande squadra, libertà assoluta, sostegno in tutto (anche in ciò che non convinceva), denaro e fama ulteriore. Se é vero che prima di Mourinho erano passati 45 anni dall'ultima Champions, é anche vero che prima di arrivare all'inter Mou non aveva mai fatto un triplete, tra l'altro con una filiera di vittorie simili. Dunque poteva e doveva finire con nostalgia reciproca, certo, ma con correttezza da parte di chi ha voluto interrompere il cammino comune.
E invece no, Mourinho ha scelto diversamente. Con tifosi, giocatori e società ancora in festa, solo due ore dopo il trionfo al Bernabeu, invece di accompagnare la squadra nel ritorno a Milano (dov'era attesa da 50.000 tifosi che, all'alba, l'hanno ricevuta festanti al Meazza) preferì andarsene sulla macchina di proprietà del suo nuovo Presidente, Florentino Perez. Nell'occasione lo stile di Mourinho é somigliato proprio a quello di chi si reca all'udienza di divorzio sulla macchina del nuovo amore che ha soppiantato quello precedente. Davvero un cafone speciale.
Alla vigilia della vittoria in campionato, a chi gli chiedeva di confermare le notizie che tutti i giornalisti già sapevano, cioè di un suo accordo già raggiunto con il Real Madrid, aveva risposto che il suo futuro non lo conosceva nemmeno lui e che dopo la fine della Champions si sarebbe dato alcuni giorni di riflessione nel suo buen retiro di Setubal per decidere. Moratti aveva in qualche modo voluto credere che le manfrine dello Special One fossero una tattica per un nuovo allungamento e ritocco verso l'alto del contratto, come del resto era avvenuto esattamente un anno prima, quando aveva agitato lo spauracchio del Real Madrid per rimpolpare il contratto.
D'altra parte, Moratti riteneva che esattamente il raddoppio della penale per la rescissione anticipata di uno dei contraenti, voluta tra l'altro da Mourino proprio in occasione del rinnovo, rappresentasse una chiara volontà di costruire un rapporto più lungo tra l'allenatore e la società. Del resto, rifletteva il Presidente dell'Inter, anche l'anno prossimo non saranno pochi gli stimoli: Supercoppa italiana, Supercoppa europea e Mondiale per club (la vecchia coppa Intercontinentale), che avrebbero potuto configurare, in teoria, persino un esa-trionfo, unico nella storia del calcio mondiale. Pareva questa, al presidente dell'Inter, medicina sufficiente per l'ego smisurato di Mourino.
Dunque si preparava a ritoccare ulteriormente stipendio e benefit all'imbronciato allenatore. Ultimo, ma non da ultimo, Moratti non era mai stato avvisato da Mourinho circa le sue intenzioni, e riteneva dunque che, per la correttezza del rapporto tra i due, il portoghese non avrebbe usato i giornali per annunciare decisioni così importanti. Anche perchè se lo avesse informato, Moratti si sarebbe mosso per tempo per assicurarsi Capello, Hiddink o Guardiola, che solo poche settimane addietro si sono impegnati con nazionali e club. L'Inter avrebbe avuto così un allenatore bravo e vincente quanto Mou.
Magari sembrerà malizia pura, ma dalla dinamica del comportamento di Mou emerge un disegno difficile da contestare: lo Special One aveva già deciso da qualche mese (lo sapeva persino l'allenatore della squadretta giovanile in cui gioca suo figlio) di andar via in caso di vittoria, ma non ha voluto dare modo a Moratti di attrezzare l'Inter con un altro big per la panchina.
Perchè? Perchè Mourino per primo sa che non sarà affatto semplice vincere con chi un tempo furono galacticos, ma che da diversi anni non vincono nemmeno un torneo di briscola, pur avendo messo quasi un miliardo di Euro sul mercato. E sa che, anche senza di lui, l'Inter resta una delle squadre che potrebbero stroncare i sogni europei della sua nuova compagine, che di pazienza ne ha poca e trita allenatori come le cipolle.
A maggior ragione se l'Inter avesse da subito ingaggiato Capello per la prossima stagione: sai che smacco per Mou e Florentino vedersi magari sconfiggere da Inter e Capello? Arricchire lui e rafforzare il Real attraverso l'indebolimento dell'Inter, insomma: anche per questo, con ulteriore e più grave cattivo gusto, prova a fare shopping nella squadra milanese e a svolgere il ruolo di procuratore (interessato) di Milito, salvo poi in un'intervista al quotidiano spagnolo online As, annunciare di conoscere bene le debolezze dell'Inter e come batterla. Poteva davvero risparmiarselo.
Adesso la situazione non è semplice da risolvere: Mourinho chiede a Florentino Perez di non pagare perché "non vuole che il suo presidente sborsi denaro inutilmente"; ma é ruffianeria verso il Real, destinata ad irrigidire ancor più l'Inter. La stessa Inter che - giustamente - pretende tutto il pagamento della penale prevista (16 milioni di Euro, pari allo stipendio di due anni dello Special One).
Li pretende anche sapendo che, a parti inverse, Mou li avrebbe pretesi. Che li paghi il Real o che li paghi Mou, poco importa, ma li pagherà il Real. Con quei 16 milioni l'Inter pagherà il suo sostituto o, forse, il nuovo campione destinato a sostituire chi dovesse partire. Il Real ha bisogno di lezioni di diritto, non di aiuti economici.
E se il procuratore di Mou, Mendes, racconta la balla dell'accordo verbale e minaccia di ricorrere al Tas, l'Inter sa che il ricorso lo vincerebbe Moratti e che anzi, se volesse, potrebbe denunciare Mou e Perez per violazione del regolamento Uefa e Fifa in ordine alle trattative illecite tra associati sotto contratto in altre squadre, cioè quello che Mou e Florentino hanno fatto nei mesi precedenti. L'accordo, è chiaro, si troverà, non è interesse dell'Inter tenersi i piatti sporchi del dopo festa e non è interesse del Real l'apertura di un contenzioso giuridico che lo condannerebbe, senza contare la figuraccia di annunciare un allenatore che non arriva.
per questo la vicenda si chiuderà a favore di Moratti. Sta a Mourinho trovare un modo per lasciare Milano da personaggio amato dalla metà della città o detestato. Sarebbe davvero da evitare una rottura brusca tra un uomo e una squadra che hanno vinto tutto e che si sono amati reciprocamente. L'importante é che Mourinho capisca che l'Inter non è il Pizzighettone e che se lui - come ebbe a dire all'esordio italiano - non è un pirla, meno che mai lo sono a Milano.