Dapprima Conte, quindi Oriali, poi Hakimi, adesso Lukaku. I principali protagonisti del 19 scudetto nerazzurro hanno lasciato l’Inter e non è escluso che altri big possano andare. A questo mesto elenco di addii si aggiunge l’arrivederci di Eriksen, che difficilmente giocherà nel prossimo campionato per ragioni di salute. Altro che difesa dello scudetto e caccia a quello numero 20. L’arrivo dei Simone Inzaghi sulla panchina e di Chalanoglu, entrambi colpi di qualità, non riescono a pareggiare nemmeno lontanamente le uscite, sia per valori assoluti individuali che per ciò che rappresentavano quelli che hanno lasciato.

Conte era il condottiero della squadra e Oriali ha tenuto il timone nei rapporti tra i giocatori, la società e i dirigenti, compito non semplice in un’annata drammatica fatta di rinunce e sacrifici. Un lavoro ben fatto, che ha evitato traumi e, anzi, ha favorito un clima sereno e amichevole tra tutti pur in un contesto così difficile.

L’uscita dall’Inter di Lukaku è particolarmente grave non solo per i gol segnati e fatti segnare (75 in 94 gare, un range pazzesco) ma anche perché era più di un calciatore, era uno schema, una soluzione, un reparto intero, una minaccia costante per gli avversari. E poi anche fuori dal campo era divenuto il simbolo dell’Inter di questi anni, uomo squadra dentro e fuori dal campo, ragazzo generoso e capace di costruire spogliatoio, dotato di leadership e personalità.

Pensare di sostituirlo non ha alcun senso e meglio sarebbe affidarsi alla coppia Lautaro-Sanchez piuttosto che prendere altri bolliti (vedi Dzeko) o sottostare a pretese fuori luogo quali Zapata, un trentenne che l’Atalanta pensa di cedere a 50 milioni di euro! Se davvero valesse così tanto l’Atalanta in questi anni avrebbe vinto qualcosa invece di collezionare belle figure e dolorosi stop.

L’addio dei migliori si deve alla crisi economica che attraversa l’Inter, determinata sia dall’assenza di pubblico allo stadio, con il conseguente crollo degli introiti della biglietteria e degli sponsor, sia dalla decisione del governo cinese di sospendere ogni finanziamento ed investimento estero non strategico per Pechino.

La cessioni e le possibili ulteriori uscite chiamano in causa anche la dirigenza, che ha avallato i capricci di Conte regalandogli giocatori bolliti ma carissimi (Vidal e Sanchez soprattutto, ma anche Kolarov) ed altri altrettanto scarsi arrivati prima di Conte (Naingollan o Lazaro, Dalbert o Shaquiri, solo per dirne alcuni, che in questi anni hanno tremendamente appesantito i conti della società. L’incapacità di cederli senza cospicue buonuscite, oltre ai milionari stipendi a Conte e Spalletti, hanno finito di peggiorare il quadro.

In attesa di capire quale sarà l’effetto domino possibile dell’uscita di Lukaku dall’Inter, se cioè verrà imitato da Lautaro Martinez o Bastoni, Skriniar o De Vrji (ovvero i giocatori con maggiori richieste dall’estero) quello che balza agli occhi è l’assoluta disinvoltura cinese nel montare e smontare con logica esclusivamente speculativa i progetti sportivi. In Cina ha smantellato la sua squadra vittoriosa nel campionato in 42 ore e in Italia ci sta provando. La corsa affannosa all’acquisto dei simboli ludici del capitalismo occidentale ha rivelato la parte più cinica di una classe dirigente incompetente in materia ed incapace di vedere a medio-lungo termine gli effetti di politiche sparagnine.

Sul piano sportivo il danno è evidente: per la prima volta nella sua storia l’Inter, tra le dieci società più titolate del mondo, si trova di fronte ad un così potente ridimensionamento. La raccolta di denaro in funzione di riequilibrio della esposizione debitoria è, nella sua logica, una decisione necessaria; pur tuttavia non funzionale dal punto di vista prospettico, perché smantellare una squadra ed impedirgli ogni trofeo in partenza, significa rinunciare ai denari che i trofei offrono ed all’aumento di finanziarizzazione da parte degli sponsor.

La squadra in mano a Inzaghi, se non subirà altri abbandoni traumatici, resta una buona squadra, certo, ma non al punto di intestarsi ambizioni di vittorie nazionali ed europee. Dunque, vendere Lukaku per incassare al netto non più di 60 milioni comporta dire addio agli introiti della Champions che salgono ad ogni turno che si supera e a quelli di scudetto e supercoppa italiana. Ogni vittoria nei gironi vale infatti 2,7 milioni ed ogni pareggio 900.000 Euro; 12 milioni per chi arriva in semifinale a cui aggiungerne altri 15 per chi vince la finale. L’Inter partiva da testa di serie, dunque con un girone facile dal quale vincendole tutte avrebbe incassato i primi 15 milioni. Vincere i gironi e la Coppa equivale ad un incasso dalla UEFA di 83 milioni, più merchandising e sponsor.

Sebbene l’Inter non arrivi alle vette del Real Madrid, che ha incassato solo di diritti commerciali di prodotti e brand a 365 milioni di euro nel 2020, è ipotizzabile indicare in oltre 150 milioni di euro e altri 24 milioni per una vittoria in campionato che non arriveranno nelle casse dell’Inter proprio perché la fretta di recuperarne 60 gli impedirà di affermarsi sportivamente. Per incassarne 60 se ne perdono potenzialmente 180.

La decisione di Suning, ma meglio sarebbe dire del governo cinese – di uscire dal calcio italiano ed europeo che conta, è rispettabile finanziariamente (il calcio costa e non ci si guadagna denaro, ma immagine ed influenza). Tuttavia è politicamente poco intelligente, visto che proprio il livello di pressione internazionale statunitense ed europeo sulla Cina avrebbe consigliato di mantenere presidi di immagine ed investimenti in Europa. Sarebbe stata una scelta più oculata, soprattutto se ci si propone come partners commerciale primario di governi ed imprese per la realizzazione di megaopere nel quadro della nuova via della seta.

Dimostrare come qualunque piano di investimenti sia soggetto a qualunque cambiamento per decisioni politiche nello spazio di ore, certo non rende affidabile né consigliabile per nessuno imbarcarsi con la Cina in progetti commerciali o infrastrutturali. Non a caso Suning cerca acquirenti senza trovarli. Andare a caricarsi un portafoglio in passivo e con un progetto sportivo in decadenza difficilmente emoziona gli squali della finanza. Altro che “a riveder le stelle”, qui si rivedono solo i conti.

“It’s coming to Rome!”, grida Bonucci davanti alle telecamere inglesi. Fa il verso a quel motto - football is coming home, il calcio torna a casa - che i nostri avversari ripetono da anni, a volte con ironia, altre con arroganza. La Coppa viene a Roma, 53 anni dopo l’ultima volta, 21 anni dopo la maledetta finale contro la Francia, nove anni dopo il poker subìto per mano della Spagna, tre anni e 9 mesi dopo il pareggio contro la Svezia che ci negò la qualificazione ai Mondiali russi. L’Italia è Campione d’Europa.

Senza stelle da copertina, gli azzurri hanno saputo imporsi con il gioco di squadra, dimostrando una coesione e un’intesa fra i giocatori che raramente si trova nelle nazionali. Fondamentale si è rivelata la panchina lunga: è vero, non avremo gente come Pogba o De Bruyne, ma possiamo contare su tanti cambi di qualità (soprattutto a centrocampo, con Pessina, Locatelli e Cristante). Una caratteristica ancora più decisiva ora che di cambi se ne possono fare cinque, ma soprattutto in grado di sopperire alle mancanze dell’attacco, dove manca un bomber capace di lottare spalle alla porta, come richiederebbe il gioco di Mancini (Immobile è una prima punta da profondità e Belotti non è un bomber).

Alla fine, però, nonostante il pressing alto e il possesso palla sfoggiato in queste sette partite, la chiave del successo italiano è sempre in difesa. Un dato su tutti: l’ultima partita persa dagli azzurri con Bonucci e Chiellini in campo risale al 2015. Se a quei due si aggiunge un’alternativa di livello come Acerbi e soprattutto un Donnarumma in versione Vallo di Adriano, oltre a infrangere il record d’imbattibilità di Zoff si può sperare anche di battere chiunque.

Eppure la finale contro l’Inghilterra inizia proprio con un errore difensivo: preoccupati di Kane, ci scordiamo sul secondo palo Shaw, abilissimo a insaccare con un sinistro al volo un cross a giro di Trippier. Wembley esplode, è una bolgia di gente in maglia bianca (anche perché i biglietti venduti ai tifosi italiani sono pochissimi, una vergogna). Per i primi 20 minuti dominano i padroni di casa e rischiamo di sbandare. Ma a quel punto l’Italia dimostra una qualità da grande squadra: invece di farsi prendere dall’ansia inizia a gestire il pallone, fa calmare gli avversari, entra in partita con la testa e comincia a giocare come sa. Le statistiche finali diranno che il possesso palla è nostro al 62%, per un totale di 20 tiri contro 6 degli inglesi. E tanti saluti al catenaccio.

Il pareggio arriva però solo al 67esimo, quando Bonucci, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, ribatte in rete una grande parata di Pickford su Verratti. Il gol era nell’aria da tempo, ma non era ancora arrivato proprio per la bravura del portiere inglese (bellissimo anche il suo intervento su Chiesa qualche minuto prima) e per le solite difficolta di Immobile.

Il Ct se ne accorge e cambia: fuori il centravanti della Lazio, dentro il falso nueve del Sassuolo, Mimmo Berardi. Una mossa vincente, come Cristante per lo stanco Barella, mentre quelle successive (dentro Bernardeschi, Belotti, Locatelli e Florenzi al posto dell’infortunato Chiesa, Insigne, Verratti ed Emerson) fruttano meno del previsto.

Per fortuna, i cambi di Southgate si rivelano un disastro. L’allenatore inglese – che nel 1996, da giocatore, sbagliò il rigore decisivo in semifinale contro la Germania – si tiene le sostituzioni in vista dei tiri dal dischetto e alla fine inserisce Rashford e Sancho proprio per farli tirare dagli 11 metri. Peccato per lui che sbaglino tutti e due: il primo prende il palo, mentre il secondo si fa parare il tiro da Donnarumma. Stessa sorte per il giovanissimo Saka, che a 19 anni forse non era pronto per una responsabilità del genere. Tra gli azzurri, invece, sbagliano Belotti e Jorginho, mentre vanno a segno Berardi, Bonucci e Bernardeschi: finisce 4-3 per noi.

“Siamo stati bravi, abbiamo preso gol subito e siamo andati in difficoltà, ma poi abbiamo dominato la partita – le parole di un Mancini con gli occhi lucidi – I ragazzi sono stati meravigliosi, questa vittoria è importante per tutta la gente, per tutti i tifosi, siamo felici. La squadra è cresciuta tantissimo e può migliorare ancora, sono orgoglioso dei miei ragazzi, non ho parole. Appuntamento al Mondiale? Godiamoci questo. Oggi si è chiuso un cerchio, i nostri ragazzi sono stati incredibili”.

Abbiamo ridefinito il concetto di “sfangata”. La sportività dimostrata dagli spagnoli prima e dopo la semifinale di martedì sera ci impone la massima onestà: i nostri avversari hanno dominato la partita quasi per intero. Alla fine, però, abbiamo vinto noi. Come abbiamo fatto? Le ragioni principali sono tre.

La prima ha a che vedere con la Spagna. La nazionale guidata da Luisa Enrique non rinnega la filosofia di gioco della Roja imbattibile di qualche anno fa: possesso palla esasperato, circolazione veloce, pressing e recupero alto del pallone. Il problema è che quando a eseguire questo schema era un centrocampo animato dal genio di Iniesta e di Xavi, alla fine il tiki taka portava sempre qualche giocatore solo davanti al portiere. Ora non è più così: la nuova generazione spagnola gioca bene, mantiene il possesso e fa correre a vuoto gli avversari più di chiunque, ma in fase di finalizzazione è assai meno efficace che in passato. A ben vedere, martedì sera gli spagnoli hanno tenuto le redini del gioco per quasi tutta la partita, ma alla fine non hanno avuto un numero di occasioni da gol molto superiore a quello degli azzurri.

La seconda ragione del successo italiano è da ricercare in casa. Malgrado la Spagna non sia più la corazzata che ci distrusse nella finale dell'Europeo del 2012, resistere all'assedio rosso per 120 minuti non è da tutti. Ci è voluta anche una certa umiltà: gli uomini di Mancini hanno dovuto accantonare per una sera la strategia offensiva messa in mostra nelle prime cinque partite della competizione e ripiegare su un più classico e nostrano catenaccio-e-contropiede. Peraltro, i giocatori per fare male in ripartenza non ci mancano, tanto è vero che il gol di Chiesa arriva proprio al termine di un contrattacco in velocità da manuale. L'unica nota stonata della serata riguarda Bonucci e Chiellini, che sporcano una prestazione pressoché eroica facendosi bucare al centro da una triangolazione fra Dani Olmo e Morata. Alla fine l'attaccante spagnolo, compagno di squadra dei centrali azzurri nella Juventus, segna il gol del pareggio nell'unico modo possibile per il gioco della sua squadra: entrando in porta con la palla.

Il terzo e ultimo fattore è la fortuna, una componente sempre necessaria negli scontri che finiscono ai calci di rigore. È vero, avevamo il vantaggio di iniziare a battere, per di più nella porta davanti alla curva occupata dai tifosi italiani. Ma dopo l'errore iniziale di Locatelli c'era il rischio di cadere in una spirale mortifera, anche perché Mancini – autore di più d'una sostituzione discutibile – aveva levato dal campo quasi tutti i principali rigoristi della squadra (Immobile, Verratti, Insigne). Battere gli spagnoli presentandoci sul dischetto con Bellotti e Bernardeschi non era affatto scontato, ma ce l'abbiamo fatta, anche perché a tradire gli iberici è stata proprio la coppia che poco prima aveva confezionato il gol del pareggio: Dani Olmo e Morata.

La semifinale vinta martedì sera con la Spagna è probabilmente uno dei successi più faticosi e sorprendenti nella storia della nazionale italiana. Ora dobbiamo essere bravi a sfruttare questi giorni per recuperare le energie fisiche e mentali necessarie per affrontare nel migliore dei modi la finale di domenica.

Nove volte su dieci, quando una squadra con il bel gioco incontra una squadra con i campioni, la squadra con il bel gioco viene sconfitta. Non è andata così in Italia-Belgio, che ha visto le stelle di Lukaku e di De Bruyne eclissarsi di fronte alla voglia degli azzurri di giocare a calcio insieme.

È vero, sul 2-1 che ci manda in semifinale contro la Spagna ha un peso non secondario la Dea Fortuna, intervenuta a nostro favore sia prima della partita (Eden Hazard fuori per infortunio, De Bruyne non al meglio per un problema alla caviglia) sia durante l'incontro (almeno due occasioni solari mancate dai nostri avversari nella ripresa, di cui una con un salvataggio clamoroso quanto fortuito di Spinazzola su Lukaku).

Un girone molto facile, con tre avversarie ben più deboli del previsto, ci aveva illuso di avere una “macchina da guerra”, per usare le parole di un telecronista grottescamente incline all’enfasi. La partita contro l’Austria ci ha svegliato dal torpore. Alla fine gli azzurri ce l’hanno fatta di nuovo, ma la vittoria ha richiesto una dose di fatica ben superiore al previsto (e anche una discreta porzione di fortuna: vedi il gol annullato ad Arnautovic).

Certo, i meriti degli avversari non vanno sottovalutati. La formazione austriaca sarà anche priva di capacità tecnica, ma è organizzata, si difende bene occupando ogni centimetro ed è capace di un pressing asfissiante. Corrono, inseguono, all’occorrenza picchiano.

Quanto agli azzurri, i problemi iniziano in difesa. Acerbi è un ottimo difensore, ma non ha l’esperienza internazionale di Chillini, né la sua capacità di comandare la difesa. Bonucci, invece, vive una serata a dir poco negativa, mancando una serie di anticipi che una volta avrebbe portato a casa a occhi chiusi e riuscendo nell’impresa di far sembrare Arnautovic un giocatore di calcio professionista.

A centrocampo i guai sono fisici. Verratti non sta bene e si vede, mentre Barella è condizionato dalle botte che riceve nella prima fase della partita. Jorginho gioca una gara ordinata, ma gli manca sempre il guizzo, la giocata capace di trovare spazio dove gli altri non ne vedono.

In avanti, Berardi è il più appannato e non riesce mai a dialogare con i compagni di reparto. Immobile, incastrato nella difesa muscolare austriaca, cerca palloni tornando indietro e colpisce l’incrocio con un tiro da 30 metri (l’unica occasione della sua partita).

A decidere l’incontro in favore dell’Italia sono tre cambi di Mancini: Locatelli per Verratti, Pessina per Barella e Chiesa per Berardi. Gli ultimi due subentrati sono gli autori dei gol che ci portano ai quarti di finale. Si può pensare che il Ct abbia sbagliato la formazione iniziale e che se avesse messo dal primo minuto questi giocatori avremmo sofferto meno. Il ragionamento è forse plausibile per Locatelli, vista la condizione di Verratti. Un giocatore effervescente come Chiesa, invece, è probabilmente più efficace quando entra in campo a partita in corso, quando gli avversari sono stanchi e faticano ancora di più a stargli dietro.

La mossa di Mancini più difficile da comprendere è l’ingresso di Belotti per Immobile. L’attaccante del Torino è generoso, protegge il pallone, subisce falli e fa salire la squadra. Ma ha un problema: non segna mai. Il suo utilizzo ha senso quando abbiamo un risultato di difendere; se invece dobbiamo buttarla dentro in qualche modo, non ha senso privarsi di Immobile. Il centravanti della Lazio sarà pure lontano da quello che ha vinto la scarpa d’oro, ma il suo senso del gol non è paragonabile a quello di Belotti.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy